La Guerra di Candia (1645-1669). XII parte

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Francesco Morosini (Venezia, 26 febbraio 1619 – Nauplia, 6 gennaio 1694). Capitano Generale da Mar

La Guerra di Candia (1645-1669). XII parte

Assedio di Candia.

Era stato nuovamente nominato capitan generale Francesco Morosini, e costante si mostrava la Repubblica nella difesa, sebbene non intermettesse mai nello stesso tempo di tener vivi i maneggi di pace. Erano in Candia seimila uomini di truppe regolari, oltre agli abitanti capaci alle armi e prontissimi alle fazioni; non mancavano esperti ufficiali ed ingegneri eccellenti; più di quattrocento si numeravano i cannoni tutti di bronzo e in gran parte di grosso calibro; i viveri e le munizioni abbondavano e spalleggiandosi dall’armata i soccorsi, togliendoli invece, come raccomandava il Senato, e specialmente l’arrivo di viveri ai Turchi, ognuno bene si prometteva del cimento.

Era il 28 maggio quando Ahmed Koprili di mano ad aprire le trincee intorno a Candia sotto il fuoco di trecento cannoni. Videro i difensori innalzarsi dai Turchi gran massa di terra cavata da fosse profonde, dentro alle quali come altrettante caverne alloggiando, instancabilmente operavano. “Sette batterie di lontano piantarono (così descrive il contemporaneo e ben istruito storico Nani le operazioni di questo memorabile assedio) per difendere le opere loro et andarle avanzando. Né solo si servirono di cannoni, ma di mortari in gran numero. Era perciò terribile il tuono incessante dell’artiglierie, che con palle di grandissimo peso squarciavano le muraglie, e fracassavano i tetti; né men molesto il flagello delle bombe, e sopra tutto de sassi, che volando, e portando per aria la morte, non lasciavano ai difensori alcun momento certo, né alcun luogo sicuro. Ma nella città stando ben disposte le cose, non appariva spavento, né si curava il pericolo. Era di lontano battuta la Corona Santa Maria, ma la mezzaluna Mocenigo più da vicino assalita, il rivellino Betlemme, e più di ogni altra, l’opera a corna del Panigrà. I difensori con le controbatterie inferivano strage in ogni parte a nemici, e con frequenti sortite li travagliavano, uccidendo le guardie et i guastatori, disfacendo trincee e ridotti, in che il colonnello di Chateauneuf si segnalò, e la militia savoiarda riportò grandissima laude.

Ma poste in uso le opere sotterranee, non si può dire con quanta fierezza d’ambe le parti s’incrudelisse, ora volando semiarsi gli uomini in aria, ora vivi restando sepolti, perciò riempiendosi di polvere le cave, e dandole fuoco, con grande elevation di terreno e non minor scuotimento scoppiando, distruggevano tutto. Nelle gallerie o per guadagnare i rami, o per contendere al nemico i progressi, ad ogni ora s’incontravano i soldati, combattendo al buio, e nell’orrore di quegli oscuri recessi, et in particolare con le granate, et anche si battevano con le mani, quando l’angustia de luoghi non permetteva altro uso dell’armi. I Turchi profondavano sin sotto i lavori de Venetiani, e questi all’incontro s’invisceravano tanto, che con la fatica procuravano deludere l’arte; e bene spesso accadeva, che penetrando gli uni più a basso, facevano volar quei, che nell’istesso tempo pensavano distruggere chi sopra stava. Si confondevano pertanto in comune sepolcro le membra lacere et i cadaveri degli amici e dei nemici, e correvano in quelle caverne indistintamente rivi di sudore e di sangue. Tanto veniva permesso dalla qualità del terreno che facilmente cede alla zappa; e come i Veneti avevano scavato gli anni addietro sia al filo dell’acqua, così l’estrema siccità di quest’anno tollerava, che molto più penetrar si potesse, di modo, che i lavori andavano più di novanta piedi sotto la controscarpa. Ma i Turchi accostandosi all’opera del Panigrà diedero principio a più calde azioni, tentando con fornelli di spianare i bonetti avanzati, e con assalti occuparli, et all’incontro i difensori con l’arti medesime contendevano loro i progressi. Si vedevano perciò volar in aria le genti, che si preparavano d’andar all’assalto, e sottentrando altre squadre, se trovavano spianati i terreni, s’affacciavano loro altri nuovi ripari innalzati in momenti con pali e con sacchi, che riempiti di terra formavano un’altra difesa. Molti bravi ufficiali et i migliori soldati morivano, né valeva il ripartirsi o coprirsi, poiché dal seno della terra scoppiando sotto i piedi la morte, perivano indistintamente i più valorosi et i vili. Alla fama di cosi celebre assedio molti cavalieri si mossero volontari da ogni parte di Europa, e tra i più cospicui furono il baron Gustavo di Wrangel svedese et il cavalier d’Arcourt francese, che ancor giovanetto, sbarcato con quaranta persone di suo seguito, diede saggi di estremo coraggio, fin a tanto, che gravemente ferito in testa, convenne con dispiacer suo ritirarsi”. Dal maggio al novembre 1667 avvennero trentadue assalti, diciassette sortite, seicentodiciotto mine erano scoppiate tra l’una parte e l’altra, perirono tremila duecento de Veneziani, con quattrocento ufficiali, ben ventimila dei Turchi, che costretti furono a ritirarsi a qualche distanza. Ciò che non aveano potuto per le armi, tentarono con le seduzioni, con le minacce, ma tutto invano, che ogni soldato, ogni abitante di Candia era un eroe, le donne stesse combattevano, prestavano opera alle fortificazioni, e ad ogni bisogna diligentemente provvedeva il Senato con numerosi convogli di munizioni e di viveri che quasi ogni mese partivano da Venezia; resistenza, perseveranza uniche negli annali della storia militare.

In questa condizione erano le cose, quando arrivò il nuovo capitano generale Francesco Morosini. Durante l’inverno l’una parte e l’altra diedero opera a rimettere in buono stato le fortificazioni, a costruirne di nuove, a prepararsi a nuovo e terribile conato all’aprirsi della stagione. Grande perdita fu quella del marchese di Villa richiamato dal duca di Savoia suo signore, in cui luogo fu dalla Repubblica stipendiato Alessandro de Puy marchese di Sant’ Andrea; ma il nuovo papa Clemente IX, molto più del suo predecessore infervorato per le cose di Candia, aiutava quanto più poteva la Repubblica e vi esortava i principi, onde oltre ai soccorsi della Francia, ventimila scudi furono contati dal duca di Lorena per ammassare truppe e mandarle in Candia, la regina di Spagna promise, benché poi le promesse restassero senza effetto, le sue squadre di Napoli, e ordinò a suoi ministri di dare assistenza, ma nulla fu fatto; l’imperatore inviò seicento fanti ai confini, e poi tremila alla fine dell’anno ne spedi sotto il comando di Enrico di Chimensech; mandò il gran duca di Toscana un reggimento, mandò il duca di Milano cinquantaquattro botti di polvere, altrettanta ne fornirono i Lucchesi; alcune munizioni e danaro inviò altresì qualche principe di Germania. Con tali sussidi, inferiori certamente di gran lunga al bisogno, osserva il Nani, si aperse la campagna del mille seicento sessantotto, o continuò piuttosto la precedente, solo dall’inverno e per la comune stanchezza interrotta, non si però che frequenti avvisaglie ed esplosioni di mine di tempo in tempo non succedessero.

Battaglia navale alla Standia

Nei primi giorni di marzo, il vezir meditando togliere ai Veneziani in Candia l’opportunità dei viveri, fece tacitamente uscire una squadra per battere quella con cui Lorenzo Cornaro scorreva le vicine acque, incaricandone Chalil Pascià, e con lui Durac famoso corsaro, con l’ordine di tenersi in agguato, sorprendere le navi veneziane, portarsi poi alla Standia, e occupato uno dei porti, fortificarsi, incendiare e distruggere i legni della Repubblica. Ma penetrato dal Morosini il suo pensiero, uscì prestamente di Candia, e unite venti galee si spinse nella notte del sette di marzo a quella volta, per modo che sopraffatti i Turchi, i quali crederono essere il Cornaro con la solita squadra, gli assalì con gran forza e pari coraggio. Riuscì aspro e duro il combattimento, reso più tremendo dall’orrore delle tenebre. Due galere nemiche che assalito avevano la Reale della Repubblica vennero in mano dei Veneziani; Durac stava per occupare la galea di Nicolò Polani, quando accorsovi il Morosini a lune di torcia fece nella nemica entrar le sue genti. A quell’improvviso splendore, creduto di fuochi artificiali; tale fu lo sbigottimento dei Turchi, che caduto estinto Durac, fatto macello della milizia, restò ai Veneziani la vittoria, e con essa vennero in loro potere cinque galere, quattrocento prigioni, più di mille schiavi cristiani che furono liberati, onde fu il Morosini altamente lodato, e dal Senato creato cavaliere.

Gentiluomini francesi al soccorso di Candia. Dopo un’infelice sortita si partono.

Il vezir intanto spinto sempre più vivamente dalle notizie di Costantinopoli e dalle minacce del Sultano incalzava con ogni studio l’assedio, non badando punto al sacrificio di migliaia di vite, purché lo scopo conseguisse; tre volte in uno stesso giorno occuparono i Turchi un bonetto sulla controscarpa della Sabbionara, e altrettante ne furono respinti; si incendiò per la furia dei colpi l’officina ove i fuochi artificiali si preparavano, lo scoppio, l’immenso fragore, le fiamme sparsero per qualche momento, non sapendo che cosa si fosse, lo spavento negli abitanti che gridavano al tradimento, ma quando ne conobbero la causa, ripreso animo, diedero opera allo estinguere e tornarono alla difesa con lo stesso se non maggior ardore di prima. Così era un combattere continuo, un perdere e riprendere di forti, uno scoppiare e sventare di mine, un misurarsi da corpo a corpo, una ferocia, un accanimento senza pari; nella città ogni fabbrica demolita, gli abitanti vivevano nelle caverne, e i soldati o stavano esposti sopra le brecce a tutti i pericoli, o mal sicuri nei fessi delle muraglie; erano di cadaveri pieni i cimiteri, di malati o feriti gli ospedali, il presidio ridotto a soli cinquemila uomini, i guastatori quasi del tutto consunti, e fu uopo domandare rinforzi all’armata. Il nome di Candia suonava famoso in tutta l’Europa, tutti gli occhi erano rivolti a quel breve spazio di terra sul quale da tanti anni succedevano sì mirabili prove di valore; il romanzesco dell’impresa, il desiderio di gloria, il poter vantare di aver fatto altresì le proprie prove in un si famoso conflitto eccitavano specialmente tra i Francesi molta nobile gioventù ad accorrere volonterosa in quel luminoso arringo. Il duca de la Feuillade si fece capo di cinquecento ufficiali per la maggior parte da lui stesso pagati, e con lui erano i duchi di Castel Thierry e di Caderousse, il conte di Villemor, il conte di Saint Pol principe di Neuchatel che contava appena diciassette anni di età, parecchi degli Aubusson, dei Crequì ecc. Ma giunti che furono a Candia quella condizione di semplice difesa gli impazientava, vedevano svanirsi i loro sogni di fatti cavallereschi, splendidi di meravigliose azioni, stupivano che al solo loro arrivo le cose non avessero mutato aspetto e sollecitavano con tutta insistenza una sortita dalla quale si ripromettevano niente meno che di obbligare i Turchi a levare l’assedio.

I Veneziani però che già avevano fatto tante sortite, che già tanti assalti avevano sostenuti e gloriosamente respinti, erano ben lontani dal lasciarsi trasportare dall’ardore di una gioventù inconsiderata ed inesperta, e attendendo prossimo un respiro per l’avanzata stagione che fra poco avrebbe obbligato i Turchi a desistere, stimavano a ragione una vera pazzia il commettere tutta la loro sorte all’esito di una battaglia generale.

Ma i Francesi insistevano tanto, che al fine il Morosini dovette suo malgrado consentire che il duca di Feuillade corresse da sé il pericoloso cimento come si offriva coi suoi, con un battaglione di maltesi e un centinaio di granatieri italiani che seppe trascinare nel medesimo proponimento. Era il 16 di dicembre, quando alla punta del giorno uscirono divisi in quattro squadre con guide pratiche dei confusi sentieri del campo che presentava un vero labirinto intralciato ad ogni passo da barricate e traverse, da trinceramenti e difese d’ogni genere. Tuttavia diedero addosso con tanto vigore al nemico, che secondati dalle batterie della piazza e dal continuato fuoco dei moschettieri, poterono cacciarlo in fuga da un posto, ma tosto altri, e in gran numero correvano. Il conflitto diveniva micidiale, tremendo; quattro cappuccini e due padri dell’Oratorio che in qualità di cappellani avevano seguito il valoroso drappello, col crocifisso in mano i combattenti esortavano, ai feriti soccorrevano. Il duca scorreva tra il ferro ed il fuoco intrepidamente, si mostrava per tutto, animava i suoi, provvedeva ad ogni cosa. Ma la lotta era troppo impari, e fu uopo alfine ritirarsi; i conti Villemor, Tavanes ed altri furono uccisi, più di sessanta furono i feriti, fra i quali il d’Aubusson, il Montmorin, il Crequi; ultimo a rientrare fu il Feuillade riportando tre ferite. Tale fu il termine di questa sortita, che per vero dire fu una fazione vigorosissima, ma di nessuna utilità, perchè mancò il fine principale che deve avere una sortita, quello cioè di dare molestia ai nemici e guastare le loro fortezze.

E con la medesima impazienza con che aveano voluto uscire ad affrontare il nemico, vollero ora i pochi superstiti, credendo aver fatto abbastanza per l’onore, rimbarcarsi portando seco il germe della peste che finì di decimarli durante il viaggio. Così nessun sollievo era stato da loro recato all’afflitta Repubblica, la quale solo quanto più si avvicinava agli estremi sembrava eccitare le simpatie, come or diremmo, dell’Europa. Essa in questa sola campagna, come l’ambasciatore Antonio Grimani fece vedere in apposito registro a papa Clemente, avea mandato in Candia novecento settanta quattro mila ducati in danaro contante, ottomila settecento soldati oltre gli ausiliari, due mila guastatori, mille remiganti, duecentovent’un bombardieri, sessanta operai di vari mestieri, grani e formento, farine, biscotti cento sessanta mila staia; quarantun pezzi di cannone, armi di più sorte in gran quantità; polvere due milioni ottocento settantanove mila libbre, miccia settecentotrentamila, piombo novanta mila, ed inoltre infinito apprestamento di ferro, legnami, fuochi artificiati, vestiti, ordigni ed altro onde solo in quest’anno 1668 costò il mantenimento di quella piazza ben quattromilioni trecentonovantaduemila ducati; somma a cui il papa restò stupefatto, e concesse quindi la soppressione di tre Ordini regolari, cioè San Giorgio in Alga, i Gesuati e Santa Maria delle Grazie, e l’incameramento dei loro beni che diedero il ritratto di oltre un milione di ducati, reiterando in pari tempo con novella efficacia le sue istanze presso alle varie potenze onde al soccorso di Candia sovvenissero.

Ogni ulteriore resistenza diviene impossibile.

Gli eccitamenti del papa, i maneggi di Giovanni Morosini presso il re di Francia valsero ad ottenere da questo la deliberazione di aiutare la Repubblica con l’armata navale sotto il comando di Francesco di Vandone duca di Beaufort, e imbarcarvi sopra dodici reggimenti dei più agguerriti sotto il duca di Noailles. Anche dal resto d’Europa, perfino dalla Svezia accorrevano genti stipendiate o volontarie, ma intanto che codesti soccorsi venivano, la piazza ridotta agli estremi continuava nella sua meravigliosa resistenza, e ad ogni avvicinarsi del nemico gettava fuoco da tutte le parti, il terreno s’approfondava, sbalzava sotto i piedi dei Turchi, e lanciava in aria uomini, batterie, cannoni, quanto vi si trovava, terribile sopra ogni altra fu una mina di sedici mila libbre di polvere al cui scoppio pareva tutta l’isola avesse a subissare, e a ravvolgere nel medesimo fato assalitori e assaliti. Il forte Sant’Andrea versava in grande pericolo; i Turchi non potendo guadagnare il bastione volsero l’opera a demolirlo e con inaudito esempio, suggerito come si vede dalla disperazione, ne strappavano con le mani la terra e a forza di braccia la portavano lontana. Si contendeva pertanto per ogni palmo d’arena, ed essendo le guardie da una parte e dall’altra sì vicine, non solo combattevano, corpo a corpo, ma si aggrappavano a vicenda, si trascinavano ne propri ridotti. E ben si vide quanto possa la pertinacia ed il lavoro di molte mani, che il bastione fu quasi del tutto demolito, e più non restava se non una stretta striscia di terra, e quella ancora ferocemente disputavano i difensori che più volte respinsero i Turchi, e poi costretti a lasciarla la fecero saltare in aria. Ebbero a piangere i Veneziani molte morti, quella principalmente di Caterino Cornaro che mentre il 13 di maggio stava ordinando, secondo il solito, alcune cose per la difesa, fu colpito dallo scoppiare d’una bomba e cadendo tra le braccia degli assistenti, ancora morendo raccomandava la difesa del Sant’Andrea. Arrivavano in buon punto alla metà di giugno i soccorsi francesi e veneziani, ma colla solita impazienza francese, volle anche il Noailles, malgrado l’esempio precedente del duca della Feuillade, che si facesse una sortita senza neppur attendere l’arrivo del resto delle truppe. Si opponevano il Morosini e lo stesso conte di Monbrun, ma l’ostinazione del Noailles e del Beaufort la vinse, e con seimila uomini a piedi e settecento a cavallo uscirono nella notte che precorse il 25 di giugno dalla porta di Sabbionara. “Passava concerto, così racconta il Nani l’avvenimento, che quando fossero i Francesi alle mani con il nemico, il sergente generale Chimensech uscisse lungo il mare, et attaccasse le batterie, che infestavano la porta et il fianco della Sabbionara, e che le galeazze battessero il posto del Lazzaretto, e le navi i quartieri dalla parte del Giofiro; ma come l’impiego dell’armata, sempre incerto, fu all’ora impedito dal vento, così si scusò il Chimansech dalla sortita, perchè nel tempo di farla ritornarono indietro disordinatamente i Francesi. Stettero questi fuori delle muraglie avanti giorno chetamente col ventre a terra aspettando il segnale della mossa, quando, dato prematuramente, non essendo ancora sgombrata l’oscurità della notte, insorsero tutti con mirabile coraggio e meravigliosa ordinanza; ma non scorgendo la strada, né discernendosi tra loro stessi, una delle squadre avanzate si batté con un’altra credendo di aver incontrato i nemici. Si rimisero però presto, e di buon passo, inoltrandosi in quelle inviluppate trincee, uccidevano quanti tentavano di resistere. Occuparono arditamente tre ordini di quei ridotti, e giunti alle batterie, le trovarono abbandonate, perciò lo spavento aveva confuso i Turchi di modo, che lasciata senza difesa ogni cosa, fuggendo si ritiravano sopra alcune colline. Pervenuti con felicità i Francesi ad una batteria in luogo eminente, che chiamano delle Grotte, il Cielo fece vedere con uno dei suoi colpi, che la vittoria non dipende dalla mano degli uomini, ma scende dall’alto, e che il coraggio è uno spirito di Dio, che soffia e svanisce a suoi cenni. Caduto, non si sa come, fuoco sopra alcuni barili di polvere, si accesero con morte di trenta soldati; ma ciò credutosi dai più lontani una mina, cagionò tal terrore, che volte le spalle e senza esser inseguiti fuggendo, rotta ogni ordinanza, e rovesciandosi i battaglioni l’uno sopra l’altro, gettate l’armi da molti, tutti nell’istesso disordine involti, corsero verso la piazza. Teneva Noailles collocato un grosso in sito proprio a rompere la comunicazione del campo, et ad opporsi a soccorsi, che venissero dall’altra parte; et avevano questi prosperamente battuto una partita di Turchi, che il visir vi spingeva, quando vedendo la fuga degli altri, invece di sostenere l’empito dei nemici, che scendevano dalla collina, si lasciarono rapire dalla confusione comune. Il duca con la spada in mano, operò meraviglie, e do per tutto, procurò di opporsi a nemici, e di rimettere i suoi, castigando, minacciando, pregando; ma indarno, perchè non si udivano nel tumulto le voci sue, né si obbedivano per timore i comandi. Convenne in fine egli pur ceder, mentre i Turchi scesi dai colli, accrescevano il danno e lo strepito, castigando con veri colpi il falso timore dei fuggitivi. Il capitan generale, che dal forte di San Dimitri vedeva l’esito infausto della sortita, uscì dalla porta per sostenere la ritirata, ordinando a suoi, che col cannone e coi moschetti frenassero l’ardir dei nemici. Alcuno voleva, che riordinati e rimessi sotto il calore della piazza, per non restare con la viltà e la vergogna, si replicasse nuovo attentato, ma il duca afflittissimo per il caso, scorgendo le milizie non meno sbigottite che stanche, comandò, che rientrassero nella piazza. Si trovò mancarne cinquecento quasi tutti uccisi, perciò otto o dieci soli restarono prigioni in potere dei Turchi . . .”

Tra le perdite dolorose fu quella del duca di Beaufort, che ebbe sontuosi funerali e degni elogi a Venezia e a Roma, e sebbene alcune altre sortite si eseguissero, l’esito non corrispondeva alle aspettazioni, alle speranze.

Francesi più ormai non pensavano che alla partenza; vane tornarono le rimostranze, le preghiere del Morosini per ritenerli, vani i pianti, vane le suppliche degli abitanti. Il 21 d’agosto il duca di Noailles si imbarcava seguito poco dopo dalle galere papali, dai Tedeschi e dai Maltesi, in guisa che i Veneziani si trovarono ridotti a tremila uomini, quando i Turchi avvisati di quanto accadeva nella città, inorgogliti dell’ultimo fatto, correvano ad un assalto generale, e tuttavia con non miglior esito dei precedenti; pareva in Candia non uomini, ma soprannaturali esseri combattessero!

Né per tanto furore d’armi erano state sospese le trattative; morto il Ballarino era stato fino dal 17 novembre 1666 nominato il segretario del Consiglio dei Dieci Girolamo Giavarina per recarsi ad assistere il segretario Giovanni Battista Padavino che in età avanzata e di mal ferma salute si trovava presso il vezir. Se non che ambedue poco sopra vissero, e difficile riuscendo la nomina di un nuovo inviato tra i segretari, parecchi dei quali erano stati aggregati alla nobiltà, ed altri non raggiunsero il numero legale di suffragi, fu uopo cercare tra i patrizi chi andasse a continuare il non mai interrotto filo della negoziazione. Eletto Andrea Valier, a principio rifiutò adducendo che assente da tre anni da Venezia come provveditore delle tre isole, non bene conosceva lo stato delle cose. Tuttavia obbedendo partiva, ma ammalatosi in viaggio gli fu sostituito il cavaliere Alvise Molin, al quale veniva data l’istruzione che ridotte le cose agli ultimi termini, consentisse per salvar Candia, a cedere anche Suda dopo demolita, con patto di non più riedificarsi, e alla fine la cedesse anche come si trovava, ritirandone però i cannoni e le munizioni.

Ma nulla giovava, l’ostinazione del gran vezir era inflessibile, e bisognava prepararsi a nuovi conflitti. Niuno però poteva più farsi illusione; il presidio a sì piccolo numero ridotto, non poteva più lusingarsi di tener fermo, dopo l’abbandono degli alleati. Così il Morosini chiamati a consulta gli ufficiali tutti, esposta loro la vera condizione delle cose, commiserata la sorte a che si vedevano ridotti, li pregò considerassero bene, e quella risoluzione prendessero che stimassero più acconcia. Per dolore tacevano tutti, e alcuni frammischiavano sospiri al silenzio, e uno guardando l’altro, nessuno voleva essere il primo ad esporre il proprio parere in si difficile emergente. Finalmente invitato ad uno ad uno ad esprimere il proprio sentimento, vi fu chi proponeva spianar la fortezza a forza di fornelli e di mine, ma difficile sommamente rendevasi cavarne a tempo le milizie, gli abitanti, gli armamenti; altri proponevano introdurre tutte le ciurme alla costruzione di nuovo riparo, ma oltre che se ne vedeva l’inutilità, come difendere durante i lavori il primo? come esporre la Standia, ove ancorava l’armata e questa stessa a divenir frattanto preda del nemico, e perder così ogni via di salvezza? Ventilate adunque le varie proposizioni tutti dovettero alfine convenire colle lagrime agli occhi che dopo tre anni di quasi continuo combattimento e ben ventidue di assedio era giuoco forza di cedere e di arrendere con onorevoli patti Candia, provvedendo alla quiete ed alla salute della Repubblica.

Per ultimo tentativo trovandosi tuttavia a Standia il Rospigliosi comandante papale, pronto ad imbarcarsi con le sue truppe, gli mandò dicendo il Morosini che se soli tremi la soldati gli accordasse, ci si riprometteva ancora di tener fermo fino all’inverno, guadagnando così tempo a nuovi provvedimenti. Ma non volle consentirvi il Rospigliosi, e si parti. Allora il Morosini mandò al vezir mostrandosi disposto ad entrare in trattative e col disegno ardito ma generoso di tramutar la capitolazione in trattato di pace, disegno che passava i limiti dei generalizi poteri ma di cui egli assunse a proprio pericolo la malleveria, pronto a sacrificare anche la propria testa pel maggior decoro della patria. Ne fece avvertire anche il cav. Luigi Molin, mandato l’anno innanzi dal Senato con commissione di continuare nei maneggi di accordo, senza che i suoi poteri si estendessero alla cessione di Candia. “Ma veduti cader affatto estinti i nostri disegni, così scriveva il provveditor generale Battagia il 14 settembre 1669 da Candia, senza modo di poterli far poi risorgere, ha creduto la consulta convocata dalla zelantissima prudenza dell’eccellentissimo sig. capitan generale che produrressimo noi, lasciando perir l’armata, maggior danno alla patria di quello le procurino li nemici et esser capo di pubblico bene non sacrificare nelle mani della loro crudeltà queste restanti vittime, che con gran cuore si sono esposte per il servizio di Vostra Serenità, ma doversi pensare ad indurre l’inimico a condizioni più discrete che sia possibile per lasciarci uscire dal porto; et in questa conformità ne segui la deliberatione ….

“Viveva dunque la risoluzione di dover con Turchi capitolare la resa della piazza, sforzati dalla violenza della sorte, et una tanta perdita riceveva il tributo d’amarissimo pianto, mentre l’eccellentissimo sig. capitano generale fisso nel desiderio non solo di conservar il decoro dell’armi pubbliche, ma di temprar l’amarezza di questo veleno, richiamò la consulta e propose di ricercar a Turchi la pace, e senza mostrar le nostre piaghe, condescender con reputazione per aquistare questa anco alla cessione della piazza, che non si può già più toglier dalle loro mani, quando in altra forma ne restasse precluso l’adito. Il progetto come tendeva ad un fine che si deve chiamar buono, considerando che quando Turchi vi aderissero, si spuntarebbe di frenar quell’orgoglio sempre da loro praticato, d’insuperbirsi nelle vittorie e spinger più oltre con piede violento le conquiste, si aggiunse la considerazione delle nostre forze tanto minorate, et il bisogno che ha la patria di respiro da sì lunghe fluttuazioni, né si deve trascurare di riflettere, che soccorsi stranieri né validi né opportuni possono giungere a sollievo di queste oppressioni, quando fossero anco intenzionati al bene; onde parve che la proposizione della pace, quando l’eccellentissimo sig. capitano generale stimasse proprio tentarlo, fosse l’unico respiro che potessero godere gli affanni che nutriscono i languori della piazza, e concordò uniforme l’opinione che con l’autorità sua che tiene, vi applichi intensamente ogni studio”. (1) … segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo VII. Tipografia di Pietro Naratovich 1858.

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