Leonardo Loredano. Doge LXXV. Anni 1501-1521

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Leonardo Loredano. Doge LXXV. Anni 1501-1521

Instituiti i tre inquisitori del doge defunto, come dicemmo, vennero, nella nuova Promissione ducale, rinnovati con maggior severità gli articoli che proibivano 1’accettazione di qualunque dono, il favorire dei parenti negli uffici; ed essendo costume che ogni sposa patrizia si presentasse al principe, tale cosa non fu più permessa, se non alle sole sue parenti.

Uopo ciò veniva eletto doge, il dì 2 ottobre 1501, Leonardo Loredano, d’anni sessantasei, non distinto per meriti acquistati, ma solo perché uscito d’illustre famiglia; e come dice il Sanudo, avea patrimonio mediocre, cioè da trentamila ducati; era d’aspetto macilente, di alta statura, di salute mal ferma, e perciò viveva con gran regola; d’umanissima indole, ma collerico; savio e di molta destrezza nel maneggio della cosa pubblica, onde il suo consiglio in Collegio per lo più prevaleva ed era sempre apprezzato.

Appena assunto al trono, cercò il Loredano di conchiudere pace col Turco, al quale effetto spediva a Bajazette il segretario del Consiglio dei dieci Zaccaria Freschi, con ampia facoltà di trattarla: e di fatti riuscì a stabilirla il dì 20 marzo 1503; confermata poi dal Senato due mesi dopo.

Le cose però nella Romagna, dopo la morte dei pontefici Alessandro VI e Pio III prendevano aspetto minaccioso. Imperocché, eletto Giulio II al pontificato, si fece egli a domandare vigorosamente alla Repubblica la restituzione delle terre da essa occupate; di Urbino, cioè, conseguita per cessione del duca Guidobaldo; di Bertiuoro, di Fano, di Montefiore sottrattesi alla tirannide del duca Valentino; di Rimini, avuto per convenzione con Pandolfo Malatesta; di Faenza, acquistata per forza: sicché la Repubblica, non potendo persuadere il Pontefice a miti pensieri, volse l’animo a resistervi; per la qual cosa si preparavano ad essa nuove e grandi sventure.

E di vero, il Papa macchinava una lega con Francia e Germania; maneggi diplomatici seguivano per indurre i principali sovrani d’Europa ad ottenere che la Repubblica restituisse alla Chiesa tutte le terre già possedute dal duca Valentino. Quindi furono spediti oratori a Venezia dall’imperatore Massimiliano, affine d’indurre il Senato a cota1 restituzione; ai quali si rispondeva, non tenere le ragioni adotte da Giulio II, per aver quelle terre; ed anzi, fatto forte nei suoi diritti, il Senato non avrebbe mai ad essi rinunziato. Sdegnatosi vieppiù il Pontefice per tale ostinazione, si volgeva a tutti i principi cristiani, riuscendo a conchiudere tre diversi trattati, con l’ultimo dei quali, principalmente la Francia ed il re dei Romani, si collegavano contro la Repubblica, con obbligo di assalire di conserva, e dividere i suoi Stati di terraferma; trattato che venne poi confermato il 4 aprile 1505, nel quale intervenne anche il Papa.

Non appena ebbe qualche sentore di ciò il Senato, spiegava la sua operosità diplomatica, e, tutto dissimulando, procurava di conservarsi il re di Francia benevolo; cercava di amicarsi Massimiliano e Spagna; e per agevolare le pratiche, placava il Pontefice cedendogli le terre di Romagna già tolte a Valentino, ritenendo soltanto Rimini e Faenza, coi patti medesimi coi quali le aveva possedute Pandolfo Malatesta. Così parvero accomodate le cose col Papa; ed era lusinga che tutto potesse volgere a quiete.

Ma l’Italia continuava a commuoversi; che Firenze perseverava in guerra con Pisa; Genova era agitata dalle fazioni; il Pontefice deliberava di abbattere tutti i tirannucci di Romagna; e Massimiliano disegnava calare in Italia, onde farvi valere i suoi diritti e punire il re di Francia, che mancava ai patti.

Quantunque la Repubblica a tutti codesti movimenti tenesse vigile occhio, pure le tornava impossibile impedire che tanto avviluppamento di cose non prorompesse, o tosto o tardi, in qualche scoppio violento. E di fatti scoppiava, allorché Massimiliano chiedeva alla Repubblica il passaggio delle sue genti per le terre di lei, onde recarsi a Roma per ricevere dalle mani del Pontefice la corona imperiale, ma col fine coperto di togliere ai Francesi il ducato di Milano; passaggio che gli era negato; sicché, salito in ira Massimiliano, spingeva il suo esercito ad occupare i territori di Trento e del Friuli. Ma il Senato gli oppose valida resistenza da ambedue le parti, riportando in Friuli il generale Bartolomeo d’Alviano, e il provveditore Giorgio Cornaro memorabile vittoria a Cadore. Intorno alla quale, ed ai fatti che la precedettero e susseguirono, tra cui la tregua fermata per tre anni, il dì 20 aprile 1508, é a leggersi la illustrazione della Tavola CLVI, ove é inciso il dipinto che la rappresenta, operato da Francesco Da Ponte, detto il Bassano, collocato nel soppalco della sala del Maggior Consiglio.

Quella tregua però non servì che a preparare i principi ed il Papa anche a rompere la più funesta guerra che abbia mai sostenuta la Repubblica; guerra che veniva deliberata nel trattato conchiuso, il dì 10 dicembre 1508, a Cambrai; con il quale trattato papa Giulio II, Luigi XII di Francia, l’imperatore Massimiliano I e Ferdinando V, re di Aragona e di Napoli ed altri principi, si obbligavano scambievolmente ad aiutarsi in ogni maniera, affine di ricuperare le porzioni dei loro Stati, passate, o per compera o per diritti di guerra, in potere della Repubblica, la quale in quel trattato veniva appellata usurpatrice illegittima. Intorno al quale trattato, e intorno alle principali battaglie, alle perdite, alle vittorie, ed altri fatti che ebbero luogo durante quel lungo periodo, fino alla tregua conchiusa nel 1517, duratura un anno e un mese, si vedano le illustrazioni delle Tavole XCIV, CLVI1I e CXLVII; ove sono incisi, nella prima, il dipinto di Jacopo Palma Juniore, recante la lega di Cambrai, collocato nella sala del Pregadi; nella seconda, l’altro dipinto dell’autore medesimo, con Padova riacquistata da Andrea Gritti e da Giovanni Diedo, inserito nel soppalco della sala del Maggior Consiglio; e nella terza, il soppalco stesso, in cui per mano di Pietro Longo, in uno dei molti comparti che lo compongono, a chiaro-scuro, rappresentò il doge Loredano che dà udienza agli ambasciatori del sultano Bajazette.

Lunghi maneggi diplomatici ebbero luogo in seguito per comporre le cose ed appianare le difficoltà; onde il dì 30 luglio 1518, si venne ad una più lunga tregua, che durare doveva un quinquennio. Sennonché, venuto a morte, il dì 19 gennaio 1519, l’imperator Massimiliano, vive gare si accesero per la successione, tra Carlo di Spagna e Francesco I di Francia; e ripigliatesi le pratiche per conchiudere definitivamente la pace, non poterono ottenere che il rinnovamento della tregua per altri cinque anni, segnata in Worms, il dì 3 maggio 1521; per conseguire la quale dovette la Repubblica cedere Aquileja ed altri luoghi al nuovo imperatore Carlo V.

Altre e più gravi discordie e furiosi turbini dovevano accadere in Italia per lo possedimento del regno di Napoli, cui pretendevano il re di Francia e l’imperatore: e più gravi ed acerbe nell’Europa, dalla nuova eresia di Lutero, alla quale tennero dietro quelle di Zuinglio e di Melantone, diffusesi nella Germania, nella Svizzera, nei Paesi Bassi e nella Svezia. La Repubblica, senza mostrarsi severissima e perfino atroce, come alcuno, con poca critica, l’accagionò, seguì una politica conciliativa, per non allontanare dalla città e dallo Stato le genti varie che concorrevano a cagion dei commerci. Ebbe a regola la giustizia, curò gelosamente che fossero contenuti gli scandali, punì talvolta i rei contumaci, e per tal modo non suscitò le ire, salvò intemerata la religione; dimostrando essere quella sola la via di provvedere, onde non si dilatasse la mala semente, come accadde in Germania ed altrove per avere abbracciato diverso consiglio.

In tale stato lasciava la Repubblica doge Leonardo Loredano, allorché, il dì 22 giugno 1521, moriva nell’età di ottantatre anni, come dice la sua inscrizione sepolcrale. Ebbe onori funebri e tomba nel tempio de’ santi Gio. c Paolo (!2), ed elogio da Andrea Navagero, che va alle stampe.

Né solamente il lungo suo ducato fu gravido di grandi fatti all’esterno, che nell’interno ne accaddero molti e rilevantissimi, per cui, a seguire lo stile da noi abbracciato, qui gli epiloghiamo. E innanzi tratto, accenneremo la venuta in Venezia, nel 1500, di quattro ambasciatori di Norimberga, spediti a chiedere un esemplare delle venete leggi, a regola del proprio governo; fatto cotesto espresso da Carlo e Gabriele Caliari nella sala delle quattro porte, inciso nella Tavola LXVIII, alla cui illustrazione rimandiamo il lettore : soggetto ripetuto poi a chiaro-scuro, nel soppalco della sala del Maggior Consiglio, per opera di Andrea Vicentino.

E poiché accennammo alle leggi, ricorderemo i nuovi magistrati instituiti al tempo del Loredano. Nel 1501, si decretò il magistrato dei Tre Savi alle acque, che poscia, nel 1505, si convertì in un Collegio di quindici, accresciuto fino al numero di venticinque, e, nel 1543, portato a quello di settantacinque. Nel I506, furono instituiti provvisoriamente li Cinque Savi alla mercanzia, affinché intendessero ed investigassero ogni disordine nel commercio, apprestandovi il dovuto rimedio: magistrato cotesto che fu reso perpetuo nel 1517. Il Collegio delle urti, a cui era commesso il correggere gli abusi, fu creato nel 1513, ed era composto dei tre provveditori sopra la giustizia vecchia, dei cinque savi alla mercanzia, dei quattro giustizieri e del magistrato dei regolatori dei dazi. Nel 1514, fu reso stabile ed ordinario il magistrato dei Tre Provveditori sopra le pompe, vale a dire, sopra il lusso smodato. Li Tre Riformatori dello studio di Padova furono instituiti nel 1516, e ciò per far risorgere lo studio delle lettere, scaduto in occasione della guerra sostenuta per la lega di Cambrai. Nel 1517, affine d’impedire i mali cagionati dall’ambito, si creò il Magistrato dei Censori, composto di due nobili. Leggi eziandio speciali si emanarono per la buona amministrazione della giustizia, per la economia dello Stato, e per la conservazione della morale, di che ne fa prova, oltre l’istituzione dell’accennato ufficio sopra le pompe, il decreto del 1516, col quale si ordinò che gli Ebrei dovessero abitare separatamente dai cristiani nel luogo appellato il Ghetto, cioè in un circondario di case chiuso con due porte; proibendo loro di uscire dal medesimo nottetempo.

A tutte queste notizie aggiungiamo quelle delle nuove fondazioni e fabbriche cospicue innalzate sotto il reggimento del Loredano ; dalle quali sarà dato rilevare come, in mezzo a tante calamità, da cui furono afflitti i Veneziani, non pretermisero curare il decoro della religione e l’abbellimento della città. In riguardo alla prima, si rifabbricarono, nel 1505, le chiese degli Ognissanti e di San Geminiano, quest’ultima murata con disegno di Jacopo Sansovino; come pure nell’anno appresso si rifece quella di San Sebastiano. Nel 1508, s’ingrandirono le chiese di San Pietro di Castello e di San Tomaso; e nel 1510, si rinnovò quella di Santa Maria Mater Domini. Si fondò, nel 1512, la chiesa ed il monastero di San Giuseppe di Castello; nel 1517, si diede principio a murare la grandiosa fabbrica della confraternita di San Rocco, con la direzione degli architetti Giulio e Santo Lombardo, e finalmente, nel 1520, si riedificò, dai fondamenti, la chiesa di San Leone. Ad abbellimento poi della città si continuarono i lavori nella fabbrica del Palazzo Ducale, come narrammo al Capo XIII della Storia di essa fabbrica. Nel 1505, si gettarono da Alessandro Leopardi li tre pili di bronzo eretti nella gran piazza di San Marco; ed si ordinò il monumento al cardinale Zeno, e l’altare della Madonna detta della Scarpa, nella chiesa di San Marco, opere stupende fuse pure in bronzo. Nel 1514 si rifece la cima del campanile di San Marco, ponendovisi sopra, nel 1517, l’angelo dorato, e nello stesso anno, si elevò il terzo ordine delle Procuratie vecchie.

Né le guerre soltanto travagliarono, in questo periodo, la città, che ebbe essa a soffrire pesti, terremoti ed incendi. Infieriva la peste nel 1503, e tre anni dopo vi fu cotale epidemia, che perirono molti abitanti. Si rinnovellava la peste, che fu però mite, nel 1510; ma l’anno appresso infuriò, sicché ne morivano da quaranta al giorno, a motivo anche della grave carestia, di cui parla ampiamente nei suoi Diari il Priuli. 11 terremoto, nel 1504 e 1511, fece danni gravissimi, giacché caddero molte case, chiese e torri campanarie, rimanendo offeso perfino il campanile di San Marco. Gli incendi pure recarono perdite incalcolabili. Tali furono, quello che arse nel 1505 il fondaco dei Tedeschi, l’altro del 1506, che distrusse molte case a San Cassiano; li due accaduti nel 1509 e 1521, che rumarono molta parte dell’arsenale, con varie case appresso, e per i quali perirono alquante persone; ed in fine quello che abbruciò, il dì 10 gennaio 1514, il cenobio dei Crocicchieri e tutto Rialto, con danno di duecentomila ducati.

Sul breve, che tiene nella destra mano il ritratto del Loredano, si legge la seguente inscrizione:

OMNIVM PROPE EVROPAE PRINCIPVM IN REMP. CONSPIRANTIVM, ARMA COMPRESSI,
LIBEROS ET FORTVNAS PRO REIPVB, INCOLVMITATE DEVOVI, EO EXITV, VT QVVM NVMQVAM
DE REPVB, DESPERARIM, AB OMNIBVS EVROPAE REGIBVS OPPVGNATVS, VNIVERSO DEMVM
BELLO VICTOR EVASERIM. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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