Sala del Maggior Consiglio

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Sala del Maggior Consiglio - Palazzo Ducale

Sala del Maggior Consiglio

Questa sala lunga piedi veneti 151 c. e larga 74 venne incominciata nel 1309, e si è finita nel 1423; da cui si vede che il Calendario nel 1343 riduceva il palazzo non lo demoliva del tutto come nel principio si è detto.

Fu la prima volta dipinta questa sala a chiaro-scuro verde, e la seconda venne rifatta a vari colori per mano del Guariento e del Pisanello. Guariento specialmente (anno 1365) in testa di essa dipingeva il Paradiso con altri quadri ai lati. Ma tra il 1474 ed il 1479 parve ai padri che rifar di bel nuovo si dovessero quei quadri valendosi dell’opera dei Vivarini, dei Bellini e d’altri chiari pittori di quell’epoca. Che se la fama di tali primi maestri rimaneva offuscata dai loro successori, dal Tiziano, dal Tintoretto, dal Veronese, voleva il Senato che questi nuovi pennelli fossero impiegati a ricoprire con le tele gli antichi affreschi. Tuttavolta tali opere celebrissime, rese ancora più preziose per i ritratti dei rinomati capitani e degli illustri nostri senatori antichi, non che per gli usi che in esse fedelmente si conservavano, furono consunte dall’incendio del 1577. Per cui, sotto la cura di Jacopo Marcello e di Jacopo Contarini, in una al monaco camaldolese Girolamo Bardi, provvide il Senato che la sala venisse ancora rivestita di quei fasti veneziani dai quali per lo innanzi era adornata.

Chi dunque al primo entrare voglia esaminar le pitture che ne ricoprono il lato sinistro (più prossimo alla porta) vedrà il doge Enrico Dandolo e la signoria giurare coi croce-signati nella chiesa di San Marco i patti solenni sulla spedizione di terra santa. Opera è questa di Giovanni di Cherc, di un nobile partito, ben rotta nelle linee, sebbene vi regni confusione nella distribuzione delle tinte. Nel quadro presso il finestrone, da Andrea Vicentino si tolse a rappresentare Zara per terra e per mare scalata dai Veneziani in uno ai croce-signati. Sopra il finestrone poi Domenico Tintoretto rappresentò il momento in cui le cittadine di Zara, alla testa del vescovo, danno le chiavi della città al doge Dandolo. Andrea Vicentino dipinse poi Alessio figliuolo d’Isacco imperatore di Costantinopoli che viene ad implorare l’aiuto dei croce-signati contro la barbarie dello zio, il quale, dopo aver usurpato il trono del padre di Alessio, aveva fatto scoccare il vecchio infelice e lo teneva imprigionato. Nel quadro seguente Jacopo Palma espresse i Veneziani che, con Alessio ed i croce-signati, obbligano alla resa la città di Costantinopoli. Né Domenico Tintoretto fu inferiore nell’esprimere ferocemente il finale conquiste di Costantinopoli fatto dai Veneziani coi Francesi allorché udirono Alessio, da essi ristabilito sul trono, essere stato strozzato per opera dell’ingannatore Murtzulfo che già si era fatto proclamare imperatore. Finalmente chiude questo lato sinistro il quadro, giudicato di Francesco Bassano, significante i baroni latini raccolti nella chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli per eleggere a nuovo imperatore Baldovino conte di Fiandre.

Passiamo alla gran facciata di mezzo, dove dopo la finestra si vedeva  l’incoronazione di Baldovino che piacque allo stesso Francesco Bassano di far succedere nella piazza di Costantinopoli non nella chiesa dove veramente è accaduta. Tra le due finestre Paolo Veronese compì un’opera che sebbene delle ultime sue fatture è però assai ricca e di tinta calda e saporita. E in essa espresso il trionfo fatto in Venezia dal doge Andrea Contarini in seguito alla vittoria riportata sopra i Genovesi. Qui terminano due storie progressivamente condotte. A voler esaminare regolarmente gli avvenimenti dell’aiuto prestato dai Veneziani a papa Alessandro III, fuggito dalle persecuzioni dell’imperatore Federico Barbarossa, gioverà recarsi al principio dell’altro destro lato per giungere ancora al sito ove ora siamo pervenuti.

Quindi, incominciando a considerare il destro lato, diremo che allegato bensì veniva a Paolo Veronese ma compivano gli eredi di lui il quadro offerente papa Alessandro riconosciuto dal doge Ziani e dalla Signoria nel convento della Carità di Venezia ove sotto mentita veste era quel pontefice stato raccolto.  Gli stessi eredi di Paolo compivano il quadro seguente, che esprime il papa ed il doge porgenti le credenziali agli ambasciatori onde si presentassero a Federico imperatore. E forse che Leandro Bassano si sarà giovato della idea spiegata da Tiburzio da Bologna nel quadro qui preesistente e significante il medesimo pontefice in atto di dar il come al doge Ziani. Jacopo Tintoretto raffigurò nell’altro quadro gli ambasciatori Veneziani quando, giunti a Pavia, si presentano all’imperatore acciocché desistesse delle ostilità contro papa Alessandro III già ricoveratosi in Venezia. Francesco Bassano rappresentò con bella immaginazione il papa che dà stocco al doge nell’atto di montar la galera per comandare la flotta. Ma l’immaginazione di ognuno si accende al riguardare il seguente gran quadro di Domenico Tintoretto col combattimento navale dato dai Veneziani a Federico Barbarossa, e nel quale si vede far prigioniero Ottone figliuolo dell’imperatore medesimo. La mischia delle galere, le disperate attitudini dei combattenti, l’aere addensato, tutto tutto è già espresso in quest’opera lodevole. Toccò a Paolo Fiammengo di rappresentare sopra la finestra la partenza da Venezia del doge benedetto da papa Alessandro. Sopra la porta, che mette alla sala dello Scrutinio, Andrea Vicentino dipinse la offerta che il doge Ziani fece al papa del prigioniere Ottone figlio di Federico Barbarossa. Nell’altro quadro Jacopo Palma eseguiva la permissione data dal papa ad Ottone di recarsi a trattare la pace col padre dopo la sconfitta datagli dai Veneziani. La mossa di quel giovane, tutta la generale disposizione, la leggiadria e la verità delle parti sono degne veramente di un gran maestro. Copiosa, bella e ben conservata opera di Federigo Zuccari è il quadro ove scorgi il detto imperatore umiliarsi dinanzi al papa. Sopra la porta che metteva alla Quarantia civil nova Girolamo Gambarato dipinse il detto papa Alessandro III, l’imperatore ed il doge incontrati dai cittadini di Ancona quando, dopo la pace fatta tra il pontefice e l’imperatore in Venezia, approdarono a quel paese nel ritorno a Roma. Il papa consegna allora al doge un ombrello perché non fosse da meno di lui e dell’imperatore. Dopo la seconda finestra Giulio dal Moro dipinse il papa nell’atto di far regali al doge Sebastiano Ziani nella chiesa di Roma in ricompensa della difesa a lui prestata dalla repubblica contro le persecuzioni dell’imperatore Federico Barbarossa. Cosi è terminata la storia di papa Alessandro III, così l’esame è compiuto dei tre lati della sala.

La gran tela di Jacopo Tintoretto, aiutato dal proprio figliuolo Domenico, alta 50 piedi veneti, larga 74 in circa e raffigurante il Paradiso, occupa la ultima facciata di mezzo nella quale sotto la Repubblica esisteva il trono ducale. Comunque sia da condannarsi la troppa simmetria onde le figure sono in questa vasta tela disposte e la confusione che regna in esse, osservate però che siano le cose a parte si vede nondimeno il frutto di un genio sempre grande e sommamente fecondo. Dovevano eseguire quella tela Francesco Bassano e Paolo Veronese; ma non convenendo essi nella maniera, non si posero mai all’opera, finché la furia di Tintoretto valse bentosto a far sola ciò che a due pittori era affidato.

Non in questo lato era collocato anticamente il trono ducale ma tra le due finestre che guardano nella corte di palazzo. Sopra il seggio del principe esistevano quattro versi di Dante, composti da lui quando venne oratore a Venezia per i signori di Ravenna ed allusivi alla pittura del paradiso. Nel riordinamento però della sala si pose quel trono nell’altro capo dove sta la tela del Paradiso da noi esaminata, fiancheggiandolo dall’una e dall’altra banda i seggi dei consiglieri e degli altri reggenti formati il corpo della Signoria.

Magnifico era altresì il vedere le otto file dei banchi lungo questa sala disposte onde accogliere il corpo dei patrizi ammessi al gran consiglio e nel quale l’autorità suprema della repubblica era riposta. Nei tempi della repubblica arrivava quel corpo al numero in circa di 1500 individui, ognuno dei quali entrando doveva avere l’età di 25 anni, sebbene venisse fatta grazia ai figli di qualche famiglia benemerita. Si convocava il gran consiglio alla mattina per lo più nei giorni festivi, od in altri ancora se le occasioni lo avessero ricercato. Da esso procedevano le elezioni dei magistrati, dei rettori della città e di tutti quei carichi non dispensati dal senato. In esso, come a suprema autorità, avevano sanzione le più importanti deliberazioni prese dal senato.

Dalla generale considerazione di questa sala deve l’occhio portarsi ad osservarne il soffitto cosi ricco d’oro, di lavori e d’intagli che forse il più magnifico non esiste. Per entro ai suoi compartimenti sono rappresentate diverse imprese della repubblica e diversi nobili esempi dati dai più illustri suoi cittadini. Nel mezzo però in tre gran quadri sono espresse tre differenti allegorie. Noi ad esaminarne più agevolmente le pitture, volgeremo le spalle al detto capo della sala ricoperto dalla gran tela del Paradiso; indi ci faremo ad osservare ad un medesimo tempo i due ordini laterali sinistro e destro riserbando per ultimo quello di mezzo. Dai sei ottagoni laterali, tre per parte, cominceranno le nostre osservazioni.

I due primi laterali ottagoni adunque, corrispondenti alle due porte d’ingresso, sono di Paolo Veronese. In quello alla sinistra di chi guarda è effigiata la difesa di Scutari fatta da Antonio Loredan (anno 1462) contro ottanta e più mila uomini comandati dallo stesso Maometto re dei Turchi, rimanendone in quella pugno uccisi oltre a 10.000 per cui con vergogna dovette Maometto levar l’assedio e ritirarsi. In quello alla destra vedasi la presa di Smirne fatta da Pietro Mocenigo (anno 1471) contro i Turchi. Veramente grandiosi sono gli assunti di queste due tele. Ma non sono punto inferiori in certa terribilità di concetti e nella condotta gli altri due successivi ottagoni di Francesco Bassano. Nell’uno alla sinistra espresse Camiano Moro che con un’armata 200 navigli se ne andò nei 1484 in Po, e venuto alla Polesella, diede gran rotta al duca di Ferrara, assali tre castelli di legno posti da quel duca a difesa dello stesso fiume, ne abbruciò due, salvò il terzo, e sopra i suoi navili il condusse trionfante a Venezia. Nell’altro poi alla destra espresse la vittoria presso Casal Maggiore riportata da Michele Attendolo generale della repubblica nel 1446 sopra Francesco Piccinino capitano di Filippo Maria Visconte duca di Milano guadando il Po con un fante in groppa di ciaschedun uomo d’arme e facendo 40.000 prigioni, oltre l’aver obbligato il medesimo Piccinino a fuggire in un battello. Gli altri due ottagoni sono opere di Jacopo Tintoretto. Offre quello alla sinistra la sconfitta data nel 1484 da Vittorio Soranzo al principe Sigismondo d’Este vicino ad Argenta, traducendo molti prigionieri a Venezia dove anzi furono attaccate in piazza in segno di trofeo 200 celate dei più nobili prigionieri. Offre quello alla destra la battaglia navale sul lago di Garda (anno 1440) data da Stefano Contarini contro Biagio Assareto generale del predetto Visconti duca di Milano.

Quattro piccoli quadri a chiaro-scuro, si dall’una che dall’altra parte, dividono i detti sei ottagoni dagli altri sei seguenti. Stanno appunto in quei piccoli quadri gli esempi dati dai Veneziani più illustri. Noi osserveremo dapprima i quattro alla sinistra per indi farci ad esaminare quelli della destra. Nel primo a sinistra dipinse adunque l’Aliense Bernardo Contarini che proferse alla signoria di uccidere di sua mano Lodovico duca di Milano che tanto travagliava la Repubblica (anno 1499): offerta che però non venne accettata. Nel secondo Pietro Longo espresse il doge Loredan ascoltare stupefatto le esibizioni fattegli dal legato di Baiazette re dei Turchi onde unire le sue forze a quelle della repubblica nel tempo della lega di Cambrai (anno 1509). Nel terzo che è una mezza luna rispondente sopra la finestra, da Andrea Vicentino furono rappresentati i quattro ambasciatori di Norimberga venuti a richiedere i Veneziani del codice delle leggi loro (anno 1508) onde servisse di guida a quei popoli. Il quarti non è più che un trofeo.

Passando agli altri quattro piccoli quadri della destra vedremo nel primo lo stratagemma usato da Carlo Zeno (anno 1582) quando, attaccatosi a battaglia nelle acque di Chioggia contra Brucicaldo capitano dei Genovesi, lo superava ricoprendo la galea del nemico colla vela della sua. Opera è questa di Antonio Aliense, ma Pietro Longo nel secondo quadro espresse l’altro stratagemma di Nicolò Pisani il quale, trovandosi nelle acque di Sardegna in gran pericolo contro i Genovesi, pose la notte sopra molti remi alcuni lumi, e fermatili sopra l’acqua, diede ad intendere al nemico di star ivi fermato mentre partiva dall’altra parte quietamente. Nel terzo cioè nella mezza luna, lo stesso Pietro Longo dipinse la fortezza da Sebastiano Veniero dimostrata quando, comeché vecchio e ferito, non volle mai desistere dal combattere contro i Turchi finché non ottenne la singolare vittoria, premio della quale furono 500 e più legni nemici. Il quarto contiene, ugualmente che quello della sinistra, un altro trofeo.

Facciamoci adesso a descrivere gli altri sei ottagoni, tra i quali sono intramessi gli anzidetti otto piccoli quadri. Tenendo lo stesso metodo di esaminare ad un’ora quel della sinistra coll’altro corrispondente alla destra, diremo che il primo alla sinistra, opera di Jacopo Tintoretto, offre la vittoria riportata da Jacopo Marcello (anno 1485) sopra gli Arragonesi uniti agli altri principi italiani, prendendo la città di Gallipoli. Nell’altro primo alla destra il medesimo Tintoretto rappresentò Francesco Barbaro che, aiutato dai cittadini e dalle stesse donne di Brescia, tra le quali si distinse Braida Avvogadra lor capitana, sostiene quella città (anno 1458) contro gli assalti dell’anzidetto duca di Milano. I due seguenti si fecero da Francesco Bassano, rappresentando in quello alla sinistra la vittoria di Giorgio Cornaro (anno 1508) riportata nel Cadore donde provenne che poterono i Veneziani non solo impadronirsi del Cadorino, ma di Gorizia, di Trieste, di Fiume, e trapassate le Alpi, compare alcuni luoghi dell’Ungheria. In quello poi alla destra significò Francesco Carmagnola (anno 1427) che presso Maclodio, terra del Bresciano, supera Carlo Malatesta generale di Filippo Maria Visconti duca di Milano, e lo fa prigioniero insieme con 8.000 cavalli ed 8.000 fanti. Jacopo Palma dipinse finalmente i due ultimi. Con l’uno alla sinistra effigiò Andrea Gritti (anno 1509) che nel giorno di Santa Marina recupera la città di Padova tenendo dietro ad alcuni carichi di fieno, cosicché nell’impadronirsi di una porta si recò in potere tutta la città. Nell’altro a destra espresse la vittoria riportata da Francesco Bembo presso Cremona contro Pacino Eustachio generale di Filippo Maria Visconti (anno 1427).

Fin qui abbiamo descritte le due ale di sì nobile soffitto. Ora ci conviene esaminare il gran compartimento del mezzo composto di tre celebri tele, quinci e quindi fiancheggiate da piccoli quadretti a chiaro-scuro simili agli altri già esposti. Comincia anzi da una mezza luna a chiaro-scuro tale compartimento che noi ci faremo ad esaminare dal punto a cui siamo pervenuti, cioè dal capo della sala opposto a quello della tela del Paradiso. In essa mezza luna adunque rappresentò Antonio Aliense il fatto delle donne veneziane offerenti nel 1580 i loro ornamenti alla signoria affinché sostenesse la guerra contro i Genovesi quando assalirono la repubblica nelle stesse sue lagune.

Dopo la detta mezza luna vengono altri due quadri a chiaro-scuro. Nel primo a destra di chi guarda Antonio Aliense raffigurò Agostino Barbarigo che alle Curzolari, comunque fosse mortalmente ferito da una freccia, segue colle mani e coi piedi ad incoraggiare i suoi e far progredire la battaglia. Nell’altro alla sinistra Pietro Longo mostrò la giustizia severa fatta dai Veneziani al generale Gordiano, che nella guerra contro il patriarca di Aquileia (anno 1281), convinto di tradimento, fu tirato nel campo nemico con un mangano. Segue una delle tre mentovate gran tele, opera di Jacopo Palma, la quale offre Venezia cedente coronata dalla Vittoria ed avente ai piedi molti prigioni incatenati ed alcune donne raffiguranti le provincie unite. 

Lo succedono altri due chiaro-scuri, il primo dei quali a destra esprime Marc’Antonio Bragadino che, difendendo valorosamente Famagosta (anno 1571) contro i Turchi, pur vinto dalla necessità patteggia coi nemici di aver libera coi suoi la vita. Ma contro la data fede fatto invece scorticare, sostiene il martirio con mirabile costanza. L’altro chiaro-scuro a sinistra mostra l’esempio di religione dato da Pietro Zeno, il quale trovandosi capitano contro i Turchi (anno 1542), volle assistere alla messa sino al termine, sebbene fosse avvertito del soprarrivare dei nemici. Laonde, assalito da essi, venne prima di tutti dinanzi all’altare trucidato.

La gran tela del mezzo è parte veramente sublime del pennello di Jacopo Tintoretto, e raffigura Venezia sulle nubi che vestita di bianco, tra Cibele e Teti, accarezza il Leone il quale con la bocca le porge una corona di alloro. Poco sotto di lei si vede un alto tribunale posto innanzi la chiesa di San Marco. Su quel tribunale sta il doge Nicolò da Ponte (sotto il quale si fabbricò appunto tutto il soffitto) che con le insegne bianche e coi magistrati del Collegio vestiti colle maniche aperte, pare che riceva ambasciatori di vari popoli, come Greci, Dalmati, Istriani, Italiani, ec. offerentisi spontanei alla repubblica e presentando chiavi, scritture, suggelli, ec. 

Altri due quadri a chiaro-scuro succedono tostosto. Nel primo a destra Girolamo Padoanino dipinse l’ardimento del generale Gatta-Malate nel condurre l’armata e le galee attraverso le montagne del Trentino per farle riuscire sul lago di Garda a cui non aveva potuto giungere direttamente a cagione degli ostacoli messi da Filippo Maria Visconti: ardimento che recò grande stupore agli stessi nemici, ed al generale Piccinino medesimo (anno 1459). Nel secondo di quei chiaro-scuri a sinistra Francesco Montemezzano espresse la intrepidezza del capitano Albano Armario che, preso dai Turchi (anno 1499), fu segato in due pezzi per non aver voluto rinegare alla nostra fede.

Tutti però debbono provare altissima meraviglia osservando l’ultima delle dette tre gran tele operata Paolo Veronese. Qui tutti i pregi a cui l’arte può giungere sono certamente raccolti: qui è prodotto l’effetto di cui il solo bello è capace, di non saziar cioè mai per quanto si riguardi. Venezia sedente sopra città, torri e castella è qui coronata dalla Gloria, celebrata dalla Fama, accompagnata dall’Onore, dalla Pace, dalla Liberalità, unitamente a Giunone ed a Cerere che ne esprimono la felicità e la grandezza. Nobilmente è immaginato il campo con architettura di colonne ritorte e con un poggiolo al basso ripieno di estatici spettatori. Finalmente nell’ ultimo piano si vedono guerrieri a cavallo, armi, insegne e prigionieri che compongono il gruppo annodato con molto ingegno al resto del quadro, e dipinto con un magistero che difficilmente potrà essere raggiunto.

Vengono altri due quadri a chiaro-scuro e la estrema mezza luna. Nel quadro a destra offresi Catterina Cornaro che dona il regno di Cipro ai Veneziani (anno 1484), ed in quello alla sinistra la fermezza di Stefano Contarini, quando venuto a giornata nel 1440 con Assareto, capitano di Filippo Maria Visconti e percosso combattendo nel capo cosi che la celata se gli incarnò da non poter essere cavata che a pezzi con le tenaglie, ne sofferse i dolori senza dar il menomo segno di risentimento. La mezzaluna perfino presenta il restauro dell’istmo di Corinto ordinato dai Veneziani nel 1463 per chiudere la strada ai Turchi.

Perché l’esame della gran sala, quanto a galleria, sia compiuto basta vedere il fregio ricorrente all’interno di tre lati, e diviso in 16 comparti, in ognuno dei quali stanno due ritratti dei dogi, meno però quello di Marino Falier occupato invece dalla epigrafe: Locus Marini Faledri decapitati pro criminibus. Esaminate cosi la sala nella sua condizione di galleria e mestieri che si dica alcuna cosa anche quanto all’attuale sua condizione di museo e di biblioteca. L’uno e l’altra furono qui trasportati nel 1812 dalla pubblica biblioteca appositamente eretta ed il cui fabbricato già in seguito verremo esaminando.  (1)

(1) ERMOLAO PAOLETTI. Il Fiore di Venezia, Volume II. Tommaso Fontana tipografo edit. Venezia 1839

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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3 Commenti

  1. Ciao, *ono una *tudentea del”Univer*ità di *ALERNO. *cuate, ma la lettera che manca (non vuole funzionare). Per favore, potrei *apere di quale materiale *ono realizzati i fregi del *offitto, entro i quali *i trovano i dipinti? *o*o for*e in *tucco colorati in giallo oro?. Il libro di Cricco-di Teodoro non lo dice.
    Cordialmente, Auilia Giordano.
    NOTA: Mi *i è bloccata la LETTERA INIZIALE per *crivere *A**ARI, *ALERNO, *ORRENTO, **ORRI*O, e manca la *al mio nome: AU*ILIA.

  2. Buona sera. Grazie infinite per i veloci tempi di risposta al mio quesito. Sono sempre AUSILIA GIORDANO. Ho cambiato computer e come si vede, la “S” adesso viene scritta. Io sto studiando dal libro di Cricco-Teodoro, per l’esame di Storia dell’Arte – vol 3 – versione gialla.
    Riferendo “… posti in oro…” si intenderebbe che sia un “impasto fatto di ORO”. Io non mi accontento mai delle informazioni dei libri e conduco sempre ulteriori ricerche in tutti i miei studi. Forse si tratta di ORO impastato con il GESSO, o con POLVERE DI PIETRA DI PORFIDO GRIGIO, oppure altra materia duttile. Resto tuttavia incuriosita.
    Grazie infinite. Le mie cordialità.

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