La farmacia all’insegna del Leon d’Oro in Fondamenta de la Cerva, a Rialto, nel Sestiere di San Marco

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Pescheria San Bartolomeo e il Ramo de la Cerva (va in Corte de la Cerva). Sestiere di San Marco

La farmacia all’insegna del Leon d’Oro in Fondamenta de la Cerva, a Rialto, nel Sestiere di San Marco

Sulla Fondamenta del Ferro (o Pescheria San Bartolomeo) a San Bartolomeo, in quel tratto più vicina al Ponte di Rialto chiamato anche “Riva de la Cerva“, dalla vicina osteria della Cerva, esisteva nel secolo decimosesto la farmacia all’insegna del “Leon d’oro“, allora una delle più conosciute farmacia della Dominante.

I farmacisti apparivano personaggi di importanza, ravvolti nella loro ampia veste, simile a quella dei fanti dell’Avogaria, sempre pronti a dar consigli e responsi dal loro banco tra il monotono e cadenzato suono del pestone, col quale i facchini, per lo più furlani o bergamaschi, frangevano droghe nei mortai di bronzo. Alcune farmacie, come quella del Leon d’oro, erano arredate con elegantissima mobilia e con bellissimi vasi di ceramica, avevano le loro insegne scolpite in legno, dorate e dipinte, e verso il tramonto si raccoglievano patrizi e cittadini dediti agli studi, preti, accademici, giureconsulti conversando lietamente o leggendo qualche composizione in versi o in prosa.

Marin Sanudo, il celebre diarista, ogni pomeriggio trascorreva una buona mezz’ora nella farmacia del Leon d’Oro e qui ascoltava e più spesso narrava con quel brio e quei particolari che gli erano speciali notizie, aneddoti, avventure.

Il primo febbraio 1510 trovò la bottega chiusa, e informatosi della causa scriveva il giorno dopo nei suoi Diari: “Eri (ieri) a nona seguite uno caso molto pietoso di uno homo tanto da ben quanto dir si poteva“, e la notizia allarmante riguardava il buon messer Matteo Redalfi, farmacista presso il Ponte di Rialto, “in la riva di la Cerva“.

Lo speziale in quel momento stava occupato alla confezione di alcune medicine, quando entrò nella bottega una maschera chiedendo certi medicamenti che le occorrevano per una “doia de stomacho“, e mentre il farmacista si voltava per prendere da una scansia un piccolo vaso di miele puro, la maschera gli si avventava alle spalle e con un suo pugnale, di quelli allora chiamati “fusetti“, molto appuntiti e a doppio taglio, gli dette tre colpi al collo gridando: “Ti me ha imputà che habia robà et ozi me vendico mazandote“.

Il povero garzone che assisteva tremando alla fulminea scena non ebbe neppure il coraggio di gridare e si accasciò piangendo, il misero messer Matteo si ripiegò dietro il banco mortalmente ferito, l’assassino intanto fuggiva, e dopo qualche istante la moglie scendendo in farmacia e visto l’orribile scempio si metteva a gridare chiamando al soccorso. Ma il farmacista era già morto, e quando giunse missier grande, Agustin Novello, con alcuni fanti del Consiglio dei Dieci, nel togliergli il pugnale che stava ancora infilato nel collo dell’assassinato e nel rimuovere il misero corpo trovò una carta su cui stava scritto: “Marco Brunoro son, dieto Caileto e le ie rason le trato col fuseto“.

La carta dunque spiegava il delitto ed era un delitto che aveva dei precedenti sanguinosi: Marco Brunoro era un giovane dottore laureatosi nello studio di Padova, nei primi anni della carriera coscienzioso e studioso, ma poi dai patrizi e dai cittadini soprannominato “miedigo caileto“, cataletto (barra, feretro), perché i suoi ammalati erano curati così bene che morivano tutti; egli si era dato al vino, alle donne, al gioco anziché allo studio, e fenomeno strano, il giovane, appena trentacinquenne, era divenuto scettico, prepotente, proclive al delitto. Nei primi anni della sua professione Marco preferiva frequentare la farmacia del Redaldi, quando sorgeva contro di lui l’accusa di aver rubato alcuni ducati dal banco del farmacista, anzi, accusatore principale era il fratello Matteo, messer Bernardo segretario ducale, il quale affermava di aver visto il dottore aprire il cassetto del banco.

Fu verità? fu illusione? nessuno lo seppe mai, Marco Brunoro da quel giorno divenne un altro, non fu denunciato, ma spariva il dottore e compariva “calleto” che dopo alcuni giorni giurò di vendicarsi.

Marin Sanudo parlando dell’uccisione di messer Matteo informa che in “tal zorno, za un anno fa fo mazado su la testa sfesa in do parte ser Bernardo, segretario dogal, quelo che haveva dieto di haver visto quelo che furse non haveva visto in veritàMarco Brunoro, l’assassino, allora fuggiva e veniva dal Consiglio dei Dieci condannato al bando perpetuo con la grossa taglia di mille ducati.

Dopo un anno il Brunoro abbe l’ardire rompere il bando, e approfittando del carnevale venne a Venezia in maschera per completare la sua vendetta con la morte del farmacista Matteoet cussì“, aggiunse il Sanudo, “la stella de li dei Redaldi fo brutta assai“, il Consiglio dei Dieci raddoppio la taglia che pesava sui croce bandito, ma nonostante fosse salita alla bella somma di duemila ducati, Marco Brunoro rimase sempre uccello di bosco.

Il 9 luglio 1510, cioè cinque mesi dopo il secondo omicidio, in piena lotta della Lega di cambrai contro la Serenissima, giungevano alla Signoria lettere dal provveditore del campo di Padova, sier Piero Balbi, dove narrava un aspro combattimento avvenuto sotto le mura di Verona contro i Tedeschi, riuscito con la vittoria delle truppe veneziane e finiva dicendo: “tra li morti nostri fo scoverto da una cernida che il conosceva quello Marco Brunoro qual ha mazato li fradeli Redaldi“.

Il medico “caileto” era morto combattendo per la bandiera di San Marco. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 15 aprile 1934.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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