La Guerra di Candia (1645-1669). VII parte

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Giovanni Battista Grimani

La Guerra di Candia (1645-1669). VII parte

Meravigliosa perseveranza dei Veneziani

II poco risultato ottenuto dalle immense forze turche nel 1647 costò la vita al Granvisir Ssalih pascià il quale pagò così con il proprio sangue l’eccitamento dato alla guerra di Candia. Non si lasciava però di persistere ostinatamente nel proposito, e nuove e grandi forze si apparecchiavano. Né minor fermezza, né minori sforzi opponevano i Veneziani tanto più ammirabili, quanto che sì sproporzionatamente minori ne erano i mezzi, e gli avvenimenti di Europa, anziché dare alla Repubblica alcuna speranza di validi soccorsi, sempre più ne allontanavano la probabilità.

Continua la guerra della Repubblica contro il Turco e si distende in Dalmazia, ove i Veneziani prendono Clissa

Mentre nell’Occidente si era con tanti sforzi conseguita la pace, ardeva tuttavia furiosa la guerra nell’Oriente tra i Veneziani ed i Turchi, e da Candia si estendeva anche nella Dalmazia. Aprivasi appena la stagione del 1648 che il generale Foscolo volgeva in quella provincia l’animo alla presa di Clissa, forte luogo poco discosto da Spalato, dove tra i monti, che ingombrano largamente quel tratto, uno alzandosi quasi scoglio presentasi tuttavia capace di abitazione e recinto. Esso è tutto di duro macigno, erto, scosceso, e se in qualche parte la natura parve renderlo più accessibile, accorse l’arte a proteggerlo con muraglie fortissime ed altre fortificazioni. Tre ordini di mura cingevano la fortezza a cui una sola strada sotto il cannone di questa conduceva. Se Clissa avea più volte cambiato dominio fu sempre per tradimento o sorpresa, non mai per oppugnazione. Eppur a questa or accingevasi il Foscolo, accompagnato da Girolamo Foscarini commissario, e da Luigi Cocco provveditore di Sebenico, mentre il generale Scotti aveva la direzione delle milizie. Scacciati i Turchi dai primi posti, occupato dai Morlacchi il sito abbandonato dagli abitanti, respinte due sortite, i Veneziani corsero il 19 marzo all’assalto contro il primo recinto nel quale avevano aperto una breccia. L’angustia del luogo imbarazzando anziché agevolare le operazioni dei Turchi, dovettero questi ritirarsi nel secondo ricinto, ove i Veneziani trovavano quasi insuperabili difficoltà, poiché erano fulminati dall’alto, e il macigno resisteva al cannone ed alla zappa. Era uopo quindi aprirsi una via per le batterie. Aperta la breccia, dopo tre furiosi assalti penetrarono anche nel secondo recinto, ma restava ancora a farsi la parte più ardua dell’impresa, quella cioè di prendere il terzo nel quale stavano la moschea, la casa del governatore, i quartieri, le cisterne e le munizioni. Fu terribile lo scontro, ma i cannoni piantati in luogo opportuno dal barone Massimiliano d’Eberstein fulminavano per modo il luogo con le bombe, che le donne, i fanciulli, gli abitanti tutti ad alte grida chiedevano la resa. Fu alzata finalmente dai Turchi la bandiera bianca, e usciti cinque dei principali a parlamentare l’ultimo di marzo del 1648, i Veneziani entrarono in possesso di Clissa con tanto valore acquistata.

Recò questo avvenimento molta allegrezza a Venezia siccome quello che ad assicurare le cose sue in Dalmazia non poco doveva contribuire.

Disastro sul mare, muore annegato Giovanni Battista Grimani

Sul mare invece grave infortunio colpiva la veneziana flotta in quello stesso mese di marzo, poiché disegnando il Grimani recarsi con ventiquattro galee, cinque galeazze e ventisette navi a chiudere il passo dei Dardanelli, per tenere il nemico lontano da Candia, o costringerlo a battaglia, si levò la notte del 17 nel porto di Absara fiera procella che spezzate le funi, strappate le ancore, slanciava qua e colà le navi a infrangersi senza riparo negli scogli, reso essendo impossibile ai nocchieri nell’oscurità l’opportunamente manovrare, e dall’infuriare del vento e dal muggir delle onde l’udire gli ordini dei capitani. Diciotto galee per simile modo miseramente perirono, nove vascelli furono perduti, vagava la galea stessa del generale senza timone, senz’alberi, senza vele ora gettata verso terra, ora verso il mare respinta, quand’egli che confortando le sue genti scorreva lungo la corsia, soprapreso da un’ondata fu rovesciato semivivo sui banchi, poi da un’altra rapito, e tutto il legno sommerso. Venne alfine il giorno ad illuminare una scena della più orrenda desolazione, il mare coperto di cadaveri e di vascelli infranti, uomini agonizzanti o intirizziti dal freddo sullo scoglio; da per tutto pianti e lamenti. Ma Giorgio Morosini provveditor d’armata in quel terribile frangente, assunto il comando dei miseri avanzi della flotta, fedele esecutore degli ordini del morto generale, dirigevasi, rifornite alla meglio le navi, ai Dardanelli. Incontrata per via con molta alle grezza la squadra di Girolamo Riva che portava soccorsi a Candia, poté meglio provvedersi, e rifornite sedici galee andò a collocarsi al suo posto, con grande stupore e smarrimento degli abitanti di Costantinopoli, i quali intesa la ruina dell’armata veneziana, non potevano darsi a credere che possibile fosse che quella medesima armata ora comparisse a chiudere i Dardanelli. Furono tosto raccolte navi dall’Asia e dalla Grecia, sequestrate per conto dello Stato perfino quelle delle nazioni cristiane che a Costantinopoli si trovarono, tuttavia un tentativo fatto dalla flotta turca per uscire non sorti effetto, e la vergognosa ritirata costò la testa al capudan pascià.

Luigi Leonardo Mocenigo nuovamente capitano generale e stato delle cose in Candia

Eletto intanto capitan generale in luogo del morto Grimani, Luigi Leonardo Mocenigo, si pensava altresì a provvedere di nuovi rinforzi l’armata. Ma non meno della guerra altra cosa doveva stare sommamente a cuore al Senato, ed era che per le frequenti e grosse leve de remiganti, che a tenor delle leggi i vari corpi delle arti erano obbligati a fornire, non ne venisse il deperimento e la ruina di quelle. Perciò fu preso il partito di convertir quest’obbligo in una corresponsione in danaro col quale poi assoldare gente mercenaria.

Raccoglieva infatti la Repubblica soldati da tutte le parti d’Europa, e insieme coi galeotti delle provincie li mandava in Candia, ove il Mocenigo attendeva vigorosamente alle fortificazioni, sebbene molestato alquanto da Hussein che già la città stringeva d’assedio, e contro il quale era costretto fare frequenti sortite per tenerlo lontano ed impedirne i lavori. Vana cura questi avanzavano, e i Turchi si rendevano sempre più formidabili.

Il presidio di Candia consisteva di soli seimila uomini, numero di gran lunga insufficiente alle tante guardie e a moltissimi posti, e di quelli stessi molti languivano negli ospedali; la peste che l’anno scorso avea desolato la città non s’era per anco del tutto estinta; supplivano però gli abitanti e i feudatari condotti da Giorgio Cornaro. Presedevano ai lavori e alle operazioni militari i generali francesi Gil d’As, la Marre e Romorantin che venuti erano con una leva fatta in Francia, ma sotto l’autorità suprema del Mocenigo. Non passava, per così dire, momento che qualche fazione non accadesse. Tuonava giorno e notte il cannone, volavano ad ogni passo i fornelli e le mine, e con le vie sotterranee altre vie sotterranee s’incontravano, e alle mura aperte in breccia, altre mura quasi prodigiosamente si opponevano, combattevasi ferocemente non pur sulla terra ma sotto di essa, non vi era lavoro di fortificazione che la moderna arte militare avesse inventato e introdotto, il quale da Veneziani non fosse messo in opera.

Così si prolungava mirabilmente la difesa contro numero in sì grande sproporzione maggiore e che per ogni via si adoperava ad impadronirsi della città. Il capitan generale Mocenigo animava tutti col suo esempio. Scoppiata una potente mina del nemico, un ufficiale fuggendo, gli grida, tutto è perduto: “Ebbene, rispose il Mocenigo, morremo con le armi in pugno. Chi è valoroso mi segua“. Rannoda i soldati, raccoglie i cittadini, eccita le stesse donne ad armarsi di sassi e scagliandosi sui nemici, li ricaccia dal baluardo già preso, li precipita nelle fosse, e le ricolma dei loro cadaveri. Quell’atto di coraggio costò a Turchi venti anni di guerra, costretti a ritirarsi dovettero attendere a fortificare il loro campo ed aspettare l’arrivo di nuovo rinforzo. Mocenigo entrato poi nella Suda, costrinse anche dicolà i Turchi ad allargarsi.

Lunga assai e stucchevole cosa, e certo allo scopo di questa storia inopportuno sarebbe il narrare a parte a parte tutt’i fatti militari avvenuti, nominare tutti coloro che in questa guerra eroica di ben venticinque anni si resero illustri; che se in grandissimo numero furono i patrizi veneziani e i capitani stranieri che ben meritarono di Venezia, non minore è certamente quello di tanti altri del popolo, che in quest’assedio si segnalarono, “conciossia chè bene spesso, osserva il Nani, l’opere più illustri uscirono da uomini oscuri, e confuse nello strepito delle armi e tra la folla degli accidenti lasciarono il privilegio solito alla fortuna di rilevar i fatti dei principali e seppellir in silenzio et in obblivione la turba”.

Parte proposta in Senato per la pace e sua discussione

Erano però sacrifici immensi che la Repubblica faceva, sacrifici di uomini e di tesori e non vedendosi probabilità di valido soccorso dalle potenze cristiane, né intenzione nei Turchi di desistere dalla guerra fino a tanto che conquistata non avessero tutta l’isola, sorgeva in alcuni il pensiero di avviare qualche trattativa di onesto componimento. Laonde fino dal 19 novembre 1647 era stata proposta in Senato la seguente Parte:

“Le giatture sofferte dalla Repubblica per il corso di tre anni continui, con aperta guerra ingiustamente mossa da prepotente nemico, e la necessità di preparare vigorosa difesa al riparo delle ingiurie persuadono d’avantaggio la prudenza di questo Consiglio quanto convenga applicar l’animo dall’un canto a sostenere con forte mano la pubblica libertà contribuendo il pieno delle forze e dello spirito al divertimento delle insidie e delle ostilità ottomane, et dall’altro nel tempo stesso andar proseguendo nella pace con modi più cauti e sicuri, disponendo perciò le vie d’incontrare con tutto il possibile vantaggio l’aggiustamento delle presenti difficoltà col signor Turco, negozio che quanto è accompagnato da alte conseguenze per il bene della patria, per il sollievo dei cittadini e sudditi, che sarà procurato sempre con carità, con zelo e con vigilie incessanti da chi presiede al Governo, tanto dev’esser custodito con religioso silenzio e con profonda segretezza a solo oggetto di minorar quanto si possa li danni pubblici e privati et andar facilitando con la grazia del Spirito Santo e del protettore nostro s. Marco il buon esito del presente spinosissimo affare. Sia però preso che dal Maggior Consiglio sia fatta elezione di ventiquattro onorevoli nobili nostri, di quelle condizioni, abilità e virtù che pareranno alla prudenza di esso e questi oltre la persona et assistenza del Serenissimo Prencipe abbino facoltà di maneggiar il negozio della pace et concluderla quanto vantaggiosamente si possa”. (1)… segue

(1) SAMUELE ROMANIN. Storia Documentata di Venezia Tomo VII. Tipografia di Pietro Naratovich 1858.

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