Chiesa e Monastero di Santa Giustina

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Chiesa di Santa Giustina - Castello

Chiesa di Santa Giustina. Monastero di Monache Agostiniane.  

Storia della chiesa e del monastero

Fra le chiese, che per celeste rivelazione fece erigere nella nascente città di Venezia il vescovo di Oderzo San Magno, ivi si ricoverò dal furore dei Longobardi, si numera la sesta, quella dedicata a Santa Giustina vergine e martire padovana. Apparve la santa martire circondata da una splendida nube al santo uomo, e lo avvisò essere divino volere, che sotto l’invocazione del di lei nome facesse in quel sito innalzare una chiesa, ove vedesse una vite germogliar frutti novelli. Riconobbe il Santo l’indicato sito posto in un estremo angolo della città, ed ivi col sussidio dei fedeli fece fabbricar una chiesa, che fino dai suoi principi eretta in parrocchiale, divenne poi collegiata, ufficiata a canonici fino da principi del secolo XIII, leggendosi nell’epistole di Innocenzo III, aver lui rimessa al primicerio di Grado, ed al piovano di Santa Sofia delegati apostolici, nell’anno 1207, una controversia d’Alberto prete contro i canonici di Santa Giustina, che ricusavano ammetterlo nel loro capitolo.

Quantunque però sì lontana traesse la sua origine questa chiesa, non ebbe l’onore dell’ecclesiastica consacrazione, che nell’anno 1219 per mano d’Ugolino cardinal Ostiense legato apostolico, che pochi anni dopo fu assunto al sommo pontificato sotto nome di Gregorio IX. Nello stesso secolo che fu consacrata, fu anche eretta in priorato la chiesa: e creder si deve, che fosse da priori amministrata, finché restò consegnata ai canonici regolari dell’Ordine del Salvatore, istituiti da Santa Brigida, i quali, come si rileva da pubblici documenti, ivi dimoravano nell’anno 1429. Non molto però dopo tal tempo, sorse per la scarsezza delle rendite, vi dimorarono i canonici brigidiani, i quali lasciato a custodia del luogo un solo converso del loro ordine, abbandonarono tutti ad un tratto il monastero sotto il pontificato di Eugenio IV, che con apostolica bolla segnata nell’anno 1441, riservò all’ultimo priore Bernardo de Fara una pensione annua di 25 fiorini sopra le rendite del priorato medesimo.

Perché dunque in un luogo rispettabile per l’antichità della prodigiosa sua origine, non venisse a mancare il divino culto, ricorsero i parrocchiani supplichevoli al pontefice Niccolò V, acciò che con apostolica autorità assegnare volesse il priorato di Santa Giustina vuoto d’abitatori alle Monache di Santa Maria degli Angeli, perché in esso spedissero una religiosa colonia dell’esemplari sue suore. Accompagnò le istanze dei parrocchiani con efficaci sue lettere il pio e celebre senatore Francesco Barbaro, il quale avendo sacrificato a Dio due sue figlie nel Monastero degli Angeli, poté con verità attestare al pontefice non solo l’esimia santità di quelle ottime religiose, ma pur anco l’angustia del luogo, ormai incapace a ricevere, ed alimentare il dilatato numero delle concorrenti. Accolse il pontefice le umili preghiere degli oratori, e con bolla apostolica in data del giorno 3 di marzo 1448, ordinò ad Antonio Bon vescovo di Jesolo, che confrontata la verità dei racconti, dovesse nel priorato di Santa Giustina sopprimer l’ordine di Santa Brigida, ed ergere un monastero di monache sotto la regola di Sant’Agostino, a cui trasferire si potesse parte del convento di Santa Maria degli Angeli, con obbligo di dover mantenere due cappellani all’assistenza dell’anime, ed all’amministrazione dei sacramenti secondo le esigenze dei parrocchiani.

Fu eseguito il decreto apostolico dal vescovo delegato nel giorno 17 di maggio dell’anno 1450, dopo di che convenne consumare tre anni in circa di tempo nel restauro e dilatazione degli edifici, onde potessero riuscire opportuni al numero delle nuove abitatrici. Ridotti poi questi a perfezione nell’anno 1453, si congregarono le monache degli Angeli, e stabilito prima, che una giusta metà di esse dovesse partirsi ad abitare in Venezia nel nuovo istituito monastero, divennero ad una giusta partizione delle rendite, le quali con l’assenso del santo patriarca di Venezia Lorenzo Giustiniano, e di Domenico dei Domenici vescovo di Torcello, furono assegnate metà per ciascuno ai due monasteri. Concesse poi papa Calisto III, nell’anno 1458, alle monache di Santa Giustina, che potessero a loro arbitrio eleggersi il confessore. Così disposte le cose, elessero le monache in virtù del privilegio di loro fondazione il parroco sotto il titolo di cappellano curato, al quale defunto nell’ anno 1470, destinarono successore Giovanni Grimani prete titolato della chiesa di San Giuliano. Si opposero a tale elezione alcuni dei parrocchiani, pretendendo loro prerogativa la nomina dei piovani: ma ridotta la controversia al giudizio del patriarca Matteo Gerardi, decise egli a tenore del privilegio di Niccolò V, che ferma restare dovesse l’eseguita elezione, e che le monache sole per l’avvenire stabilire dovessero il sacerdote destinato alla cura dell’anime.

Frattanto l’antica chiesa andava ogni dì incontrando maggiori discapiti, e finalmente nell’anno 1500. improvvisamente per la maggior parte rovinò per cui accorsero piamente a rinnovarla a loro spese Zaccaria Barbaro, Marc’Antonio Morosini, Girolamo Contarini, Matteo ed Andrea Dandoli piissimi senatori, e vi impiegò pure riguardevole somma di soldo Girolamo di Giovanni, cosicché ridotta nello spazio di XIV anni a compimento, fu solennemente consacrata nel giorno 14 di maggio dell’anno 1514, da Domenico Zon vescovo di Chissamo nel regno di Candia.

A destra dell’altare maggiore eretto tutto di preziosi marmi, dalla pietà della famiglia patrizia Dolce, vi è un altare dedicato a Nostra Signora, il di cui simulacro rozzamente espresso in marmo ivi si venera trasportato da Candia nella fatale invasione di quel regno. Di questa venerabile immagine miracolosamente arrivata in Candia così si narra nei registri del monastero, dei quali questo è un trassunto.

Allorché la barbara nazione dei saraceni invase le spagne, molti dei fedeli per sottrare le sacre immagini agli insulti dei barbari, segretamente le nascosero: del qual numero è quella, che rappresentante la Madre di Dio ora si venera nella chiesa di Santa Giustina di Venezia. In qual maniera ella giungesse in Candia, ci è noto: ma si fa solamente per tradizione, che per mano angelica fosse riposta, nella stalla dei cavalli di Andrea Muazzo nobile veneto, nella città di Candia: cosicché svegliato da grave rumore il custode vide attonito un mirabile splendore fra i suoi cavalli, che vide tutti a ginocchia e teste piegate verso un simolacro di Maria Vergine ivi improvvisamente collocato. Avvisatone il padrone, corse egli tosto a venerar la prodigiosa immagine, ed al primo spuntare del giorno ne fece consapevole l’arcivescovo, per di cui ordine fu solennemente condotta la sacra immagine alla chiesa cattedrale di San Tito. Ma avendo Dio altrimenti disposto, nella notte seguente ritornò, portatovi da invisibile mano, il venerabile simolacro nel primiero luogo della stalla, ove poi sotto l’invocazione di Maria Vergine fu eretta una chiesa.

Passati poi pochi anni, alcuni nobili viaggiatori spagnoli arrivati casualmente alla nuova chiesa, vi riconobbero il prodigioso simolacro, affermando averlo essi stessi venerato prima nella loro patria, e riconoscerlo per due colpi di coltello, con i quali ingiuriosamente l’avevano ferito gli infedeli. Ritornati dunque in sua patria sollecitarono il loro re, perché recuperare volesse la mirabile immagine perché fu mandato un legato in Candia, che dal rettore dell’isola finalmente a grave stento ottenne, che riportar lo potesse nel regno di Spagna. Ma non volendo Iddio, che il popolo di Candia restasse sconsolato, fece che nella notte seguente alla partenza della nave la santa immagine con inaudita prodigio invisibilmente rapita ritornasse al sito primiero della sua chiesa, ove divenne sempre più celebre per i continuati miracoli: e finalmente nella deplorabile occupazione di quella regia città fu da un devoto sacerdote rapita all’empietà dei turchi, e tradotta a Venezia fu collocata in questa chiesa. Tale è la narrazione di queste traslazioni, alle quali è mio fermo proposito di niente aggiungere, né diminuire di credito.

Affisso con decorosi ornamenti ai muri della chiesa vedi un marmo, in cui è fama, che la vergine Santa Giustina lasciasse impresse le vestigia delle sue ginocchia piegate sopra di esso, allorché a ponte Corvo in Padova ricevette per mano del carnefice la palma del martirio. All’interno della chiesa riccamente di scelti e preziosi marmi adorna corrisponde l’esteriore facciata di marmo eretta a spese di Girolamo Soranzo procurator di San Marco.

Per decreto della pubblica autorità vien ogni anno solennemente visitata questa chiesa dal doge e dal senato, in memoria dell’insigne vittoria, che nell’anno 1571, riportarono i principi cristiani collegati contro l’armata navale di Selimo gran signore dei turchi. (1)

Visita della chiesa (1733)

Nell’entrare per la porta maggiore sotto il coro a mano sinistra vi è la Cena di Cristo con gli Apostoli, opera bella di Santo Peranda. E all’incontro la crocifissione; opera del Palma. Il soffitto pure fotto il coro della resurrezione è dello stesso autore. Negli angoli i quattro chiaroscuri sono del Peranda. Dalle parti della porta vi sono due quadri di mano di Marco di Tiziano, nell’uno il Cristo all’Orto, nell’altro la Flagellazione. Segue la Nascita del Signore; del Liberi. Dopo questa vi è una tavola d’altare con San Magno vescovo di Eraclea fondatore di questa chiesa e i Santi Sebastiano, Rocco, e Monaca, con un chierichetto, che tiene il pastorale, di Giovanni Contarini; opera delle sue belle. Le portelle dell’organo con i Santi Pietro e Paolo a chiaroscuro sono del Peranda. Segue la tavola della Madonna di Loreto con molti angeli, dell’Aliense. Sopra la cornice il battesimo di Santa Giustina è opera bellissima del Padovanino. Sotto vi è la Nascita di Cristo del Mare. Appresso l’Annunziata è del Peranda. Nella Capella maggiore il quadro dove Cristo è condotto al Monte Calvario è di Matteo Ponzone. La tavola dell’altare contiene il martirio di Santa Giustina; opera assai bella del Palma. L’altro quadro laterale è Cristo preso nell’orto, di Francesco Ruschi. Segue fuori della detta cappella la visita di Santa Elisabetta dell’Aliense. Indi di Pietro Vecchia, un doge dinanzi a Santa Giustina, che le rende grazie per la vittoria contro turchi. E sopra il detto San Magno vescovo, che fa fabbricar quella chiesa di mano del Padovanino. La tavola poi del Cristo in Croce è dell’Aliense. Sopra il pulpito la presa di Santa Giustina con un soldato a cavallo, ed altri: è un bellissimo quadro pure del Padovanino. Segue la tavola di Santa Brigida, un Pontefice, San Bernardo, ed altri di mano di Baldissera d’Anna. Il quadro poi sopra la porta con i Santi Giustina, Giovanni; Giuseppe ed un angelo vestito di bianco è opera delle belle di Pietro Vecchia. Sopra di questo un quadro con un angelo che consola Santa Giustina in prigione è di Filippo Zanimberti. (2)

La battaglia di Lepanto

Nell’anno 1569 Selimo II formò il progetto d’invadere il regno di Cipro appartenente allora alla repubblica. Benché le due potenze fossero in pace fra loro, pure, sedotto dalle adulazioni dei tristi consiglieri, non si fece Selimo veruno scrupolo e volle impadronirsene. La sorpresa dell’attacco, i tardi quantunque promessi soccorsi degli alleati della repubblica gli assicurarono la riuscita dell’impresa per modo che in meno di due anni di quel floridissimo regno più non rimaneva ai veneziani che la citta di Famagosta. I principi cristiani, rimasti sin allora indolenti sui progressi dei turchi, si avvidero di qual necessità fosse il reprimerli. Offersero quindi forze di difesa; tennero un concilio generale; concertarono le operazioni e creato venne capitano generale della lega don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V e generale di Filippo re di Spagna. Famagosta intanto si consumava dalla fame e gli abitanti con le lagrime scongiuravano il comandante a dover capitolare. Benché i patti di quella capitolazione fossero di rispettare le proprietà di quegli abitanti che volessero rimanere nella città pure fu abbandonata al saccheggio. Il comandante Bragadin fece porgere lamenti di tale tradimento al pascià.

Mustafà, e questi mostrò di dargli ragione: anzi volle conoscerlo personalmente. Gli si presentò Bragadin dinanzi con altri tre comandanti e con 40 artiglieri. Il pascià cortesemente gli accoglie; ragiona sull’assedio e chiedendo a Bragadin un ostaggio per il libero ritorno in Candia dei vascelli veneziani, dichiara di voler il bellissimo giovane Antonio Querini colà presente. Si accorse Bragadino delle malnate voglie di Mustafà, e resistendo vigorosamente ebbe il dolore di veder recise le teste di coloro che lo avevano accompagnato, per essere lui serbato a venir scorticato vivo alla presenza di Mustafà medesimo. Sostenne il misero tutte le angosce di una lenta morte con la forza di un eroe e con la rassegnazione di un martire. Ma poiché gli spirava, Mustafà volle aggiungere l’oltraggio a tanta atrocità raffinata. Fece riempire di paglia la pelle del valoroso, la fece porre sul dorso di una vacca e girare per la città; indi dopo essere stata appesa sull’antenna di una galera alla vista generale, la fece trasferire a Costantinopoli acciocché nell’arsenale stesse monumento della barbarie musulmana. Quella pelle però strascinata, oltraggiata ed avvilita fu recuperata in seguito dalla famiglia Bragadin; indi in un bel monumento deposta nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo dove torneremo a ricordarla ai nostri lettori.

Frattanto all’annunzio di tali atrocità, ed ai continui progressi dei turchi, parvero più che mai scuotersi i principi cristiani onde agire risolutamente. Le squadre quindi degli alleati, composte di 250 legni, si trovavano adunate a Messina; ma i veneziani che sotto il comando del valoroso Sebastiano Venier formavano parte della lega si sentivano sovra tutti bramosi di vendicar tante offese. Tuttavolta agire non potevano poiché il comando generale della flotta era affidato a don Giovanni d’Austria. Questi, convocato il consiglio di guerra, voleva anzi rientrare nel golfo di Venezia; ma, Venier mostrò essere necessario andar immediatamente a colpire il nemico raccolto verso Lepanto. Abbracciata da tutti quell’opinione, la notte del 7 di ottobre tutta l’armata era già pervenuta nello spazio di mare che è tra il golfo di Laerte e quello di Lepanto, alla vista delle isolette delle Curzolari.

Tutto è disposto per l’attacco. Il pascià Alì, comandante dei Turchi, forte di oltre 400 navigli, ingannato dalle isole Curzolari sul numero delle galee cristiane, risolse di andar il primo ad in contrare gli alleati assalendo l’ala dei veneziani. Per un’ora sostenne essa l’assalto turchesco. Barbarigo che la comandava, temendo non bene intesi i suoi comandi per avere il viso coperto dalla celata se lo scoperse in mezzo al nembo delle saette. Difatti il suo ardire gli valsi: la fuga del destro corno nemico; ma però ferito rimase egli in un occhio. Frattanto il comandante ottomano Alì, trovatosi nel mezzo a fronte delle galee sottili, e percosso alle spalle dalle grosse tentava fuggire; ma don Giovanni e Venier di concerto lo investirono nel mentre che Colonna ammiraglio pontificio assaliva l’altra porzione dei nemici. Divenuto così uguale per tutto il combattimento, per tutto era uguale la strage, sebbene incerto fosse ancora l’evento. Già la galea imperiale dei turchi sin all’albero è guadagnata. Un colpo maestro di don Giovanni la sottomette, ed in un istante sventola in essa la croce; la testa di Ali, spiccata dal busto, si erge su una lancia per servire di terrore ai vinti.

Rimaneva il sinistro corno musulmano da essere conquiso; corno che andava riportando qualche vantaggio sui Cristiani. Ma in quella sopraggiunge Marco Querini, e si cangia la sorte: i Turchi sono fuggenti anche da quella parte; pure inseguiti dai nostri riesce per tutto orrendo lo scempio. Non mai vi fu vittoria più compiuta di questa che dalle isolette presso cui nacque si dice delle Curzolari e più comunemente di Lepanto. Settemila cinquecento furono i Cristiani uccisi, tra i quali 2300 galeotti veneziani, 26 patrizi e tre nobili di terra ferma. I feriti superarono di molto gli estinti, ma si liberarono 1500 schiavi; si uccisero oltre a 30.000 turchi; 3406 si ridussero in schiavitù; e 224 furono i legni conquistati. Vive congratulazioni ricevette il prode e vecchio comandante Venier da tutti i comandanti degli alleati pieni di una gioia inusitata. E come Venier si restituì al porto di Petalà spedì Onfredo Giustiniani a Venezia per recarne la faustissima nuova. Allorché giunse quella galera a Venezia il popolo adunato in sul molo vide lo spettacolo straordinario di soldati vestiti alla turchesca, di bandiere nemiche striscianti sull’onde. Non dubitò più della felice impresa: gridò: Vittoria! vittoria! Il corpo patrizio dal maggior consiglio sceso nella piazza e frammisto alla moltitudine si recò alla basilica onde render grazie all’Altissimo. Indi, ordinati celermente e pomposamente i funerali agli estinti, la maschia eloquenza di Paolo Paneta ne recitò le lodi con un’orazione. Dai funerali passando alle feste pubbliche, Venezia diede in esse lo spettacolo di una città la più florida e la più magnifica dell’Europa. A dare un’idea di tali magnificenze, come saremo giunti a Rialto con le nostre descrizioni, narreremo le feste fatte da quella contrada in siffatta occasione.

Però allorquando tutte le feste ebbero fine, volle il governo eternare con monumenti la memoria del giorno di Santa Giustina (7 ottobre) in cui venne la vittoria delle Curzolari. Prima innalzò la statua di quella santa, siccome abbiamo veduto, sulla gran porta terrestre dell’arsenale; indi coniò una nuova moneta il cui nome volle che fosse Giustina avente per motto: Memor ero tui, Justina virgo; finalmente stabilì che ogni anno il doge con la Signoria andrebbe in gran pompa a visitare la chiesa di questa santa.

Questa chiesa adunque, comunque chiusa per la soppressione accaduta a molte altre nel 1810, ricorda nondimeno il memorando avvenimento fin qui esposto, e le annuali visite ad essa fatte dal doge insieme al reale suo carteggio. Regalate venivano le monache in quell’occasione dal doge stesso di alcune delle dette monete di Santa Giustina, oltre il continuo mantenimento che faceva il governo di 12 religiose, per il voto della vittoria ricordata. (3)

Eventi più recenti

La chiesa, dopo la soppressione delle monache, fu chiusa nel 1810, e nel 1844 divisa in due piani perché si prestasse, con parte del convento, a casa d’educazione militare, nella qual circostanza se ne riformò anche la facciata col toglimento del timpano, e delle statue che lo decoravano. Negli anni passati l’edificio servi per qualche tempo di ricovero alle vittime dell’inondazione. (4)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ANTONIO MARIA ZANETTI. Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia ossia Rinnovazione delle Ricche Miniere di Marco Boschini (Pietro Bassaglia al segno di Salamandra – Venezia 1733)

(3) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

(4) GIUSEPPE TASSINI. Edifici di Venezia. Distrutti o vòlti ad uso diverso da quello a cui furono in origine destinati. (Reale Tipografia Giovanni Cecchini. Venezia 1885).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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