Il Gobbo di Rialto

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Il Gobbo di Rialto

Il principale incarico dei “comandadori” era quello di pubblicare le leggi, i bandi, i proclami, le condanne sulle pietre dette del “bando“, collocate una presso la chiesa di San Marco, l’altra nell’erberia a Rialto.

Quella di San Marco è la più antica, posta in un angolo esterno della basilica: è un cippo di colonna di granito rosso orientale recato a Venezia nel 1256, come trofeo della vittoria d’Acri sui Genovesi, mentre la pietra del bando a Rialto è la più recente, una colonna bassa con una scaletta di marmo bianco, sostenuta da una figura d’uomo raggomitolato, e perciò dal volgo chiamato “il Gobbo di Rialto“, scolpito nel 1541 da Pietro di Salò, discepolo del Sansovino.

In relazione al “Gobbo di Rialto“, scrive la cronaca Barba, conservata nella nostra Marciana: “Iera costume in Venetia che quando era terminato un per ladro over per altro, ad essere frustado da San marco a Rialto, li malfatori, come erano in Rialto, andavano a basar el Gobo de piera viva che tien la scala che ascende a la colona de le grida; fu terminato che più questi tali non andassero a far tale effetto, et però fo posto in la colona sopra il canton, sotto il pergolo grando a Rialto, una piera con una croce et uno san Marco de sopra, aciò li frustadi vadano de cetero a basar la ditta croce et fo posta a di 13 marzo 1545“.

Sotto il porticato attiguo al Gobbo, c’era il Banco Giro, la grande Banca circolante di Credito, che istituita a Venezia fin dal Dodicesimo secolo, venne tenuta da nobili fino al 1583, quando fu assunta direttamente dallo Stato, e qui sotto il portico e nella piazzetta di San Giacometto si radunava sempre una grande folla, non solo per trattare affari, ma per udire i bandi e le leggi e vedere i condannati nell’ultima sosta della loro punizione.

Fin dal 1577 il Gobbo di Rialto cominciò a parlare come Pasquino a Roma e, siccome questi aveva molto spesso nei suoi dialoghi un compagno nel socio Marforio, così anche il Gobbo ebbe il suo compare nel “Marocco Popone” una piccola figura d’uomo scolpita alla base detta colonna di San Teodoro nella piazzetta e così chiamato perché tiene accanto una cesta carica di poponi. La prima satira pubblicata sulle scale a Rialto, afferma il Cicogna, fu un breve dialogo tra il Gobbo e Maroccosopra la Cometta alli giorni passati apparsa nel cielo“, e finiva, come racconta una vecchia cronaca, dicendo il Gobbo: “Hastu visto Marocco che cometa?“, rispondeva Marocco: “Proprio granda da bon co’ quella coa, la pareva la bela Gerometa, de sier Dolfin, la cortesana soa” e soggiungeva il Gobbo: “Cortesana? Ho capio, Marocco mio, la coa sconde i pecai anca al bon Dio“.

Leonardo Pesaro appena eletto procuratore di San Marco, per “broglio ma non per meriti” aveva sposato donna Maria di Giovanni Priuli, donna di costumi un po’ liberi, il 15 aprile 1648, giorno del suo ingresso in Procuratia, si trovò attaccato sul gobbo il seguente cartello: “Viva Pesaro dal Caro, che l’è sta in preson per laro (ladro) e per ultima pazia, l’ha sposà dona Maria“.

Ma il Gobbo non si limitava alle sole satire brevi: qualche volta dava sfogo al suo estro poetico come avvenne nell’ottobre del 1672: una lunga poesia pendeva dal collo del Gobbo contro i mercanti imbroglioni e i barbieri disonesti e cominciava: “I forneri e li barbieri, tutti ladri per la pe’e, ciacoloni xe i barbieri, fornitori de putele …” e seguitva senza riguardo firmando poi: “un gobo che vede drito“.

Il 13 maggio 1797 il Gobbo parlò per l’ultima volta sotto la Serenissima, e per l’ultima volta rispose Marocco Popone, il giorno innanzi Lodovico Manin, pieno di paura, aveva lasciato il dogado con la famosa frase: “Stanotte no semo sicuri de dormir gnanca nel nostro letto“, e il Gobbo ricordando che il Manin aveva regalato a beneficio dei pazzi ducati centomila, chiedeva a Popone: “Centomila xe i ducati, che Manin ghe lassa ai matti, ma me d’stu, ciò Popono, cossa lasselo sul trono?“. E Popono, nella sua collera di buon repubblicano, rispondeva: “El ghe lassa un buratin, che tirandoche un spagheto, ziga e pianse: so Manin, la go fata tuta in leto“.

Così però non finiva del tutto il nostro Gobbo: Venezia era caduta era caduto il vessillo più antico e più augusto dell’indipendenza nazionale, anche a Rialto si ballava intorno all’albero della libertà adorno del berretto frigio, e il Gobbo, pensando al passato, lanciava la sua ultima satira: “Albero senza vesta, bareta senza testa, libertà che no resta, quatro mincioni che fa festa“. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 15 marzo 1934

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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