Epifania di Nostro Signore, annuncio in Basilica di San Marco delle feste mobili dell’anno, e la tradizione della “marantega” (6 gennaio)

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Torre dell'Orologio, la processione dei Re Magi nel giorno dell'Epifania

Epifania di Nostro Signore, annuncio in Basilica di San Marco delle feste mobili dell’anno, e la tradizione della “marantega” (6 gennaio)

Sebbene nel Seicento l’Epifania non fosse festa di Palazzo, pure il doge, per antica tradizione, scendeva col Collegio alla chiesa di San Marco ad ascoltare la Messa solenne. La chiesa, come voleva il costume delle grandi occasioni, era magnificamente addobbata: superbi arazzi fiamminghi adornavano i sedili delle alte magistrature, tappetti persiani coprivano il pavimento e dai candelabri d’argento ardevano le torce gialle istoriate, mentre dalle cupole pendevano scintillando “le ciocche” di vetro a colori dell’ industrie dell’isola di Murano.

Finita la messa, il diacono più anziano della chiesa montava sull’ambone a sinistra dell’altare maggiore e leggeva, al popolo raccolto nella Basilica, l’elenco delle feste mobili di quell’anno, e il popolo all’annuncio della Pasqua, la maggiore delle feste mobili della cristianità, prorompeva in grandi grida di esultanza in cui primeggiava come una invocazione di augurio buono il nome santo di “Marco, Marco!“.

La parola Epifania nella sua origine greca suona “luce, lume“, e si diceva dai Greci ogni apparizione del Signore “ta epiphania” ovvero “to epiphanion“, e quindi si applicò un tal vocabolo nei primi tempi cristiani tanto alla natività, luce morale, quanto al battesimo, luce spirituale, e all’apparizione di Cristo ai Magi, i tre potentati della terra che guidati dalla stella, luce divina, adorarono primi il fanciullo di Nazareth.

Col tempo il nome di “epiphanion” rimase solo al giorno in cui vennero tributati gli onori della terra al divino fanciullo, giorno speciale dedicato più tardi con largo corredo di fantastiche tradizioni, specialmente ai fanciulli che rappresentano sul nostro pianeta l’avvenire delle razze, dei propositi, degli ideali.

A Venezia, come dicemmo, non era festa, ma che importava, la chiesa la faceva, e nel Seicento e Settecento tutti la celebravano ed era una simpatica festa in cui la città sfoggiava nei suoi campi numerose e ben fornite botteghe di dolci, ricolme ceste di frutta, banchetti di cibarie, di bevande, di balocchi.

La famiglia Labia della contrada di San Geremia fu la prima che negli ultimi anni del Seicento ebbe l’idea di regalare ai bambini della parrocchia giocattoli, dolci e frutta nel giorno dell’Epifania, e il gentile pensiero fu in breve raccolto da altri patrizi come i Contarini, i Michiel, i Mocenigo, i Piovene, i Pisani ai quali si unirono anche facoltosi cittadini.

Per il giorno dedicato ai tre re Magi Venezia ebbe sempre una speciale attrattiva: fin dal Cinquecento sul suo orologio di Piazza San Marco, bella costruzione della Rinascenza di Mario Coducci, volle avere i suoi re Magi adoratori del Bambino, il popolo chiamò “Pasquetta” la giornata epifanica, e la tradizione la chiamò per i bambini il giorno della “Marantega” (dal latino mater antiqua).

Ancora oggi a Venezia corre un vecchio e volgare adagio sulla maggior durata dei giorni dopo il solstizio d’inverno: “Da santa Lucia a Nadal i se slonga un passo de gal, da Nadal a Pasquetta i se slonga de un’oreta“. Il popolo crede anche oggi che “Pasquetta” si riferisca all’Epifania mentre invece si riferisce alla Purificazione della Vergine, il 2 febbraio in cui i giorni si sono appunto allungati di circa un’ora.

Così per i bimbi vive sempre la “Marantega“, la vecchietta lunga, secca, grinzosa, la brutta vecchia sdentata, la quale nella notte della Epifania, anzi alla mezzanotte precisa, scende giù per il camino in cucina e riempie la calzetta attaccata dai bambini sotto il camino, di dolciumi e trastulli se furono buoni, di cenere e carbone se fecero i cattivi.

Antonio Lamberti, il classico fra i nostri poeti del Settecento, nella sua “Primavera cittadina” così scrive di una patrizia un po’ matura ma bellissima ancora, la Nina da Mosto Correr di San Moisè:

E po co i omemi
Ve core drio:
Co’l più teribile
Lo fe’ un conio;
Una marantega
Per dio, no sé

e quella “marantega” appare per la prima volta nella poesia vernacola veneziana.

Il giorno dell’Epifania del 1765 fu giorno di gran festa per la città di Venezia, e lo racconta il cappellano del doge Alvise Mocenigo in una sua lettera in data 7 gennaio. “Ieri mattina in questa Dominante si fece una strepitosa funzione per i riscatto fatto dalle mani dei turchi di ottantanove schiavi, quali accompagnati da ottantanove cavalieri, col seguito di molte Scuole e suffragi, e di numeroso popolo, sono stati processionalmente condotti per la città ed in varie chiese. Per il riscatto di questi schiavi si conta che la Repubblica si attrovi in esborso di ventiotto mila zecchini“.

Così in quel giorno anche la terra di San Marco recava il suo dono al Bambino Gesù di ottantanove cristiani tolti alle barbarie dei turchi, e forse il dono fu più accetto di quelli fatti dai tre re orientali guidati dalla fatidica stella verso la stalla di Betlemme. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 1 gennaio 1933

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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