Agnello Partecipazio. Doge X. Anni 810-827

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Agnello Patecipazio. Doge X. Anni 810-827.

Se fede si presti a quei cronacisti che affermano avere ducato Beato ancora un anno dopo Obelerio, e massime al Sanudo, che distingue il costui reggimento da quello sostenuto unitamente al detto fratello suo, si dovrebbe assegnare l’avvenimento al trono di Agnello Partecipazio all’814, piuttosto che all’810: ma, da quanto si espose, ben chiaro apparisce che unitamente furono entrambi cacciati dalla patria nell’anno 810, sicché a questo tempo si deve porre l’elezione a doge di Agnello.

Per cotesto trabalzo di età si volle anche accaduto il trasportamento della sede ducale da Malamocco a Rialto sotto la ducea di Beato, per cui sembra, siccome antecedentemente dicemmo, espressa la sua piuttosto che la immagine di Obelerio, nel fregio della Sala del Consiglio Maggiore.

E’ cosa singolare, non scorgere fatta menzione nei cronacisti più antichi dei titoli che si acquistò Agnello Partecipazio alla riconoscenza dei suoi concittadini durante la lotta sostenuta contro Pipino, gloriosa del par che terribile. Il Sagornìno  ed il Dandolo non fanno il menomo cenno della sua costante opposizione ai consigli di Obelerio e dei suoi partigiani, che non cessavano uniti di muovere il popolo a favore dei Franchi; né del generoso consiglio, che indusse i Veneziani a tra  mutare la sede della Repubblica a Rialto. Nemmeno Martin Da Canale, il quale colse ogni occasione per presentare la storia nostra alla fantasia piuttosto che al cuore dei suoi leggitori, nota questi meriti del Partecipazio. Abbiamo soltanto da qualche storico, discosto dai fatti d’oltre tre secoli, lui essere stato eletto siccome benemerito della Repubblica, perché erasi ottimamente diportato nella guerra contro Pipino. Questi suoi diportamenti erano tanto noti, aggiungono i moderni scrittori, e di tanto peso appo la nazione, che, venuto il giorno di eleggere il doge, gli sguardi di tutti si volsero ad Agnello Partecipazio; ne di esservi stato alcuno che gli contrastasse quella dignità, e quindi con generale consenso venne acclamato doge. A ridonare però l’interna pace, e a frenare alquanto la troppo ampia autorità del doge, statuiva l’assemblea che sedessero a lato di lui due tribuni, i quali, unitamente ad esso, amministrassero la civile criminale giustizia; e questi durassero in carica un anno. Primi tribuni furono eletti Vitale Michiel e Pantaleone Giustinian; coi quali, e  coi successori loro anche, Agnello, per la sua morigeratezza e saviezza, sempre si accordò.

E’ per verità Partecipazio continuò a mostrarsi sul trono qual era stato da prima, tenero della gloria e della prosperità della sua patria. Le storie riboccano delle sue lodi e delle sue utili e benefiche azioni. Fu egli veramente uomo valoroso, amatore della religione, principe ornato di tutte virtù; e, quantunque assunto al seggio ducale in epoca di tanti disastri, pur seppe non solamente questi riparare, ma anche aumentare il lustro della sua nazione. E poiché si era statuito dall’ assemblea dì fissare stabilmente la sede del principato nell’isola di Rialto, siccome luogo più sicuro dagli assalti nemici: onde in più tarda stagione prese nome di Venezia la città, comprendendo in sé le altre isolette sorelle, vale a dire, Olivolo, Luprio, Gemine, Dorsoduro, Spinalunga, ecc., una delle supreme cure del nuovo doge fu appunto l’abbellimento della capitale e la restaurazione dei luoghi che, durante la guerra con Pipino, erano stati o gravemente danneggiati, od affatto distrutti. Nominava egli imperlante il tribuno Pietro Tradonico a sopraintendente agli edifici, che si andavano erigendo, Lorenzo Alimpato a dirigere i prosciugamenti e gli interramenti, Nicolò Ardisono a provvedere all’ottimo stato dei lidi, e agli occorrenti ripari contro la copia delle acque portate dai fiumi, sboccanti allora nelle lagune, e contro la furia del mare.

Al suo gusto per la magnificenza, alla sua pietà e carità per la patria si devono il palazzo ducale, del quale fu egli il primo fondatore; le chiese di San Zaccaria, di San Severo e di San Lorenzo, giusta il Sanudo; rifabbricare fece la famosa badia di San Michele o della Trinità di Brondolo; protesse e incoraggiò le genti di Chioggia, di Brondolo, di Pelestrina, di Albiola e di altri luoghi, che a quelle facevano ritorno; ed altre opere ordinò, di cui trovasi memoria nelle vecchie cronache. La sua maggior sollecitudine fu però quella di rimetter in fiore Eraclea, sua patria, resasi ormai diserta. La fece egli risorgere dai fondamenti, ma più ristretta in circuito di prima, mutandole l’antico nome in quello di Città-nuova. La cronaca Cornaro, citata dal Filiasi, narra, da ultimo, che procurò Agnello ancora la costruzione di moltissimi ponti di legno, affine di unire le minori alle maggiori isolette, che il gruppo formavano delle Realtine.

La politica di Agnello fu, del pari che nell’ interno, sapiente e provvida all’esterno. Conservò egli gelosamente la pace con Carlo Magno, il quale, rinnovando i trattati coll’imperatore d’Oriente Michele, e col suo successore Leone, rinunziava ad ogni pretensione di dominio sulle isole veneziane, e riconfermava loro il libero possedimento delle terre, che tenevano nel regno italico, e gli antichi privilegi. Per ciò tornarono allora gli abitanti alle isole, da loro abbandonate a cagione della guerra di Pipino; Grado fu pure restituita alla Repubblica, e il patriarca Fortunato poté infine conseguire il ritorno alla sua sede; che egli restaurò dai danni patiti, e splendidamente abbellì.

Per tutte queste virtù era addivenuto Agnello l’amore della nazione, e sì, che, giusta qualche cronacista, ottenne di eleggersi da sé, e senza l’intervento del popolo, li due annuali tribuni. Accadde anzi, che per tale affetto del popolo, e per la deferenza verso di lui dei tribuni stessi, non seppero, sì l’uno che gli altri, opporsi al desiderio da lui dimostrato, di avere a compagno sul trono ducale il figlio Giovanni. Dal che ne nacque amara discordia nella famiglia del doge. Imperocché, allor quando si associò al potere il detto suo figlio, l’altro maggiore, di nome Giustiniano, era tuttavia a Costantinopoli, ove l’imperatore, Leone V l’Armeno, lo aveva accolto con grande onore, e decorato lo aveva del titolo d’Ipato; sicché al suo ripatrio, meravigliando di trovare il fratello assunto al grado, che aveva egli stesso agognato, salito in ira si tolse dalla casa paterna, e unitamente a Felicia o Felicita, sua donna, si ritirò, non già nella chiesa di San Severo, che in una casa contigua alla stessa, come dissero alcuni antichi e recenti scrittori, ma nel piccolo monastero di San Severo, che, secondo riferisce  il Sansovino, era allora badia e chiamavasi di San Gallo. Laonde Agnello, che grandemente amava questo figliuolo, e che, per fievolezza d’animo, inclinato erasi ad anteporgli il fratello cadetto, non poté resistere al dolore di vedere allontanato da se il figlio Giustiniano, e, con nuovo eccesso di debolezza, depose Giovanni, e dichiarò doge e collega suo Giustiniano. Né ciò bastandogli pose a confine in Zara Giovanni, il quale, da colà fuggito, si trasferì, per la Schiavonia, con lunghissimo giro, a Bergamo, nel regno italico; da dove giungere fece preghiera all’imperatore Lodovico il Pio, affinché lo proteggesse e lo facesse ristabilire nel suo grado. Sennonché, avutane notizia Agnello, inviò subitamente legati in Francia all’imperatore medesimo, chiedendo la consegna del profugo: del che soddisfatto, a togliere ogni seme di discordia, lo confinò, con la sua donna, a Costantinopoli.

Né solamente Agnello si associava al principato Giustiniano, ma, per rendersi più accetto al medesimo, si toglieva ancora a collega Agnello juniore, figlio di lui, e quindi suo nipote.

Sennonché queste famigliari discordie del doge favorivano le mene secrete del patriarca Fortunato, e le sue pratiche, non mai intermesse, con Francia, ove talvolta si recava, con grave disgusto dei nostri. Accadde pertanto, che essendosi, di questi tempi, scoperta una congiura, tramata dai partigiani dei cacciati Obelerii, si credé, non a torto, che ne avesse avuta pur mano Fortunato. Laonde Giovanni Talonico, o Tornarico, e Buono Bradanesso, o Bragadeno, vennero impesi, ed il terzo capo, Giovanni Monetario fuggì, appo Lotario re d’ Italia; nel mentre che Fortunato veniva dai dogi deposto, ed in suo luogo eletto Giovanni, abate di San Servolo, riparandosi egli, Fortunato, per sua sicurezza in Francia, ove, dopo di avere errato per vari luoghi, finì l’agitata ed ingloriosa sua vita.

Rinunziando però, dopo breve tempo, il detto abate Giovanni al patriarcato, nominarono i dogi a suo successore Venerio, che dicono alcuni figliuolo di Basilio Trasmondo, tribuno di Rialto; e alla vacante cattedra di Olivolo innalzarono Orso, figlio di Giovanni Partecipazio, il quale murar fece la sua chiesa cattedrale di San Pietro in Olivolo, dando esempio ad altri d’innalzare altre chiese; fra le quali si erigeva quella di San Zaccaria, parte coll’oro dell’ imperatore Leone, e parte con quello del doge Giustiniano.

Il quale, allorché passava alla seconda vita, nell’827, il di lui genitore, rimaneva solo a regger lo Stato. Imperocché, caduto sotto il ferro dei congiurati fin dall’820, l’imperatore Leone, ed innalzato, per il favore di essi, Michele II il Balbo, veniva spedito a lui, siccome ambasciatore di ossequio, Agnello juniore, di lui figliuolo e compagno nella ducea, né più tornava a rivedere la patria, morendo colà, secondo il Sagornino.

Agnello seniore poi, otteneva sepoltura nell’abbadia dei Santi Ilario e Benedetto, posta sul margine della laguna, fra la distrutta Abondia, e Lizza-Fusina, da lui e dal figliuolo Giustiniano fondata.

11 suo ritratto, che è il secondo nel fregio della Sala del Maggior Consiglio, reca nel cartellino, tenuto nella manca, la inscrizione seguente, nella quale però rilevatisi due errori, commessi da J. Tintoretto che lo dipinse:

TECTA PALATINA COMMVNIS PRIMVLA FVNDO,
AEDIFICO SANCTVM ZACHARIAQ ILARIVMQVE. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto.  Venezia 1861

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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