Nicolò Contarini. Doge XCVII. – Anni 1630-1631

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Sala dello Scrutinio. Domenico Robusti detto Domenico Tintoretto. Ritratto di Nicolò Contarini

Nicolò Contarini. Doge XCVII. – Anni 1630-1631. (a)

Prolungarono alquanto gli elettori nel dare alla Repubblica un nuovo capo, e finalmente, il 19 gennaio 1630, scelsero a doge Nicolò Contarini, che contava quasi settantasette anni di età, degno per ogni riguardo di tanto onore.

La guerra di Mantova prendeva più torbido aspetto, ed oltre per questa la Repubblica veniva travagliata dalla peste fierissima che irruppe nelle province e nella stessa capitale. Ma innanzi tratto, parlando della guerra, diremo, che quantunque si sperasse che per i caldi maneggi di Francia, dovesse comporsi a pace, pure gli imperiali davano orecchio a quelle pratiche a solo motivo di guadagnar tempo le loro truppe continuavano a discendere in maggior copia, sotto gli ordini di Rambaldo Collalto, ed occupavano alcuni luoghi non solo del Mantovano, ma anche dei Veneziani, e, ad onta degli sforzi di questi, si avanzavano fin sotto Mantova. Ciò non di meno pareva che presto si dovessero mutare le cose, sia per le malattie e per il difetto dei viveri, che bersagliavano gli imperiali, e sia per i grandi apparecchi che si facevano in Francia onde venire in aiuto del duca assalito. Anche la Repubblica non ristava dall’operare, ordinando al provveditore generale Zaccaria Sagredo di tenersi pronto a volgersi ove più chiedesse il bisogno, quando il Richelieu fosse calato con le genti francesi. Egli infatti, il 13 marzo 1630, si metteva in viaggio alla volta di Casale, con l’esercito comandato, sotto i suoi ordini, dai marescialli De la Force, de Schomberg e De Créqui, e l’avanguardia toccava già il Monferrato; quando il cardinale ad un tratto si arrestò intimava, per l’ultima volta, a Carlo Emmanuele di Savoia di dichiararsi definitivamente per Francia; ma quel duca non sapeva decidersi. Quindi le truppe francesi tentarono di sorprenderlo sotto Rivoli, ma, avvertito egli a tempo, poté, con i suoi, riffuggiarsi in Torino. Il cardinale allora, anziché dirigersi a quella volta, si mosse verso Pinerolo ed il prese; ma nel tempo stesso il generale Spinola stringeva più che mai Casale, ed il Collalto riprendeva con vigore l’assedio di Mantova. La Repubblica si lagnava che Francia, con tanto esercito in Italia, lasciasse a lei sola il carico della difesa di questa piazza, mentre il gran duca di Toscana, i duchi di Modena e di Parma soccorrevano patentemente gli Spagnoli.

Fu lungamente discusso il partito da prendersi, e finalmente fu deliberato molestare gli Alemanni con frequenti scaramucce e sortite, onde cacciarli dai posti occupati. E già si erano ripresi Ponte Molino e il posto della Volta, ma il duca, mal consigliato da traditori, si mostrava indeciso nelle opere di guerra, sicché più che aiutare, impediva. Era il campo veneto a Valeggio, sotto il comando del provveditore Sagredo, e con lui si trovavano i generali La Valette e Candale, D. Luigi d’Este e Cornelio De Vimes. Fermarono il pensiero di occupare Villabuona, Marengo e S. Brizio, per quindi espugnare Goito, donde avrebbero potuto poi soccorrere Mantova. Entrarono effettivamente in Villabuona, ma, assaliti dal generale alemanno Galasso, non poterono sostenervisi, e dopo valorosa difesa, costretti a volgersi in fuga, rimanendo Io stesso La Valette ferito e cattivo. I fuggiaschi portarono lo spavento a Valeggio, e nel consiglio tenuto sul da farsi prevalse l’opinione di coloro, fra cui del Sagredo, doversi salvare l’esercito, ché disordinato non avrebbe potuto resistere. Il Sagredo quindi ordinò la ritirata verso Peschiera, il Vimes fece saltare in aria la rocca di Valeggio da lui tenuta, e gli Alemanni intanto incalzando la turba fuggente, ne fecero orrida strage.

Dolorosissima tornò la notizia di tanta sciagura a Venezia, ma non per questo il Senato si avvilì, ché anzi, prendendo più animo dalla sconfitta, pensò tosto a rifare l’esercito, e ad inquisire sui fatti che cagionarono quella rotta. Perciò, richiamati i provveditori dall’armata, e sostenuti, fu condannato il solo Sagredo alla privazione del grado di procuratore di San Marco e a dieci anni di carcere.

La sconfitta di Valeggio accrebbe l’ardire ai Tedeschi, i quali, dal borgo di San Giorgio, impadronitisi della porta del Castello, entrarono il 19 luglio 1630, in Mantova, e sì d’improvviso, che il duca ebbe tempo appena di chiudersi, con la moglie e col figlioletto, nella fortezza di Porto. Colà le truppe non potendo sostenersi, capitolarono, con facoltà di ridursi nelle terre del papa, ove infatti si ritirarono, ed ove ebbero onorevole accoglienza a Melara dal cardinale legato Sacchetti, e sussidio di danaro dalla Repubblica. Mantova intanto era posta a ruba dalle efferate genti tedesche, che vi commisero ogni eccesso, e tutto il presidio veneziano cadde in loro mani prigione. Questi fatti di Mantova sbigottirono tutti gli animi, e lo stesso Carlo Emmanuele, tardi avvedendosi del suo male operato, colpito moriva dopo tre giorni.

La Repubblica sola non rimase per ciò inoperosa, che attese con ogni alacrità a munirsi per terra e per mare, avvalorata dalla mirabile sua costanza e dalla fedeltà dei suoi sudditi, tra i quali diedero luminoso esempio i Veronesi.

In mezzo a queste cose però sorgevano apparenze di pace. Perciò dalla dieta raccolta in Ratisbona per discutere intorno agli interessi più vitali della Germania, ne usciva un trattato, il 13 ottobre 1630, per lo quale l’imperatore avrebbe concesso al duca di Nevers l’investitura di Mantova; otterrebbe il duca di Savoia, Trino e altre terre nel Monferrato da costituire la rendita di 18000 scudi annui, il resto, con Casale, tornerebbe al duca di Mantova; si ritirerebbero i Tedeschi dall’Italia, solo ritenendo Mantova con le fortezze e la terra di Canneto fino all’adempimento dei patti; si ritirerebbero parimente i Francesi; e fatta dai Tedeschi la restituzione, restituirebbero anch’essi Pinerolo, Bricherasco, Susa e Avigliana: si obbligava inoltre l’imperatore a sgomberare dalle terre dei Grigioni occupate dalle sue armi. E perché la Repubblica era inchiusa nel trattato stesso in modo non determinato, e per nulla onorevole né rassicurante, il Senato si lagnava, e voleva riformato l’articolo che riguardava i propri interessi. E più irritata si mostrava la corte di Francia, la quale affermava, avere oltrepassate le istruzioni ricevute, Leone di Brulart, suo inviato a Ratisbona.

Non posavano però in questo mezzo le armi, ché Francesi e Spagnoli si combattevano sotto Casale. Sennonché nell’atto che i primi, usciti dalla cittadella, stavano per assalire i secondi; Giulio Mazzarino, agente del papa, si faceva largo fra le schiere, con in mano una scritta, e gridando la pace, la pace, arrestava il combattimento. Conteneva quella carta un nuovo progetto, il quale recava, che gli Spagnoli liberassero tosto Casale e il Monferrato, a condizione che i Francesi del pari sgomberassero da Casale stessa, onde il duca di Mantova, a ciò obbligato, confidasse soltanto la guardia delle sue piazze ai sudditi propri. I Francesi quindi conservare dovessero le loro posizioni negli Stati di Savoia, finché gli Spagnoli interamente avessero evaso dal Mantovano, dal Monferrato, dalla Valtellina e dal territorio dei Grigioni. Tali condizioni furono accettate, e valsero, per il momento, a far posare le armi. Ciò che accadde dappoi spetta all’epoca del doge seguente.

Ai mali che affliggevano di questi tempi la Repubblica si aggiunsero gli orrori della peste, la quale, entrata da prima nelle province, poi nella capitale, poco a poco diffusasi in guisa che, ad onta delle sollecitudini del Senato, la misera Venezia si convertì presto in cimitero. Laonde i Lazzaretti riempiti di appestati più non potevano ricevere i concorrenti, e fin anche mancava l’opera pia di coloro che li potessero assistere e trasportare ai luoghi assegnati.

I provvedimenti del Senato furono molti, e senza numero le spese, ma sì gli uni come le altre tornarono per lo più inefficaci. La pietà dei Veneziani, la quale aveva trovato in altro eguale frangente salute e misericordia dal cielo, anche adesso volle al ciclo ricorrere, invocando la Madre Vergine, colei che fu riguardata dai Veneti siccome la loro principale avvocata e patrona. Perciò il 25 ottobre 1630, la Repubblica decretò la erezione di ricco tempio votivo in onore della gran Madre, sotto il titolo della Salute. E perché la solennità del voto, che volevasi offrire a Dio in onore della Donna immortale, si amava sancita dall’adesione del popolo, acciocché tutti, per sé e per i nipoti, sino alla più tarda posterità, si obbligassero pubblicamente; nella basilica di San Marco, il dì appresso, radunato ogni ordine di cittadini, doge Nicolò Contarini, montato sulla tribuna al lato esterno del presbiterio, deposto ai piedi del Crocifisso il corno ducale, e profondamente curvato, pronunziò il voto solenne della nazione; al quale facevano eco le voci supplichevoli e le copiose lacrime del popolo. E sebbene il morbo infierisse in modo meraviglioso ed orrendo, tuttavia il Senato dava mano alle opportune disposizioni per incominciare il votivo edifizio.

Sì tolse uno spazio di terreno presso la punta della dogana di mare, colà dove stava la chiesiuola e l’ospizio della Trinità dei cavalieri teutonici. La mattina del 25 marzo 1631 era stabilita per collocare la prima pietra; ma ciò non poté mandarsi ad effetto, attesa la grave indisposizione del doge, che doveva in principalità compiere quest’atto. Ebbe luogo, in quella vece, il primo giorno dell’aprile susseguente. Ne compì quindi la cerimonia il patriarca Giovanni Tiepolo e poi il consigliere decano, o vice doge, Giulio Giustiniani, collocò la pietra benedetta a base del fondamento, e con essa vi gettò undici medaglie coniate espressamente per quella circostanza: dieci d’argento ed una d’oro. Rappresentavano, nel loro dritto, la Vergine in gloria con il divino Paracleto, al basso la prospettiva della piazzetta di S. Marco, per indicare la città, con la leggenda: VNDE ORIGO INDE SALVS, e nel rovescio vedevasi il doge in supplichevole atteggiamento, accennando il modello del nuovo tempio, colla iscrizione: NICOLAO CONTARENO PRINCIPE SENATVS EX VOTO MDCXXXI. Oltre a ciò si decretava d’inviare alla santa Casa di Loreto una lampada d’oro del valore di ducati seimila, e di sollecitare appresso il pontefice la canonizzazione del beato Lorenzo Giustiniani, primo patriarca di Venezia, ottenutasi poi da Alessandro VIII nel 1690.

La violenza del morbo, che sino al mese di giugno aveva sempre più accresciuto il numero delle vittime, andava notevolmente scemando già da due mesi. Ma incominciato che fu il lavoro del tempio diede ancor più chiari segni del suo decrescere, a grado che, nel 28 del susseguente novembre, fu pubblicato, con solenne dichiarazione, essere la città affatto libera dal contagio. Il quale, secondo i registri del magistrato di Sanità, aveva spento nella sola città 46.489 cittadini, oltre ai quali aggiunger si devono altri 35.686, periti nelle isole di Murano, Malamocco, Chioggia e vicine, senza contare quei delle provincie veneziane di terraferma, il cui numero si fa salire intorno, a 600.000.

Il doge Nicolò Contarini non ebbe il conforto di vedere la città liberata dal morbo, ché moriva il primo aprile 1631, cioè il dì stesso in cui si collocava, come dicemmo, la prima pietra del tempio votivo; e fu sepolto senza iscrizione, nella tomba dei suoi maggiori nella chiesa di Santa Maria Nuova.

Al suo tempo, cioè il 16 novembre 1630, un incendio distrusse la maggior parte del cenobio di Santa Maria della Carità, opera stupenda laterizia di Andrea Palladio, di cui non si salvò che parte del prospetto sul cortile, ora unito alla R. Accademia di Belle Arti. Così pure lo stesso anno il fuoco ruvinò la chiesa di santo Agostino, la quale veniva tostamente rifabbricata.

Il ritratto del Contarmi, opera di Domenico Tintoretto, siccome dice il Ridolfi, reca nel campo la seguente leggenda, diversa anche questa da quella riportata del Palazzi, che dice: Natus ad sublevandam patriam peste, fame, bello afflictam ad defendendam Mantuam armis oppressam: quam si minus obsidione liberare non potui, strenue iuvi, et captam, direptamque recreavi, et iugo servitutis exemi.

NICOLAU CONTARENVS REMPVBLICAM BELLO, PEXTE, FAME VEXATAM INVICTA VIRTVTE SVSTINENS AU COELVM EVOLAVIT. (1)

(a) Nacque Nicolò Comtarini il 24 settembre 1553, da Gian Gabriele q. Nicolò, e da Giovanna Morosini di Andrea. Apparata la filosofia in patria, da Luigi da Pesaro, compiva i suoi studi a Padova, sotto la disciplina, tra gli altri, di Carlo Sigonio, di Francesco Piccolomini e di altri famosi professori. In patria e fuori sostenne vari uffizi, uno dei primi fu l’essere stato spedito a Padova in qualità di camerlengo o questore, dove, resosi chiaro per la sua dottrina, fu eletto principe dell’Accademia degli Animosi, istituita nel 1573. Rimpatriato fu savio agli ordini nel 1579; nel 1594 avvogador di Comune; nel 1593 uno del collegio dei dodici savi delegati dal Senato. Passò quindi, nel 1597 e 1598, luogo tenente in Udine. Compiuto il reggimento si trovava fra li senatori nel 159 perorando intorno alle opere proposte da eseguirsi sul fiume Po. Ritornò poi a Udine negli anni 1604, 1602, come provveditore generale della provincia del Friuli per sospetto di peste. Fu savio del consiglio più volte, e consigliere. Nel 1605 venne spedito a Roveredo per stabilire i confini; e nel 1614 fu riformatore dello studio di Padova. Nel 1615, si trovò fra i deputati scelti a rivedere le fortificazioni dello Stato, e particolarmente quelle di Peschiera. Nel principio del 1617, eletto provveditore in campo, sostenne nel Friuli la guerra contro gli austriaci; e l’anno dopo fu deputato commissario al congresso di pace seguito in Veglia cogli stessi. Nel 1619, ebbe lo incarico di correttore delle leggi, e quello di provveditore generale in terraferma, per rivedere nuovamente le piazze dello Stato, e proporre i mezzi più validi di difesa. Padova lo ebbe di nuovo riformatore di quello studio negli anni 1623 e 1628. In quest’ultimo anno, parlò eloquentemente in Senato intorno alla regolazione del Consiglio dei X, essendone uno dei cinque correttori. In fine il 19 gennaio 1630, veniva, come superiormente dicemmo, esaltato al trono ducale. Fu il Contarini uomo di profonda pietà, di coraggio, di dottrina e consiglio. Lo sua dottrina spicca nelle opere da lui lasciate, tra cui le Historie veneziane, dal 1597 al 1604, che rimasero inedite; intorno alle altre, e intorno ad alcune minute particolarità della sua vita, come dei letterati che parlarono di lui, si consulti il Cicogna, da cui cavammo le riferite notizie (Inscr. Venez. Vol. III, pag. 287 e seg.)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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