Michele Steno. Doge LXIII. Anni 1400-1413

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Michele Steno. Doge LXIII. Anni 1400-1413

Eseguite nuove correzioni alla Promissione ducale, tra cui: non debba il doge ricevere feudo nè provvigione alcuna; non possa maritare con forestieri le sue figlie o figliuoli se non con la volontà dei consiglieri, dei tre capi di Quarantia, e di quaranta delle Quarantie e delle quattro parti del gran Consiglio; non abbia a rispondere ad alcuno affermativamente o negativamente, se innanzi tratto non domanda ai consiglieri ciò che far debba: fu dopo ciò eletto, il dì primo decembre 1400, Michele Steno.

Si Trovava egli allora malato, per cui non poté prendere possesso della sua dignità se non il dì 9 gennaio susseguente, ed il suo avvenimento al trono fu festeggiato con straordinaria pompa di giostre e tornei, che durarono un anno, a cura principalmente delle corporazioni delle arti. Fu allora, secondo il Sansovino, che ebbe principio la compagnia della Calza, così appellata dal portare per assisa i giovani che ne erano iscritti, sui loro stretti calzoni, dalla metà della coscia ai piedi un’impresa, partita in più colori; siccome può vedersi nei dipinti tuttavia superstiti di Gentile Bellini e del Carpaccio, ora esistenti nella Pinacoteca della Accademia Veneta di Belle Arti.

La pace però che godeva la Repubblica venne turbata nuovamente dai Genovesi, i quali, assoggettatisi, fino dall’anno 1396, alla protezione di Francia, avevano per governatore, nel 1403, il francese Bucicardo, o Bucicaldo, come altri lo chiamano; il quale, nella primavera dell’anno medesimo, salpò con la flotta dal porto di Genova, recandosi contro Cipro, con l’intendimento anche di osteggiare i Veneziani. Incontratosi egli con la flotta capitanata da Carlo Zeno, spedito dalla Repubblica per tener d’occhio i Genovesi stessi e per proteggere il commercio, accade fiera battaglia, dalla quale uscì vincitore lo Zeno: del quale splendido fatto se ne volle perpetuata, più tardi, la memoria, nel soppalco della sala del Maggior Consiglio, per mano di Antonio Vassilachi: intorno a cui é da vedersi la illustrazione della Tavola CXLV1II. A tale vittoria seguì tosto la pace, conchiusa il dì 22 marzo 1404, per la quale, restituiti i prigioni, fra gli altri compensi, otteneva Venezia da Genova 180.000 ducati.

Tale battaglia fu poca cosa a petto della guerra cui andava incontro la Repubblica, a cagione di Francesco II Novello da Carrara, signore di Padova. Il quale volendo, dopo la morte di Giovanni Galeazzo, signor di Milano, conseguire, fra gli altri luoghi, Vicenza, ed essendo stata data questa città, dalla duchessa di Milano, alla Repubblica, egli, il Carrarese, non badando alle proteste del Senato pei danni che le di lui milizie recavano in quel territorio, anzi impadronitosi di Cologna, che erasi data alla Repubblica, questa fu astretta a rompergli guerra. Il tenor della quale, ed i vari fatti seguiti, fino alla presa di Padova, accaduta il dì 29 novembre 1405, potranno leggersi nella illustrazione della Tavola CLXXXII, in cui é inciso il dipinto figurante la presa di quella città, colorito per mano di Francesco da Ponte detto il Bassano, nel soffitto della sala dello Scrutinio.

Presa Padova, Francesco da Carrara, che ne era prima fuggito, per consiglio di Galeazzo da Mantova, e riposando sulla di lui fede, si unì al proprio figliuolo Francesco III, che erasi riparato ad Oriago, venne in deliberazione di recarsi a Venezia per trattare egli stesso dei suoi interessi. Sconsigliatamente però portavasi senza avere ottenuto salvocondotto, assieme con il detto suo figliuolo. Non appena saputo il di lui divisamento dal Senato, gli si mandava incontro cinque barche armate. Padre e figlio vennero posti nell’isola di San Giorgio Maggiore sotto vigilanza; e intanto si fece inquisizione dei principi catturati; i quali pochi dì dopo si presentarono chiamati alla signoria nella sala delle due Nappe, ed ivi gittandosi ai piedi del doge Michele Steno, disse il vecchio Francesco: Ho peccato, signori, abbiate misericordia di me. Tosto il doge li rilevò rispondendo: Voi avrete quella misericordia che meritate. Poi sedettero ai lati di lui, che ricordate loro le benemerenze della Repubblica ed i benefizi dei quali era stata loro prodiga, li rimproverò della loro condotta; al che non avendo i due prigionieri risposto, se non col chiedere venia, furono rimandati a San Giorgio, da cui pochi giorni dopo si trasportarono nella prigione di palazzo appellata Orba, dalla quale poi tolto il vecchio Francesco, ed unito all’altro suo figlio Jacopo, nella prigione detta la Forte, caduto pur esso in mano della Repubblica, stettero fino il dì 17 gennaio 1405. Nel quale, dopo molti consigli tenuti dalla signoria sul da farsi di essi, finalmente furono tutti tre posti a morte col mezzo della strozzatura entro della carcere stessa; non senza che il loro fine funesto sia stato dappoi narrato diversamente dagli scrittori che vennero appresso. Noi non biasimeremo, né giustificheremo il truce fatto: solo invitiamo l’acuto lettore ad osservare ai tempi in cui accade; a riflettere al carattere del vecchio Carrarese; da ultimo, a por mente, non doversi misurare le vie della oscura politica con la sincera giustizia; né le ragioni di Stato col dritto del particolare.

Il fine di questa guerra fu l’acquisto delle città di Vicenza, di Verona e di Padova, dei distretti chiamati dei Sette Comuni, di Este, Montagnana, Monselice, Camposampiero, Cittadella, Piove e di altri luoghi nel Padovano. Splendide feste si celebrarono per tali acquisti, e fra le altre, il dì 4 gennaio 1406, una giostra, sulla piazza di San Marco. A queste, altre feste seguirono, per la venuta di Alfonso, figlio del re di Portogallo (1406), che si recava a visitare i luoghi santi; ed altra pompa solenne si istituiva, l’anno appresso, cioè la processione del Corpus Domini; come l’anno stesso, altre grandi feste anche si facevano per la esaltazione al trono pontificale di Angelo Corraro, patrizio veneto, che assumeva il nome di Gregorio XII.

Sennonché la elezione di lui non poneva fine allo scisma; che l’antipapa Benedetto XIII non discendeva ad accordi, sicché i cardinali tutti, raccoltisi in Pisa, li deponevano entrambi, ed eleggevano in loro luogo Pietro Filargo da Candia, che prendeva nome di Alessandro V. Fu questa la cagione per cui, anche in Venezia, si divisero gli animi nel riconoscere, ovveramente nel rifiutare Gregorio quale papa legittimo; ed ebbe il merito doge Steno di parlare in Senato e convincere, essere ottima cosa, per la pace della Chiesa, accettare per pontefice vero Alessandro.

In frattanto la Repubblica allargava più sempre il suo dominio e le sue relazioni, e per ogni dove faceva suonare il suo nome cinto di un’aureola di gloria. Fino dalle Indie il prete Gianni mandava al doge quattro leopardi ed aromi preziosi (1402): Obizzo da Polenta si metteva sotto la protezione della Repubblica, ricevette in Ravenna un podestà veneziano e la chiamava a succedergli alla eventuale mancanza d’eredi maschi: aveva, il 22 maggio 1406, rinnovata, con Emanuele II, imperatore di Costantinopoli, la solita tregua per cinque anni: procurava una lega col duca Federico di Austria (2 giugno 1407), ed eziandio con Pandolfo Malatesta, divenuto signore di Brescia (1 luglio 1407), e nello stesso tempo (30 luglio 1407) anche col duca Nicolò d’Este. Acquistava, per danaro, il castello di Lepanto nella Morca (1407): Patrasso veniva a dedizione (1408): acquistava, per trattative col marchese di Ferrara, i castelli sul Po, di Guastalla, Brescello, Casalmaggiore e Colorno: Zara pure acquistava per cessione fattane da Ladistao di Napoli, verso lo esborso di centomila fiorini d’oro (1409).

Ma appunto per tale acquisto si trovò la Repubblica impegnata in una guerra con Sigismondo re d’Ungheria, divenuto imperatore nel 1410; il quale, mal potendo frenare lo sdegno concetto per tale acquisto, mosso anche dalle suggestioni e sollecitazioni di Marsilio da Carrara e Brunoro dalla Scala, spediva, nel Trivigiano, con dodicimila cavalli e ottomila fanti, Filippo degli Scolari, detto Pippo Spano, fiorentino, allora al suo soldo; e in pari tempo tentava, col mezzo di emissari, far rivoltare le città contro la Repubblica. La quale inviava tosto a Sigismondo Giovanni Barbarigo e Tomaso Mocenigo, affine di volgerlo a miti pensieri, ma invano, ché egli faceva loro intendere, nulla pace sperasse Venezia, se non cedeva la provincia di Zara.

Veduta inevitabile la lotta, chiamava la Repubblica, al proprio soldo, Taddeo dal Verme, al quale surrogava poco poi Carlo Malatesta; fortificava la linea del Friuli; eleggeva un consiglio di cento savi alle bisogne della guerra, e stringeva, da ultimo, lega con parecchi feudatari del Friuli.

Passato però che ebbero gli Ungheri il Tagliamento il 20 aprile 1411, si distesero nel paese, e benché battuti a Prata dal Malatesta, s’impadronirono di Feltre e di Belluno, i cui abitanti, cacciato il podestà Marco Cornaro, aprirono loro le porte. La guerra quindi si agitava con varia fortuna; e quantunque il Malatesta desse grave sconfitta agli Ungheri sui campi della Motta, ne rimase egli stesso ferito così, che gli fu forza rinunziare il comando, assunto allora da Pandolfo, suo fratello, signore di Brescia.

Il Savorgnano anche, devoto alla Repubblica, tempestava gli Ungheri, ma non in maniera valevole adoperar cose decisive; e sì che quantunque Pippo Spano era ritornato in Ungheria per riaversi, nulladimeno continuavano le correrie sia dall’una che dall’altra parte. Una congiura tramata da un cotal Francesco Balduino, il cui scopo era di tradire la patria, uccidendone i nobili, venne in questo mezzo scoperta per opera di Bartolameo d’Anselmi, per cui fu il cospiratore impeso, e premiato lo scopritore, con l’ammetterlo a far parte del Maggior Consiglio.

Ricuperatosi Pippo, ritornava, e l’Istria e la Dalmazia venivano dagli Ungheri saccheggiate e devastate; e tanto crebbe il loro ardire, che la notte dell’ 11 giugno 1412 si spinsero con alcune zattere fino a San Nicolò del Lido, e, sorprese le scolte, si diedero alle devastazioni. I sacri bronzi, suonati a stormo, raccolsero il popolo da tutte parti, e i nemici si ritirarono.

Accadeva poi, il di 24 agosto, tremenda battaglia presso alla Motta, al passo del Livenza, sul quale fiume era pure accorso Nicolò Barbarigo con tre galee, venti ganzeruoli e cinquanta altre piccole barche; ed il furore svolto dagli Ungheri già facca pendere la vittoria in pro loro. Sennonché il valore di Pietro Loredano e del Malalesta operò sì, che rattenute e riordinate le fuggenti milizie, e approfittando di un istante propizio, ritornate alla pugna, diedero piena sconfitta all’esercito avversario, che venne inseguito fino a Portobuffolé, con molta perdita di genti e d’insegne.

Cionondimeno continuava la guerra, divenuta oggimai pesantissima ad ambedue le parti; sicché s’incominciò a trattare di pace. A stringer la quale si interpose il papa, il re di Francia e Giovanni dei Medici; e quantunque Ladislao, re di Polonia, promettesse, in quella vece, lega ed aiuto ai Veneziani, Sigismondo, stanco pur egli della guerra importabile, si mostrò più inchinevole agli accordi, maneggiati principalmente dal conte di Gilles e da Lorenzo cavaliere de Pastok gran siniscalco. Spediva allora la Repubblica, Tomaso Mocenigo e Antonio Contarmi in Friuli, e superate finalmente molte difficoltà fu conchiusa, il di 17 aprile 1413, una tregua per cinque anni. Altra tregua anche di cinque anni si fermava col duca Federico d’Austria, per mediazione dello stesso Sigismondo, e deposte così alfine le armi, si diede pensiero a rimarginare le piaghe che la guerra avea aperte. Furono perciò nominati dieci nobili con l’incarico di scemare le spese e di saldare in parte il debito pubblico. Si procacciarono danari con l’accrescere alcune tasse; si alienarono beni del comune; si destinarono le rendite del sale che si esitava nelle provincie in terraferma, all’acquisto di imprestiti, cioè a ritirare le obbligazioni emesse durante la guerra.

In tale condizione di cose lasciava la Repubblica doge Michele Steno, il dì 20 dicembre 1413, ultimo della sua vita, ed era tumulato, secondo la sua disposizione testamentaria, nella chiesa di Santa Marina, ove poscia, dai suoi parenti, gli fu eretto nobile monumento.

Durante il governo dello Steno accaddero nella città alcuni fatti degni di nota. Oltre le accennate venute di principi, sono da aggiungersi quelle di Roberto, imperatore dei Romani e di sua moglie, nel 1401, e di Emanuele II, augusto d’Oriente, nel 1403, venuto a chiedervi soccorso dì danaro. Egli fu incontrato dal doge col bucentoro, alloggiato nel palazzo del marchese di Ferrara, poi fondaco dei Turchi, e donato largamente alla sua partenza. Si erigeva, nel 1401, il castello al porto del Lido; ed il ponte di Rialto, rovinatosi il dì 12 dicembre dello stesso anno, si rifaceva in legno, quale era dapprima. Si compieva, nel 1404, il grande verone del palazzo ducale, verso il mare, e due anni dopo si prendeva a costruire il soppalco della sala del Maggior Consiglio, come dicemmo al Capo XI della storia di quella fabbrica. A ciò tutto aggiungiamo: l’incendio, accaduto il dì 24 ottobre 1403 del pinacolo del campanile di San Marco, tostamente rifatto, e per di più posto ad oro; aggiungeremo il turbine ed il terremoto che imperversarono il dì d’agosto 1410, in guisa da procurare una escrescenza d’acqua stragrande, e la rovina di parecchie case, dei campanili di Santa Fosca, e del Corpus Domini, di mura, camini ec.; e da ultimo, ricorderemo la peste, che durata dal giugno al dicembre del 1413, fece perire da circa 50.000 persone.

Il breve tenuto nella destra mano dal ritratto dello Steno é il seguente :

SVB ME CAPTA VENIS JANVENSIS PLVRIMA CLASSIS,
SAXOSA ET DOMINVM ME NOSTI PVLCHRA VERONA,
TV QVOQVE PATAVIVM, TV VICENTINA PROPAGO. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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