I pozzi di Venezia

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Pozzo di Campo Santi Giovanni e Paolo. Sestiere di Castello

I pozzi di Venezia

L’antica casa dei patrizi veneziani, per lo più a due piani, si componeva a terra quasi sempre dell’atrio, dove si aprivano i capaci magazzini contenenti le varie mercanzie venute dall’Oriente; dopo l’atrio veniva il cortile quadrato e nel mezzo sorgeva la cisterna o pozzo, composto della canna in laterizio e di un serbatoio sotterraneo di legno (puteale), foggiato a piramide tronca col vertice in basso, riempito di sabbia, intonacato di argilla, a traverso il quale filtrava l’acqua piovana, condotta dalle grondaie.

La più antica menzione di pozzo col “puteale” e con la “vera“, spalletta della cisterna, risale al 1308 in un documento per la divisione di alcuni beni tra Orso Badoer fu Pietro e Tron Giovanni suo consanguineo. Le “vere” erano spesso formate di ruderi antichi, di frammenti d’are pagane, di rocchi di colonne, scolpite sovente con figure chimeriche, croci, ornati, meandri.

Dal 1322 al 1324 il Governo decretava la costruzione di cinquanta pozzi in altrettanti luoghi diversi, e tale incombenza si dava ai capi sestieri volendosi spendere circa lire seimila, un po’ più di cento lire per pozzo, costando pochissimo il materiale da impiegarsi, e ancora meno la mano d’opera occorrente. Così sorsero i primi pozzi pubblici affidati, da una ordinanza degli Avogadori, agli ufficiali dei Signori di notte, che dovevano vigilare alla loro nettezza, poiché non era raro il caso di trovare nei pozzi “turpitudines, scovadulia” e altre immondizie.

Nei periodi di siccità l’acqua potabile si portava coi burchi dai fiumi, ma più specialmente dal Brenta che sfociava allora rigoglioso verso Porto Secco, o dal ramo dello stesso detto “Seriola” che correva in vicinanza della laguna tra le terre di Oriago, Gambarare e Fusina.

Qualche volta questi periodi erano disastrosi e la cronaca Erizzo accenna all’anno 1425, in cui non essendo caduta né pioggia né neve dall’undici novembre fino al 27 di febbraio, la Signoria prese la decisione di costruire altri trenta pozzi nei vari campi e campielli veneziani tutti a sue spese, avendo già i cinquanta pozzi costruiti un secolo prima dimostrato che in casi eccezionali erano insufficienti ai bisogni della popolazione, sebbene a lenire il disagio cittadino concorressero anche le cisterne private delle corti patrizie.

Da una cronaca anonima, conservata nella nostra Marciana, sappiamo che nel 1405 “si terminò il Pozzo che è in Palazzo“, probabilmente era una cisterna che sorgeva nell’angolo destro verso la porta del “Frumento“, poiché i due pozzi che oggi si vedono nel grandioso cortile vennero costruiti tra il 1554 e il 1559 con le due magnifiche “vere” in bronzo, opere squisite di Alfonso Alberghetti, quella più vicina al porticato, l’altra di Niccolò dei Conti, entrambi celebri maestri fusori di Artiglieria, ai quali di dice, occorsero per le fusioni delle “vere” più di cinquemila libre di rame puro per formare la lega di bronzo.

Nel 1494 anche la Piazza marciana, chiamata “Piazza” e non “Campo” perché anche nel nome si volle renderla unica fra tutte, “fo principiato a fare dei pozzi“, ma non furono condotti a termine perché la Signoria la volle sgombra di qualsiasi “ostacolo over impedimento o altro” come si vede nel famoso quadro di Gentile Bellini dipinto due anni più tardi: “La processione della Croce in Piazza San Marco“.

Marin Sanudo nella sua “Cronachetta” esclamava riferendosi all’acqua potabile: “Venezia è in acqua et non ha acqua“, ma il saggio con la costruzione dei pozzi, sempre più numerosi, fatta da abili operai chiamati “pozzeri“, purificata l’acqua piovana con ingegnosi modi di filtrazione, dava cagione al medico Rangone di scrivere verso la metà del Cinquecento: “L’acqua che dopo l’aere può assai per la salute, piovuta dal cielo, purgata prima nelle cisterne è soave, senza sapore e colore, limpida e leggera“.

E quasi manifestazione di culto a questo necessario elemento della natura, negato a Venezia, le sponde, “vere“, dei pozzi vennero scolpite da celebri artefici con tutte le leganze dell’arte, come ne fanno fede i pochi esempi rimasti ancora a Venezia scampati al saccheggio sistematico degli antiquari.

Bellissima è la “vera” del pozzo di San Zanipolo (Santi Giovanni e Paolo), lavoro cinquecentesco, con putti reggenti festoni di frutta, la quale, come nota il Cicogna, fu tolta nel 1824 dal Palazzo Corner a San Maurizio, così quella di Palazzo Balbi a San Tomà, quella veneto bizantina del Palazzo Vendramin, quella gotica in Corte Petriana alla Madonetta e qualche altra nei palazzi o sui campi.

Perfino nelle “vere” dei pozzi splendeva l’arte a Venezia in quei secoli in cui poteva dirsi: “Regina dei mari“, e ben a ragione suona quella “Villotta Veneziana“:

Vustu che mi te insegna a navegar?
Vate a far una barca o una batela;
Co ti l’ha fata, butila in mar:
La te condurà a Venezia bela!” (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 2 giugno 1932.

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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