Giovanni Bembo. Doge XCII. — Anni 1615-1618.

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Sala dello Scrutinio. Domenico Robusti detto Domenico Tintoretto. Ritratto di Giovanni Bembo

Giovanni Bembo. Doge XCII. — Anni 1615-1618. (a)

I correttori della Promissione ducale in sede vacante, oltre che confermare le leggi statuite intorno alle strettezze imposte al doge, tra le altre nuove cose, proposero, che il principe tener non debba baldacchino; che i suoi figliuoli non usino maniche alla ducale, non abbiano alcuna preminenza, non entrino in senato se non compiuti trent’anni d’età, non possano conseguire benefici ecclesiastici, e neppure i fratelli e i nipoti del doge; finalmente, che il principe abbia a tener servitori e scudieri nati nello Stato, ed abbia a provvedere che il povero non fosse oppresso dal potenti.

Per la gara poi suscitatasi fra le case patrizie vecchie e nuove, e per i diversi concorrenti al principato, tra i quali si notavano Jacopo Reniero, Filippo Pasqualigo, Agostino Nani e Giovanni Bembo, fu per lungo tempo incerto e agitato lo scrutinio tenuto dagli elettori, e sì che fu necessario che i consiglieri, per ben tre volte, ammonissero gli elettori stessi e li minacciassero di più stretta clausura e di privazioni, e da ultimo di proporre la nomina del nuovo doge al Maggior Consiglio, quando non venissero tra breve a deliberazione. Finalmente fu eletto, il 2 dicembre 1615, Giovanni Bembo, di antica famiglia, di singolare bontà e amantissimo della patria. Ma assumeva il principato in tempi difficili, perciò, siccome abbiamo veduto, tutto preannunziava una prossima guerra con Ferdinando, arciduca d’ Austria, a motivo dello sciagurato affare degli Uscocchi.

E già si rompeva questa; già gli arciducali penetravano qui e qua nel Friuli, ed i Veneziani correvano, dal canto loro, nelle terre nemiche, e mettevano assedio a Trieste, ma con poco frutto. Nell’Istria però le armi della Repubblica procedevano meglio, rette come erano dal generale córso Pompeo Giustiniani, il quale occupava vari luoghi, tra cui Zemino e Fara, e poneva assedio a Gradisca. Ma anche questa città si difendeva robustamente; e per una sortita improvvisa degli assediati furono costretti i nostri a fuggire. Tornavano nonostante ciò poco poi alla impresa, quando l’imperatore, il papa ed altri principi, interponendosi per la pace, e profittando della occasione, che i movimenti sospetti degli Spagnoli ai confini del Milanese facevano ritirar parte delle genti veneziane dal Friuli, ottennero che fosse levato l’assedio di Gradisca, per dar luogo alle trattative. Nondimeno gli effetti non risposero all’aspettazione, ché nuova guerra pareva prossima ad accendersi anche tra il duca di Savoia e gli Spagnoli, i quali usavano di troppa arroganza verso quel duca. E più ancora le cose si inasprirono quando, richiamato dal governo di Milano l’Inojosa, fu a lui sostituito D. Pietro di Toledo, uomo che avrebbe voluto ad ogni costo veder dominare Spagna per tutta Italia. Perciò fino dal suo arrivo, trattava ostilmente l’ambasciatore del duca, né volle acconsentire al disarmo convenuto nel trattato d’Asti, dimostrandosi in quella vece amico e protettore, come era parente, del duca di Mantova, per cui questo prendeva baldanza, dando nuovi motivi di disgusto e di gelosia a Carlo Emmanuele; il quale si rivolgeva ai Veneziani per aiuto, mancatogli l’appoggio di Francia. La Repubblica non lasciò intentato alcun mezzo per riavvivare la pace; e poiché vide questa farsi ogni dì più difficile, acconsentì ad assistere il duca, sovvenendolo di grossa somma, e per lui stipendiando le genti di Lesdiguiéres, famoso capitano francese.  A ciò la induceva le macchinazioni di Spagna, a cui era grave ostacolo la veneziana potenza, per incarnare i concetti disegni, quelli cioè di dominare tutta l’ Italia.

Ad impedire i quali disegni, la Repubblica, oltre l’assistenza data al duca di Savoia, fermava lega con i Grigioni, avendo già pochi anni prima stretta alleanza con l’Inghilterra, con Svezia, con Danimarca e con gli Stati d’Olanda.

Le trattative di accomodamento incoate intanto tra Spagna e Savoja, cui mal vedeva però la Repubblica, non riuscivano a bene, quantunque con molto calore si adoperasse il Bethune, inviato di Francia a Torino; sicché gli Spagnoli, passata la Sesia, penetravano nel Piemonte ed ottenevano fortuna. Non per questo Carlo Emmanuele si avviliva, ché a tutto uomo si adoperò per scongiurare la procella, assistito com’era dalla Repubblica, la quale nel corso di un solo anno dati gli aveva un milione di ducati. E sì che contemporaneamente sosteneva, essa Repubblica, la guerra contro gli arciducali nel Friuli. La quale, non venendo a decisiva conclusione, per le varie vicende ora prospere ed ora avverse sì dall’una che dall’altra parte; più fortunate però pei Veneziani, che impadroniti si erano della Pontebba, valico alla Germania; indotti gli Austriaci a ritirarsi fin sotto Gorizia; passato l’ Isonzo e inflitto assai danni alle terre nemiche; conquistato il castello di Serissa, nido di Uscocchi: ma ad onta di ciò tutto, la morte a cui soggiacque il loro generale Pompeo Giustiniani, colpito da una palla di moschetto mentre scorrazzava verso Lucinis; l’assedio replicatamente posto invano a Gorizia; le correrie degli arciducali, usciti da Gradisca, e vari altri piccoli scontri non bene riusciti; tutte queste cose stancarono ambedue le parti per modo da inchinare scambievolmente agli accordi. E v’inclinava anche Carlo Emmanuele, che scudo sul vantaggio, consentiva a pace onorevole. La desideravano del pari anche Francia e Germania, agitate dalle interne turbolenze, e da un pezzo si maneggiavano a Parigi, ove fu anche conchiusa il 26 settembre 1617, e segnata a Madrid, da cui ebbe poi il nome. Per la qual pace si poneva fine alle discordie fra Spagna e Savoja; si stabilivano, fra la Repubblica e Ferdinando, validi mezzi per cacciare gli Uscocchi pirati, onde fossero sicuri i mari e libero il commercio: pace per altro che riuscì amara d’assai al Toledo governator di Milano, al Bedmar ambasciatore spagnolo a Venezia ed all’Ossuna governatore di Napoli, i quali uniti tramarono poi una cospirazione, di cui ebbe, da più parti, avviso la Repubblica, ed a cui teneva dietro con vigile occhio; tanto più facilmente in quanto l’arroganza, la sfrenatezza e la imprudenza dell’Ossuna erano troppo manifeste, sì in matte parole, che in fatti senza consiglio.

Mentre tale congiura si tesseva dall’Ossuna e dal Toledo nell’esterno, e dal Bedmar nell’interno della città, venne a morte doge Giovanni Bembo, il 18 marzo 1618, e fu sepolto non già nel tempio dei SS. Giovanni e Paolo, come dicono gli scrittori, ma, come provò il Cicogna, nella chiesa di Sant’Andrea nell’arca dei suoi maggiori, avendogli intessuta l’orazione funebre Giovanni Moravio, che va alle stampe.

Sotto la sua ducea vennero instituiti due nuovi magistrati: il primo, senza data certa, ma nel corso del 1615, é quello del Conservatore del deposito in zecca, il quale curava che fossero conservati i pubblici depositi, né venissero disposti che a tenore delle leggi e dei decreti. Il secondo, quello cioè dei Revisori e regolatori dei dazi, composto di tre nobili, fu creato nel 1617, allo scopo di redigere regolamenti opportuni a riparo dei disordini occorsi nei dazi, a freno dei perpetui contrabbandi, e a correzione dei ministri finanziari fedifraghi.

II ritratto di questo doge é opera di Domenico Tintoretto, ed é il primo che risulti senza cartellino in mano. Sul campo é tracciata l’inscrizione seguente, diversa da quella riportata dal Palazzi, che dice : Sero perveni ad regimen, togatus onustus honestatum insignibus, paludatus postea terra, marique bellavi, pacis communis causa, lauros, et palmas merui, abegi cupressos. Pax floruit.

IOANNES BEMBO SANGVINEM HOSTEQ . FVDI MABIS IMPERIVM OBII LVBES PRO PATRIA OBITVRVS. (1)

(a) Scrive il conte Jacopo Zabarella, nel suo Trasca Peto, che in famiglia Bembo ebbe origine dalla gente romana Cornelia Scipia, dalla quale, dice, usciti li Cornelli Sabatini di Bologna, facendone stipite Marco Cornelio Sabatino, vissuto nel 500; da cui venne un altro Marco Cornelio, padre di tre figli, appellati Giovanni, Cornelio ed Ermes, dal primo dei quali derivarono i Sabatini ed i Zabarella di Bologna, di Napoli e di Padova, e li Mocenigo di Venezia. Ma Cornelio, il secondo, fuggendo dalle invasioni dei barbari, afferma lo scrittore medesimo, trasmigrato con la famiglia sua, nel 700, nelle venete lagune, e per la sua molta bontà, essendo qui soprannominato Ben Bon, questo appellativo, convcrtito in Bembo, rimase a cognome dei suoi discendenti.  Ma tale racconto, che prende faccia di novella, é contraddetto in parte da altri scrittori, i quali, sebbene convengano nel derivare i Bembo da Bologna, tra cui Guasparre Bombaci, nella lettera che egli scrisse al doge Giovanni Da Pesaro, il Malfatti ed il Frescot tacciono di quella origine favolosa, ed anzi, l’ultimo, assegna la migrazione in queste contrade dei Bembo alla metà del V secolo, dicendola fuggita da Bologna, minata alloro da Attila. Questa opinione del Frescot si avvalora dal vedere la famiglia Bembo annoverata dai cronacisti fra le ventiquattro case, nelle quali fu primamente stabilito il corpo della nobiltà patrizia, ed una delle dodici, che, nel 697, votarono alla elezione del primo doge; sicché più anticamente sostennero i Bembo il tribunato nelle isole. Molti uomini illustri produsse poi questa casa in ogni facoltà, e vanta anche due celesti comprensori, vale a dire, il beato Leone e la beata Illuminata; quello vescovo di Modone nella Morea, morto a Venezia nella prima metà del secolo XII, e questa, monaca francescana, defunta in Bologna nel 1483. Innalzano per arma i Bembo uno scudo, che in campo azzurro reca uno scaglione d’ oro, accompagnato da tre rose dello stesso metallo.

Nacque Giovanni Bembo nel 1543, da Agostino q. Benedetto, e da Chiara Dal Basso q. Donado Bergamasco drappier.  Fin dagli anni più teneri ai applicò all’arte guerresca, sicché, imbarcato prima col titolo di nobile in armata, poi di sopraccomito, e quindi di governatore di galea, in cotal carico intervenne alla famoso battaglia delle Curzolari, comandando la galea intitolata la Donna, e combatté sì valorosamente, che, quantunque ferito di freccia e di palla d’artiglieria, assoggettò, incalzando la mischia, tre galee turche, per modo che nella segnalata vittoria, al dire del suo elogista Andrea Morosini, parve, a comune giudizio, che non ne avesse egli la minor parte. Sortito da quella orribile pugna e da altre posteriori, per segno di grato animo, offerse in voto al santuario di Loreto il modello in argento di una galea. L’anno appresso intervenne alla presa di Sopotò e di Malgariti, ed eletto poi capitano in Golfo, poi provveditore d’ armata, profligò e disperse i corsari, fortificò i litorali, migliorò ed accrebbe con ottime instituzioni la disciplina marittima. Eletto nel 1597 generale in mare contro gli Uscocchi, il Bembo si recò in Dalmazia, stringendo quei pirati di assedio, e ne spense buon numero, per modo, che domati, furon costretti nascondersi nelle spelonche loro natie. Ritornato in patria, fu spedito provveditore generale di Corfù, e quindi il 44 agosto 1601 elevuto alla dignità di procurator di S. Marco de ultra, in luogo del defunto Alvise Giustiniani. L’anno stesso, come capitano generale dell’Istria, della Dalmazia ed Albania, sconfisse di nuovo gli Uscocchi. Insorte poscia le differenze col pontefice Paolo V, fu nuovamente, il Bembo, eletto capitano generale in mare, ricevette dalle mani stesse del doge Leonardo Donato il gonfalone, scortato con molta pompa da tutto il senato alla propria galea, e salpando con scelta squadra si congiunse alla veneta armata, la quale ben equipaggiata di numero, e di nerbo di ciurme e di soldati, egli con il governo sostenne, accrescendo in singoiar modo la pubblica dignità ed il decoro (Morosini, Elogio, pog. 479).  Seguita la pace poco poi, ripatriò; ma nello stesso anno fu riassunto alla stessa carica, per opporsi alle macchinazioni degli Spagnoli. Ritornato da quella spedizione, e passato a vita migliore il doge Memmo, fu sublimato il Bembo alla suprema dignità della patria, quantunque, come narra il Morosini citato, egli ne fosse alieno. Moriva poi, come dicemmo, nell’età di anni 75, senza prole. Era il Bembo di bello aspetto, robusto nel corpo e nello spirito, che in molta matura età facea rispondere così vivaci e generosi tratti, che non vi era cosa, che pur anche non ardisse egli, non intraprendesse, non eseguisse in vantaggio della Repubblica. Il suo amore per la patria fu segnalatissimo, narrando il Morosini, che mentre era malato, anzi presso all’estremo passaggio, desiderava perire di altro genere di morte, quello cioè sui campi di Marte a pro della patria stessa, chiamando ingrata la camera, pesanti le coltrici, che invidiavano ad esso felicità di tal genere, onde più volentieri le dorate pareti nelle galee di flutti asperse, il tranquillo letto nell’instabile vascello avrebbe cangiato, ed in vece di rimanere oppresso da un interno contrasto di naturali umori, stato lo sarebbe da un esterno azzuffamento col nemico (Elogio citato, pag. 481). Oltre il ritratto accennato, vedesi il Bembo espresso in ginocchio, al quale un angelo mostru Cristo trasfigurato fra un coro d’angeli, con altre simboliche figure, tra cui la Terra e Nettuno, che ognuno di loro tiene due bastoni nelle mani, allusivi ai generalati di terra e di mare dal Bembo sostenuti. Tale dipinto, opera di Domenico Tintoretto, che stava nell’atrio della sala del Consiglio maggiore, é adesso conservato nei depositi del Palazzo ducale, in attesa di nuova collocazione.

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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