La congiura del doge Marino Faliero
La congiura tramata dal doge Marin Faliero sorse nel 1365, l’animo violento e l’ambizione del quale mirava a sovvertire il governo, riducendo la Repubblica a signoria principesca, come in altre città italiane. La causa principale che diede origine a quella trama fu la seguente.
Si festeggiava, secondo il costume, nel giovedì grasso di quell’anno una festa da ballo nelle sale del pubblico palazzo, e Michele Steno (doge 1400-1413), amoreggiando una damigella della dogaressa, nominata Lodovica, o Eloisa, accostatosi a lei, nel cuor della festa, le fece un tale atto men che onesto e decente. Per la qual cosa, essendo stato dal doge veduto, fu per di lui ordine cacciato fuor della sala. Irritato lo Steno vivamente di quello sfregio, nell’uscire che fece dal palazzo, scrisse occultamente là dove stava il seggio ducale le parole seguenti:
Marin Falier — Da la bela mugier — I altri la gode — E lu la mantien.
Notiamo però che altri cronacisti più antichi narrano diversamente questo fatto; anzi sì gli antichi che i più recenti sono discordi nel contesto di tal narrazione, per cui torna difficile, in tanta incertezza e lontananza di tempi, il poter veracemente far sortire il vero in tutto suo lume.
Ciò che è di certo si è, che uno sfregio ricevette il Faliero, sia dallo Steno per la riferita cagione, sia da alquanti giovani nobili, come riferiscono alcuni cronacisti. Per la qual cosa, non ottenendo egli soddisfazione quale l’avrebbe desiderata dal tribunale dei quaranta, a cui fu demandato il giudizio della colpa, se ne sdegnò grandemente, e nel cuor suo ne covava vendetta.
Gli venne il destro poco poi di mandarla ad effetto, allorquando un tale Stefano Chiazza, detto Gisello, ammiraglio dell’arsenale, veniva un dì battuto sul viso dal patrizio Marco Barbaro, per cui, ricorso l’offeso al doge per averne giustizia, e sentendosi rispondere, non sapere in qual modo rendergliela, essendo che non poté averla egli stesso, quantunque doge, allorché venne offeso nell’onore, a lui replicò parole che accennavano a vendetta contro tutti i nobili. Perciò, da queste ad altre parole passando, incominciarono d’accordo a trattare del modo che si doveva tenere per con durre a fine la proposta congiura.
La quale veniva conchiusa in breve, tirando al lor partito Bertuccio Faliero nipote del doge, e Filippo Calendario, valentissimo architetto e scultore, e che lavorò nella fabbrica del Palazzo Ducale, dopo il Baseggio, e Bertucci Israello genero di quest’ultimo, padron di nave, ed altri moltissimi. Eletti quindi sedici capi, i quali avevano a lor disposizione quaranta uomini, o come dicono alcuni, sessanta per cadauno, dovevano questi distribuirsi qua e colà nei diversi sestieri della città in attesa del segnale convenuto. Il quale era fissato darsi sull’albeggiare del dì 15 aprile 1355; e tosto dato, dovevano tutti concorrere sulla piazza di San Marco, affollarsi intorno al Palazzo Ducale, e far man bassa su tutti i nobili che avessero veduto accorrere al Maggior Consiglio. Se non che, uno dei congiurati, per nome Beltrame, pellicciaio bergamasco, ed un altro che non volle entrare, quantunque sollecitato, nella congiura, di nome Marco Negro o Nigro; il primo per salvare un suo compare e protettore, Nicolò Lioni, il secondo a salute del suo patrono Jacopo Contarini, rivelarono confusamente la trama. Gli avvisati corsero tosto al Consiglio dei Dieci, e quel consiglio tanto operò nella notte che precedeva il giorno tremendo, che furono arrestati i principali capi della congiura e tradotti in giudizio. Dai quali, saputo l’ordine della trama e come in essa vi entrava il doge medesimo, dannati a morte, furono impesi. Quindi fu arrestato anche il doge, e, convinto e confesso del suo delitto, venne condannato da quattordici senatori alla pena di morte, il dì 17 aprile del citato anno 1355.
Prima di soggiacere alla sentenza gli fu concesso di poter disporre di duemila soli ducati del suo, e gli fu tolto il berretto ducale sulla scala che allor metteva nella sala del Consiglio Maggiore. Dipoi, condotto sul pianerottolo della scalca di marmo allora esistente in altro luogo, diverso da quello ove poi fu eretta l’attuale scala dei Giganti, ed ove aveva fatto sacramento di fedeltà alla patria il dì che fu coronato, gli veniva recisa la testa.
Quindi, siccome dice alcuna cronaca, presa da uno dei capi del Consiglio dei Dieci la spada ancor sanguinante, venne questa mostrata al popolo, proclamando ad alta voce le seguenti parole: E’ stata fatta la gran giustizia del traditore. (1).
(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI
Dall’alto in basso, da sinistra a destra: Palazzo Ducale la Scala dei Giganti, Palazzo Falier ai Santi Apostoli, Sala del Maggior Consiglio ritratto del doge Michele Steno, Sala del Maggior Consiglio drappo nero al posto del ritratto del doge Marino Faliero, Palazzo Ducale la Scala dei Giganti.
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