La giustizia a Venezia; la galera e gli sforzadi

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Gaspar Van Wittel (Gasparo Vanvitelli). Veduta del Bacino San Marco. Museo Nacional del Prado - Madrid

La giustizia a Venezia; la galera e gli sforzadi

Il giorno 11 maggio 1545 si decretava a Venezia la possibilità di condannare alla galera, l’esigenza nasceva dalla scarsità dei galeotti di libertà, dalla necessità di decongestionare le carceri e di alleggerire l’erario dal costo dei rematori liberi. Fino ad allora si utilizzavano i galeotti di libertà e occasionalmente gli schiavi; i galeotti di libertà venivano arruolati dalla Repubblica con obbligo triennale tra gli uomini di robusta costituzione di età compresa fra i 18 e 40 anni, e costituivano il nerbo principale dell’Armata. La Dalmazia, l’Albania, l’Istria e i possedimenti in Levante fornivano tutto il contingente necessario in tempi normali, ma anche il Dogado e la terraferma avevano l’obbligo di fornirne un numero determinato in caso di bisogno; nel 1721 si decise che le galee venissero armate esclusivamente con i condannati.

Nel 1545 venne quindi stabilito che i Consigli, i Magistrati e Rettori potessero condannare i rei alla galera invece che “all’amputazione dei membri od altro” e il Senato stabilì che la pena della galera non fosse minore di 18 mesi né maggiore di 12 anni, generalmente si seguì la norma che la pena di morte venisse commutata in 10 anni di galera.

Sulle galere, dove erano imbarcati i condannati, uno scrivano doveva tener registrate le condanne di ciascuno, nome, cognome, tempo, il nome dello Stato a cui apparteneva, il giorno d’imbarco, ecc. Gli sforzati che si trovavano allo stesso banco di uno che fuggiva venivano condannati a servire in vita al banco e veniva loro amputato il naso. Il vestiario dei condannati era costituito da 2 camicie a un paio di braghesse di tela, una camiciola di fustagno con mezze maniche, un guardacuore di rassa rossa, un gabbano di griso (grigio), una schiavina, un paio di scarpe, un paio di calzetti di panno, un cappelletto rosso e una gambetta di mussolina per la gamba dei ferri. Ogni banco sul quale vogavano tre condannati era dotato di tre catene di 8 libre l’una, 2 barili di acqua, un materasso con la “vacchetta” (striscia di cuoio) per coprire il banco, 3 vernicali (gamelle) e un “manarin” (accetta).

Dalla sorveglianza dei condannati era incaricato l’agozzino (dall’arabo alwazir, ufficiale preposto alla sorveglianza, alla custodia e alle punizioni corporali dei rematori) con gli agozzinotti, ad ogni cambio di guardia l’agozzino unitamente ai Capi di guardia ed a 4 scapoli (avevano la custodia dei galeotti e dei condannati) doveva passare una accurata ispezione, verificando anche le catene dei condannati non fossero rotte. Le pene per i sorveglianti dei condannati erano severissime, e venivano messi al banco in luogo di quelli che fuggivano.

In tempo di guerra, quando la flotta aveva bisogno di uomini, si mettevano al remo in catena prigionieri nemici od anche schiavi che venivano presi e imbarcati a forza durante gli assalti, fatti ad isole e città nemiche, o che si catturavano in seguito a combattimento su unità avversarie. I prigionieri mussulmani incatenati al remo, nel caso desiderassero il battesimo, potevano essere tolti dalle galere e messi al remo nelle fuste, come concesso nel 1690, perché potessero essere istruiti nella religione cristiana.

Ai condannati venivano imputate varie spese che faceva per loro lo Stato, come le tende, le medicine e il cuoio per i banchi. Finito il periodo di condanna essi perciò venivano ancora trattenuti al remo con 8 lire al mese di paga finché raggiungevano la somma occorrente a scontare il loro debito.

Bisogna infine tenere presente che nelle galere della Repubblica non prendevano imbarco i soli condannati del suo territorio, ma che ne venivano inviati anche degli altri Stati che non avevano marina, come il Ducato di Mantova, quello di Modena e gli Stati tedeschi. Lo stesso avveniva però anche in tutte le altre marine a cominciare da quella Pontificia che adottò l’impiego dei condannati anni prima della marina veneziana, come accenna nella sua opera “Della Milizia MarittimaCristoforo Canale che fu in Senato il più strenuo sostenitore del nuovo sistema. (1)

Alla riva della Piazzetta stava ancorata una vecchia fusta o galera, che rinchiudeva molti dei condannati alla galera, per gravi delitti commessi, ed erano condannati per anni o in vita alla catena ed al remo. Servivano talvolta per vogar nelle galere da guerra ed in altri legni ed anche per operazioni perigliose e faticosissime. Ma in quella galera erano tenuti con una terribile severità, e ad ogni minima mancanza soggetti a soffrire per mano degli aguzzini.

Questi galeotti non ricevevano altro giornaliero cibo che biscotto ed acqua; e che quando affaticavano si dava loro in aggiunta pochi fagioli conditi con qualche goccia d’olio, e ad essi era interdetto, con sommo rigore, qualunque altro alimento. Ma nel giorno di San Marco, si dava ai galeotti minestra di riso cotto nel brodo di bue, un po’ di carne e un bicchiere di vino. (2)

(1) Mario Nani Mocenigo. Storia della Marina veneziana. (Roma Ministero della Marina, 1935)

(2) Pasquale Negri. Soggiorno in Venezia di Edmondo Lundy. (Venezia G.Ghimadu 1853)

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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