La Guerra di Candia (1645-1669). X parte

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Lazzaro Mocenigo (Venezia, 9 luglio 1624 – stretto dei Dardanelli, 17 luglio 1657)

La Guerra di Candia (1645-1669). X parte

Al doge Francesco Molin succede Carlo Contarini, a questo Francesco Cornaro, e poi Bertuccio Valier

Così stavano le cose della guerra di Candia quando venne a morte il doge Francesco Molin il 27 febbraio 1655 e gli fu dato a successore il 27 marzo Carlo Contarini. Ma di neppur quattordici mesi compiuti fu il suo principato, e soltanto di pochi giorni fu quello del doge seguente Francesco Cornaro eletto il 17 maggio 1656; onde passatosi a nuova elezione il 15 giugno successivo fu innalzato al seggio ducale Bertuccio Valier, uomo molto versato nei maneggi politici e di facile e robusta eloquenza che adoperò a confermare vieppiù gli animi nella difesa di Candia.

Annunzio d’altra grande vittoria ai Dardanelli

Con lieti auspicii cominciava il suo principato giungendo pochi giorni dopo nel porto una galera portante le insegne ottomane rivolte all’ingiù, e dalla quale sceso a terra Lazzaro Mocenigo con la testa fasciata per grave ferita e per la perdita di un occhio, veniva annunziatore della nuova vittoria trionfata ai Dardanelli il 26 giugno 1656. Era quello il luogo delle più aspre battaglie della presente guerra, il teatro delle più illustri azioni dei Veneziani, ove ogni sasso è una memoria, ogni luogo uno storico monumento del loro valore.

Già l’anno innanzi presso che nel medesimo giorno (21 giugno 1655) lo stesso Lazzaro Mocenigo aveva disfatta la flotta di Mustafà, il quale ritiratosi alle Fochies, e colà bloccato non ebbe coraggio di uscirne a nuovo combattimento, né poté mandare soccorsi a Malvasia stretta intanto egualmente dal provveditore Francesco Morosini. Solo all’avvicinarsi con l’ottobre la stagione invernale e tempestosa, la flotta veneziana rientrò in Candia e la turca poté ritirarsi a Costantinopoli. Ma alla primavera il Mocenigo era tornato al suo divisamento di distruggere interamente l’armata ottomana e si trasferì di nuovo ai Dardanelli. La flotta ottomana di bene oltre ottanta legni comandata da Sinan pascià si apprestava ad uscire, i Veneziani levate le ancore gli andarono incontro, s’impegnò tosto feroce combattimento, lo scontro fu terribile, tutti i capitani spiegarono una prodezza straordinaria, un colpo di cannone stese morto il capitano generale Lorenzo Marcello, mentre stava per predare un secondo vascello, ma Giovanni Marcello suo luogotenente e consanguineo occultandone il cadavere, continuò la battaglia. Fu una battaglia da giganti, in cui Lazzaro Mocenigo ed Antonio Barbaro furono strumenti principali della vittoria, che fu una delle più compiute, delle più gloriose, che annientò la forza turca sul mare, onde a Costantinopoli si fece generale il dolore, il compianto, lo spavento temendo a ragione che i Veneziani avendo libero il passaggio, si avanzassero a minacciare la capitale stessa. Altrettanta fu la gioia in Venezia, conturbata solo alquanto dalla perdita del Marcello al quale furono fatte solenni esequie, il Mocenigo fu decorato della dignità equestre e dall’applauso comune eletto a capitan generale, fu decretata ogni anno una solenne processione a Santi Giovanni e Paolo, furono ricompensati coloro che più s’erano distinti. S’impadronirono i Veneziani nello stesso anno delle isole di Tenedo e Lemno; gli abitanti dell’isola Samotracia, ciò vedendo, spontaneamente si arresero; Candia con ammirabile costanza, e ricevendo di tempo in tempo soccorsi, si sosteneva. Hussein bascià che l’assediava veniva accusato a Costantinopoli di lentezza, egli si querelava dal canto suo della mancanza e della insufficienza dei soccorsi; fu insomma l’anno 1656 per le armi della Repubblica avventuratissimo.

Altra ancora riportata nel medesimo luogo da Lorenzo Marcello, e nuova vittoria del capitano generale Lazzaro Mocenigo sempre ai Dardanelli.

E queste in fatti si rendevano ogni di più onerose. Era stato chiamato al posto di gran vezir (1657) Mohammed Koproli, uomo di grande capacità, e che seppe restituire nell’impero ottomano il buon ordine in ogni ramo della pubblica amministrazione e alzarlo a nuovo splendore. Allestita nuova e poderosa flotta vi nominò capudan bascià Topal delle cose marinaresche espertissimo, spiegò lo stendardo del Profeta, e si apparecchiava a grandi imprese. A prevenir le quali il capitan generale veneziano Lazzaro Mocenigo volgeva per la mente grande e meraviglioso di segno, passare lo stretto, distruggere la flotta turca, penetrare fino a Costantinopoli. Cominciò dal riportare luminosa vittoria sulla squadra di legni barbareschi incontrata a Scio, dopo furioso combattimento, in cui grande fu la preda, ma più grande la gloria, e il senato a degnamente ricompensare il Mocenigo il promosse alla dignità di Procuratore di San Marco. Del che sempre più animato si volse ai Dardanelli per dar opera a quanto si era proposto. Disponeva ogni cosa per modo, che mentre sedici navi battessero furiosamente i castelli, egli con le galee a forza di remi trapassando potesse penetrare fino a Costantinopoli, ove mentre il vezir e l’esercito erano lontani disegnava apportare tale confusione e spavento che valessero a produrre strani accidenti e impensati vantaggi. Stava colà non solo come al solito numerosa la flotta turca, ma accampava altresì lungo le coste il vezir con cinquantamila soldati; onde ogni sbarco de Veneziani per provvedersi d’acqua era accompagnato da micidiale zuffa. Ma facendo pur uopo provvedersene in copia per la divisata impresa, il Mocenigo mandò le galee a fornirsene ad Imbro. Sciaguratamente trattenute da venti contrari furiosissimi non poterono tornare così presto come si sarebbe richiesto, e le navi stesse nel Canale fortemente agitate si videro trasportate alla parte dell’Asia, rimanendo di qua alle parti d’Europa solo la capitana con una o due altre. Non poteva il Mocenigo con l’ardor suo domar la furia del mare, né vincere contro esso la prova, e i Turchi attenti ad ogni vantaggio, approfittarono di quella congiuntura che teneva le galee lontane per dare l’assalto. Era la mattina del 16 luglio, quando mossero per uscire dal Canale con trentatrè galee, nove maone, ventidue navi, cinquanta saiche e molti legni minori, sostenuti dal fuoco delle batterie che dalle spiagge fulminava. Le navi venete per sottrarsi alla pioggia di palle, mossero anch’esse contro alle nemiche per affrontarle. La nave del Bembo che ancora non aveva levata l’ancora si trovò la prima ad essere investita, ma gettando fuoco da tutte le parti seppe sbarazzarsi non solo, ma inseguire tre maone nemiche, facendole vilmente investire nel lido. Frattanto le altre navi dei Veneziani si erano poste in miglior ordinanza, e quelle di Francesco Basadonna, di Angelo Bembo, del Barbaro capitano del golfo, di Luigi Battaglia, di Luigi Foscari e d’altri vigorosamente assalite, con prodigi di valore si difesero e delle nemiche trionfarono. Era una battaglia generale e individuale insieme, era uno spettacolo tremendo e sublime. Verso la sera, quasi tutte le navi così de Veneti come dei Turchi si trovarono insieme confuse fuori de Castelli nel canale del Tenedo portatevi dalla corrente dell’acqua, nel mentre che le galee, staccate i giorni innanzi per Imbro, benché vicine, si trovavano malgrado ogni loro sforzo impedite dall’accorrere in aiuto dei confratelli, e dividere con essi i pericoli, l’onore, la gloria. Mocenigo fermo nel suo divisamento voleva ad ogni costo penetrare nel Canale; già passato il capo Gianizzero, un’altra punta restava a superare, e intanto la burrasca sempre più ingagliardiva. Egli conla sua galea seguita da quella del comandante ponteficio Bichi, e del maltese Carafa, con solo altre nove, deliberarono avanzarsi; alla vista di tanto ardimento le trentatrè dei nemici con due maone si diedero a precipitosa fuga verso la Natolia, per porsi al coperto sotto ai forti. I generali subito le seguirono, ed erano i Turchi tanto avviliti, che quantunque perseguitati da sì piccola squadra, molti gettandosi al mare vi si affogarono; quei che cercavano scampo sul lido erano fatti dal vezir trucidare, ma tant’era la furia del mare, tanto l’imperversare del vento, che le galere cristiane correvano pericolo di andar di traverso se prestamente non avessero dato fondo. Per qualche tempo la sola capitana maltese diede la caccia a tutta l’armata turca, e il Mocenigo, non curando i pericoli della bufera, tagliò fuori una galera e se ne impadronì. Calava intanto la notte, e i generali tenuta consulta deliberavano distruggere il domani interamente la flotta nemica, se non che sorse il giorno si tempestoso, che tutte le due parti furono costrette a starsene ferme senza poter nulla intraprendere. Nella notte abbonacciatosi il vento poterono le altre galere venire ad unirsi a quelle del capitan generale, ma la mattina volendo superare la punta di Barbieri per guadagnare il sopravento e battere sette galee turche, il vento rinforzò di nuovo, e impedì la disegnata mossa.

Suo eroismo e sua morte

Verso sera il tempo si fece più favorevole, e allora il Mocenigo senz’altro attendere, dato il segnale, seguito da altre undici galee trapassò felicemente la prima batteria del nemico. La galera del capitano del golfo ebbe rotta l’antenna, ma il Mocenigo, nulla curando i colpi che da tutte parti fioccavano, avanzava rapidamente tutto acceso nel volto per l’ardor di combattere, sprezzator d’ogni rischio, solo anelando alla vittoria. Appoggiato al suo stendardo, colla voce e col gesto comandava, incoraggiava, ove fosse uopo pregava i suoi a spingersi sempre più avanti, e già erano molto oltre, e già l’agognata meta si affacciava a loro sguardi, quando improvviso lampo annunziò l’accensione della polveriera. Accese le corde, un’antenna precipitando colpi sulla testa il Mocenigo e lo fece cadere estinto, le altre galee fermarono il corso, fu un momento di silenzio, di quiete dall’una e dall’altra parte più tremendo che lo stesso precedente fracasso. Ogni tentativo di più oltre avanzare fu abbandonato, ogni cura fu volta a raccogliere gli avanzi dell’incendiata nave, lo stendardo, il fanale, le scritture, i danari, ma più di tutto il cadavere del generale. Francesco suo fratello fu tratto semivivo dall’acqua, e così alcuni altri pochi, nel che principal merito si deve al cav. Avogadro di Treviso che spiegò in quest’occasione un coraggio veramente eroico. Più di cinquecento rimasero morti, e tra questi Costantino Michieli, Matteo Cornaro, Tomaso Soranzo e Giovanni Balbi. Tale fu la battaglia, che sopra ogni altra delle precedenti famosa, sebbene tutte in quel sito combattute fossero state illustri, fu detta di preferenza la battaglia dei Dardanelli; tale fu la fine di Lazzaro Mocenigo che per l’occasione e per il luogo non poteva essere più celebre, ma nel tempo stesso più deplorabile, poiché per essa cambiarono si può dire totalmente gli eventi della guerra. Si pensi un momento il disegno riuscito del Mocenigo, si immagini la flotta veneziana sotto le mura di Costantinopoli, quanti e quali accidenti non potevano seguire, come cambiar potevano ad un tratto i destini nonché di Venezia, ma di tutta Europa! “Nel corso della vita privata, scrive il Nani, parlando del Mocenigo, egli era passato per vari e diversi accidenti; poi con saggi di sommo valore portato quasi di volo all’apice delle dignità militari, trasse a sé gli occhi e l’applauso del mondo, stimato da tutti, amatissimo dalle milizie, temuto dagl’inimici, intrepido ne’ pericoli, fortunato nelle battaglie, giustissimo nel governo. Ciò che agli altri prudentemente ordinava, egli stesso arditamente eseguiva. Non perdonando nella militar disciplina le colpe leggiere, ed inflessibile contro i codardi, altrettanto generoso coi più bravi si dimostrava. Al coraggio credeva che tutto cedesse e che la tura obbedisse, e la fortuna stessa prestasse braccio agli uomini forti. Perciò alcune volte trasportato d’ardore pareva che ciecamente incontrasse il pericolo e che troppo sovente ogni cosa azzardasse, ma ciò che sembrava temerità, era virtù necessaria, perciò misurando il numero e l’ardire del nemico, egli stimava, che né incontrarlo né batterlo si potesse se non pareggiando col cuore la forza”. 

Nuove speranze di pace.

Con la morte del Mocenigo le cose dei Veneziani voltarono faccia, perciò i capitani pontificio e maltese si ritirarono, e passato il comando per anzianità in Lorenzo Renier capitano delle galeazze, vennero a mancare la disciplina, l’ordine e l’accostumato coraggio. Tenedo e Lemno così gloriosamente acquistate l’anno avanti, andarono perdute; in Dalmazia furono bensì ottenuti alcuni vantaggi e Cattaro fu salvata, ma erano troppo insignificanti fatti nel la gigantesca lotta che già da dodici anni Venezia quasi sola sosteneva. Debole apparenza di pace sorgeva nella buona inclinazione mostrata dal vezir di finire una guerra che tanto costava anche alla Turchia, per volgere invece le armi con speranza di miglior successo in Ungheria e contro il principe Ragoczi di Transilvania, già dal sultano innalzato, ma che non si mostrava docile abbastanza. Chiamato adunque a sé da Adrianopoli il segretario Ballarini, gli fece intendere a principio con vaghe e incerte parole la possibilità di un accomodamento, quando però la Repubblica consentisse alla cessione di Candia e delle piazze annesse. Rispose il Ballarini a tanto non estendersi le sue commissioni e dover riferire a Venezia, ove fu mandato un dragomano con un termine di due mesi alla risposta. Varie erano le opinioni nel Collegio, e quelli che propendevano alla pace dicevano: abbastanza essersi ormai fatto per l’onore, per la gloria, per la grandezza della Repubblica, e più che non si sarebbe potuto da lei attendere né desiderare; da tanti anni già da essa sostenersi un’atrocissima guerra con incomportabile dispendio, con sacrificio immenso di persone, con perdita dolorosissima di quattro capitani generali, con eroismo tale che nessuno o pochi pari conta la storia, ma senza profitto, riparando il nemico ad ogni sconfitta cogli inesauribili suoi mezzi; intanto giacere interrotti i commerci, fonti delle comuni ricchezze, aggravarsi soprammodo i sudditi, trovarsi esposte alle correrie, alle ladronaie nemiche la Dalmazia e le isole, consumarsi le forze della Repubblica in una impresa in cui dall’Europa non era ad attendersi soccorso, in cui le vittorie per quanto luminose a nulla con ducevano, in cui per lo più si avevano contrarie non solo le forze dei Turchi, non solo le condizioni del resto d’Europa, ma i venti ancora e le burrasche! Per lo che ora, giacché dal nemico stesso veniva la prima proposizione di pace, si doverla abbracciare; guardarsi bene dal ridursi a termini tali da averla poi da implorare e a più gravi e disonorevoli patti; seguire l’esempio dei maggiori che in eguali condizioni preferir vollero al deperimento di tutto il corpo il troncamento d’un membro; che riserbar si doveva forse a un miglior avvenire il rifarsi dei danni presenti; che dopo aver fatto molto per la gloria, era ormai tempo di pensare altresì alla salute propria, e non potendo abbattere il nemico doversi provvedere destramente a renderlo meno infesto e ottenere pei trattati ciò che per le armi non era possibile conseguire”. 

Discorsi su quest’argomento in Collegio.

Ma diversamente opinavano i propugnatori della guerra, e tra questi il cavaliere e procuratore Giovanni Pesaro, dicendo: la proposizione appunto di pace avanzata dal vezir esser prova manifesta ch’ei non si riprometteva di poter Candia conquistare per la forza; che ben vedevasi come la sua flotta ormai più non osasse presentarsi alla veneziana dopo tante e si clamorose sconfitte, onde al solo apparire di essa si dava alla fuga; che agitati erano gli Ottomani dalle discordie, tumultuare ad ogni tratto le milizie, solo per forza lasciarsi i sudditi trascinare alle barche, il vezir uomo sagace or tentare di divagare gl’interni malumori col volgersi a nuove e più felici imprese nella Transilvania. Non esser dunque questo il momento di cedere Candia, non essere questo il momento di farsi quasi incontro al Turco, e perdendo ad un tratto l’isola e il prezzo di tanti pericoli e di tante fatiche e sacrifici, portare a suoi piedi le difese del Mediterraneo e le chiavi d’Italia”. Non sia mai vero, esclamava, che fiaccamente si rinunzi alla dominazione di un regno sì forte, irrigato dal nostro sangue e al possesso di una città sì cara dove nei tempi del vero culto son venerate le ceneri sante dei martiri, le immagini sacre dei numi, e oltre ciò vi sono i sepolcri dei nostri maggiori, e in ogni parte inscritti i nomi, appese le insegne, le memorie di noi medesimi. “Non perciò rifuggir egli dalla pace, ma sia una pace onorevole, si tenti pure, ma con altre condizioni, la cessione di quell’isola, la quale già tante fatiche, tanti tesori, tante vittime avea costato; se i progenitori avevano ceduto Cipro ed altre isole ei fu perchè disperata del tutto ne era la conservazione, e perchè loro rimanevano altri regni, altri posti avanzati contro l’Ottomano, ma ceduta Candia cosa rimanere, quale antemurale alle future invasioni? Giacché non è a credersi che il Turco ottenuta Candia per ciò si acquietasse, gli sarebbe anzi allettamento a nuove pretese, a nuove conquiste. Lasciare ora a mezzo l’impresa esser troppa vergogna, poter ancora mutare le sorti, i principi d’Europa venuti finalmente a pace fra loro si avvederanno forse di quanta importanza sia il sostenere sagacemente la Repubblica nella difficile lotta; infiniti essere, imprevedibili gli umani eventi, e quando pure alfine il nemico avesse ad impadronirsi di Candia, conforterebbe Venezia la coscienza d’aver fatto ogni possibile sforzo, rimarrebbe all’Europa la vergogna di non averla aiutata”. Rimanevano a lungo perplessi gli animi, il doge stesso Bertuccio Valier rappresentando al vivo le strettezze della patria esortava alla pace, quando riprendendo a parlare il Pesaro, animò tutti alla costanza, a continuare nei magnanimi sacrifici; ed il doge arrendendosi, per mostrare come non altro cercasse che il bene della patria, offerse pel primo diecimila ducati. Seguì tosto l’esempio il Pesaro con offrirne seimila, ed altri altre somme si dissero disposti a pagare, ma in effetto non furono considerevoli né corrispondenti all’uopo, in molti cominciando a prevalere l’avarizia e la cura del ben proprio sopra quello del pubblico. Al Ballarini magnanimamente si scriveva, “troppo duro essere il partito proposto dal vezir di cedere il regno, cui ripugna l’obbligo che ne avemmo da Dio, la ragion di natura, il riguardo della religione, né si può certamente abbandonare l’antichissimo e giustissimo possesso che ne tenemmo”. Decidevasi adunque di continuare la guerra. (1) … segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo VII. Tipografia di Pietro Naratovich 1858.

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