La giustizia a Venezia; Il bando e il confino

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Magistrati veneziani, Sala dei Censori, Palazzo Ducale

La giustizia a Venezia; Il bando e il confino

Il bando era un allontanamento, a vita o a tempo, dallo stato Veneto o dalle città della Repubblica; nel caso di bando dalla città di Venezia si traduceva nel divieto, per il condannato, di abitare a meno di 15 miglia dalla città, al confine del Dogado. Si bandivano con la formula: Banditi da terre e luoghi del dominio, navigli armati e disarmati, e rompendo il bando condanna a morte e taglia a chi li catturasse.

Tra le tante pene inflitte a coloro che parteciparono alla congiura di Baiamonte Tiepolo, è singolare il bando inflitto a sier Angelo Trevisan mercante, che gli fu dapprima ordinato di non uscire di casa, ma poi per intercessione gli fu concesso di girare per la città, senza però mettere piede né in palazzo di San Marco né a Rialto, e con l’assoluta proibizione di girare per le Mercerie e per le vie principali, che conducevano tanto a San Marco quanto a Rialto. Per il povero Trevisan era non solo un supplizio morale, ma anche un grave danno materiale perché gli affari di mercatura non si facevano che a Rialto, e a Rialto per lui era il frutto proibito. (1)

Un’altra forma di bando era comminata ai rei in contumacia, contro costoro veniva fissata anche una taglia a favore di chi favoriva la loro cattura, vivi o morti, e nella sentenza di condanna si fissavano già le pene da infliggere loro dopo la cattura. La taglia veniva di norma ricavata dalla vendita dei beni del reo.

Il bando perpetuo, inflitto in contumacia, toccò a Giorgio Corner, il quale la sera del 7 gennaio 1627, con preparatione de arme et di gente sicarie uccise Renier Zeno, nientemeno che sul cortile di Palazzo Ducale, mentre lo Zeno scendeva dalla famosa Scala dei Giganti. Il Corner, fatto il colpo, scattò coi suoi per la riva che metteva sul canale del palazzo, dove stavano pronte ed in attesa alcune barche che diressero rapidamente le prore verso Fusina. (2)

Il reo, condannato al bando in contumacia, era passibile di uccisione da parte di un quivis de populo, un qualsiasi cittadino del popolo poteva essere fatto esecutore della sentenza, contro chi lo uccideva non vi erano pene inflitte dalla legge. Ma con qualche distinguo.

Nicolò di Puti da Treviso in un impeto di rabbia aveva ucciso la nuora, moglie di suo figlio Lorenzo, donna bellissima chiamata per i suoi capelli ed occhi neri “la mora di San Tomaso“. La Signoria decretava contro sier Nicolò, che nel frattempo si era dato alla fuga, il “bando in vita con taia vivo di lire mille et morto di lire seicento“. Il figlio Lorenzo non potendo darsi pace per l’uccisione della moglie, si era dato di battere tutta la campagna trevigiana alla ricerca del padre per consegnarlo alla giustizia. Il padre Nicolò senza denari a senza risorse cercò di raggiungere la sua casa a Treviso, ma incontrato Lorenzo, che credeva assente fu invece quella l’ultima ora della sua vita. Assalito con rabbia felina dal figlio il vecchio cadde con varie ferite e morì poco dopo; Lorenzo forte del bando contro il padre rimase a Treviso. Ma il podestà Marco Zantani al brutale parricidio, d’accordo con la Signoria, non applicò l’impunità del bando “et fatto“, dice il sanudo “retenir Lorenzo di Puti li fo intimato di prender il confin et mai comparir in terra di san Marco, et cussi fo in vita“. (3)

Il confino o relegazione era l’isolamento forzato in un luogo specifico, che generalmente si trovava all’interno del dominio veneziano, spesso si trattava di territori di Levante.

Michiel Trevisan avogador di Comun aveva fatto un po’ de “manzerie” (concussioni): da alcuni bresciani ebbe duecento ducati e una catena d’oro per la buona riuscita di un processo; dal vescovo dell’Isola di Veglia ottenne cento ducati e un grosso anello d’oro; da un atro prete settanta ducati; ” et da uno ducati novanta per fargli aver certo beneficio contro Marco Malipiero”. Sua moglie, figliola di Stefano Contarini, con due “fioli puti” andò a casa dai Capi della Quarantia e chiedere clemenza, Alvise Badoer fece una “buona renga” per mitigar la pena, ma il Tribunale condannò il Trevisan a perpetuo esilio nell’isola di Cherso nel Quarnero con l’obbligo di restituire subito i denari e i regali avuti. Michel Trevisan morì a Cherso dopo tre anni di confine ed i suoi parenti non portarono il lutto. (4)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 5 febbraio 1924.

(2) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 8 novembre 1923.

(3) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 4 aprile 1926.

(4) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 16 marzo 1926.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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