La vera storia del povero Fornaretto, ovvero il Fornaretto di Venezia contro il Fornaretto di Padova
In una lista dei giustiziati in Venezia dell’anno 726 all’anno 1797, codice 3780 del nostro Museo, compilazione privata senza alcuna autorità di documento, si legge: “Nel 1507 Piero Fasiol, essendo di notte stado trovato dai birri con un fodaro di coltello, ed essendo la stessa notte successo un omicidio, scoperto l’interfetto, si trovò impresso nella ferita il coltello, e rimesso questo nel fodaro ritrovato dal Fasiol riconoscè ch’era a quello appartenente. Ma nel corso del suo processo ebbe una malattia mortale che si dovette confessare e suggetitogli che palesasse il delitto per salvarsi l’anima, egli acconsentì e palesò, ma poco dopo rimessosi in salute, fu per sentenza del Consiglio dei Dieci impiccato. Dalla sua innocente morte fino alla caduta della Repubblica ogni giustiziato si raccomandava all’anima del povero Fornareto“.
Ma tale narrazione non resiste alla critica!
Le “Raspe“, documento ufficiale dove si notavano tutte le sentenze, non fanno alcun cenno né dell’arresto né della condanna di Piero Fasiol; Marin Sanudo che in quell’epoca scriveva i suoi Diari, e tutti annotava anche i minimi avvenimenti della vita veneziana, non ne fa parola e così pure il Priuli nella sua cronaca. Ma donde allora nacque la favola che prosperò così profonda e indelebile da sopravvivere alla caduta della repubblica e resistere alla verità nella storia? Alessandro Luzio dirada in parte le tenebre che avvolsero sempre l’origine di questa leggenda.
A Padova verso la fine del cinquecento erano in lotta fra loro le famiglie Dotto, Obizzi, Zacco. Il 16 maggio 1591, Giulio Dotto incaricava alcuni sicari di uccidere Giacomo Zacco, nominato allora della Repubblica governatore di Candia, e difatti egli venne ucciso nello stesso giorno presso la chiesa di Santa Sofia.
Il Consiglio dei Dieci ordinò subito l’arresto del maggior colpevole, Giulio Dotto, e dei presunti esecutori; Girolamo Casale e un altro bravo soprannominato il Fornaretto. Era costui tale Francesco di Antonio Tosello fornaio: nei documenti veneziani è chiamato Bosellli, Roselli e perfino Rosei, ma il cognome però importava poco, bastava a designarlo il nomignolo di Fornaretto che aveva sostituito per tutti il casato paterno.
Il Fornaretto era fuggito nello stato di Mantova, ma fu arrestato colà dalla polizia del Duca come contravventore al divieto di portar archibugi a ruota. Casale scomparve del tutto, Giulio Dotto, arrestato, fu punito con anni otto di relegazione in Arbe, ridente isola del Quarnero sulle coste della Dalmazia. Dinanzi alla mite condanna i Zacco protestarono. Il Consiglio, per far tacere i malumori, saputo che il Fornaretto era a Mantova trattò con il Duca per averlo: lo ebbe e fu rinchiuso nei pozzi di San Marco.
Protestarono i Dotto e si accese allora tra le famiglie nobili di Padova una grande gara di “brogli“, di pressioni, di raggiri pro e contro il Fornaretto; chi voleva fosse impiccato come autore dell’assassinio per scolpane il Dotto, chi liberato perché innocente.
Dal processo fattogli egli apparve innocente, ma da tre anni egli marciva tra le carceri di Mantova e quelle della Repubblica e al popolo parve sempre somma ingiustizia che mentre Giulio Dotto viveva in allegria nella ridente Arbe, il Fornaretto languisse nelle tetre carceri ducali.
Francesco Tosello fu liberato, ma le sue dolorose vicende restarono per molto tempo vive nel popolo, circondate da questa simpatia che desta sempre l’innocenza perseguitata.
Più tardi i diffamatori di Venezia e delle sue istituzioni giovandosi del soprannome e dei casi del Tosello, forse non del tutto dimenticato, inventarono, sullo stesso tema dell’innocente calunniato, la tragedia del povero Fornaretto veneziano.
Così racconta su documenti inoppugnabili e plausibilmente arguisce il Luzio. Dal Fornaretto di Padova sorse dunque la fiaba del Fornaretto di Venezia, cui si aggiunse la popolare leggenda delle due lampade che si accendono ancora ogni sera in espiazione della morte di Pietro Fasiol dinanzi alla immagine della Madonna nel lato della chiesa di San Marco che domina la Piazzetta.
Favola il Fasiol e favola quest’ultima leggenda, poiché la spesa dell’olio per le due lampade, che ci accendono fin dal 1450, cioè molto prima della presunta condanna del Fornaretto, si trae dai fondi della zecca, ora assegnati alla Fabbriceria di San Marco, ed é il frutto di un capitale lasciato alla Zecca dal voto di alcuni marinai in pericolo di naufragio.
Così alla storia del bravo di Padova si sostituì la leggenda del “povero Fornareto” infiorata di tutte le storie calunniose che imperversarono e tuttora imperversano sulla grande storia della Repubblica. (1)
(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 12 aprile 1925.
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