Lorenzo Tiepolo. Doge XLVI. Anni 1268-1275

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Lorenzo Tiepolo. Doge XLVI. Anni 1268-1275

Prima di procedere alla nomina del principe nuovo, parve ai padri regolare vie meglio il metodo da tenersi nella elezione, affinché per nessuna maniera non accadessero brogli. Pertanto i consiglieri ed i rettori nella sede vacante, unitisi coi capi della Quarantia, statuirono il nuovo modo e complicatissimo, durato, con lievi mutazioni, fino allo spegnersi della Repubblica. E fu questo. Doveva il consigliere più giovane recarsi alla Basilica del santo patrono, ed orato prima a Dio, prendere poscia il primo fanciullo in cui si abbattesse e condurlo in Palazzo. frattanto si doveva radunare il Maggior Consiglio, ed allontanati coloro che non avevano per anco compiuti li trenta anni di età, numerati i rimasti, e verificato in essi le condizioni richieste, porsi nel bossolo tante palle quanti erano i consiglieri, e in trenta di esse occultare un breve dicente: elector. Il fanciullo ora detto, doveva quindi estrarre una palla per ciascuno dei consiglieri, ed i trenta a cui toccavano quelle scritte, rimanere dovevano nella sala, gli altri uscire. Riposte poi le trenta palle nel bossolo, nove delle quali avevano a contenere altro breve, conveniva fare una novella estrazione, per la quale i trenta si riducevano a nove, i quali ritirare si dovevano in stretto conclave, da cui non potevano uscire se prima non avessero eletto quaranta, ciascuno con almeno sette suffragi. I quaranta eletti dovevano essere, per sorte, ridotti a dodici, e i dodici eleggere venticinque, con almeno nove suffragi. Assoggettati anche i venticinque alla sorte, rimanevano nove ancora, dai quali si dovevano eleggere altri quarantacinque, con almeno sette suffragi. Questi quarantacinque, ridotti per sorte ad undici, nominare dovevano, con almeno nove suffragi, i quarantauno, ultimi e veri elettori del doge. Nel 1553 però fu statuito che i quarantauno dovessero ottenere sanzione ad uno ad uno dal Maggior Consiglio.

Approvato che fu dal Consiglio Maggiore questo modo di elezione, i Correttori alla Promissione ducale fecero alcune riforme ed aggiunte alla medesima, colle quali si stringevano più sempre i poteri del doge. E perché fino allora si sottoscrivevano e si sigillavano gli atti pubblici dai due o tre cancellieri del doge, volle il Maggior Consiglio stabilire un Cancelliere suo proprio indipendente dalla volontà del doge medesimo, incaricato del sigillo della signoria e del deposito degli atti pubblici; laonde con il decreto 15 luglio 1268, in sede vacante, instituì la carica cospicua del Cancellier grande. Il quale doveva essere tratto dal corpo dei segretari, durare la sua carica a vita; essere capo della cancelleria ducale; primo tra i segretari di ogni consesso; avere accesso in tutti i consigli, e preferenza di luogo sopra li senatori e magistrati, tranne li consiglieri della signoria e li procuratori di San Marco; godere certe rendite del pubblico erario; decorazione di assise speciali; comparsa in tutte le pubbliche funzioni; ingresso solenne al suo avvenimento alla magistratura, come i procuratori, e funerali pari a quelli del doge. Il primo quindi che fu innalzato a questa carica fu Corrado Ducato, l’ultimo che la tenne Giannantonio Gabrieli, il quale al cadere della Repubblica, era il quarantesimoquinto cancelliere grande.

Compiute tutte queste cose, si chiamò il popolo nella chiesa di San Marco, ove il nuovo cancelliere Corrado, lesse le deliberazioni del Consiglio, che vennero approvate dal popolo stesso. Quindi, fatta l’elezione del doge, Jacopo Basegio la promulgò il dì 23 luglio, nella persona di Lorenzo Tiepolo, figlio del doge Jacopo, ed i cittadini con trasporto di gioia ne ricevettero la nuova. Lorenzo intanto, presentatosi a piedi scalzi all’altare, prestò il giuramento, ricevette il gonfalone della Repubblica, ed ascesa la scalca del palazzo, da colà parlò alla moltitudine parole di amore.

Il dì seguente mandava per Giovanni e Leonardo Dandolo, coi quali era lungamente vissuto in nimicizia, e volle con essi riconciliarsi. Poi si festeggiò per più giorni l’avvenimento, in modo sì splendido, che il cronacista Martino da Canale, testimonio oculare, dopo di avere descritto lungamente quanto fecero le arti per celebrarlo solennemente, dice che fu si grande letizia in Venezia che bocca d’uomo non la potrebbe contare.

Sennonché il primo anno della ducea di Lorenzo fu, innanzi tratto, afflitta la città da una inondazione, che, secondo una cronaca antica, citata dal Gallicciolli, molti perirono. Poi di più gravi mali fu apportatrice la carestia, a cui riparare non valsero i provvedimenti larghissimi procurati dalla Repubblica; la quale, non potendo sollecitamente ritrar vettovaglie, né da Napoli, né dalle coste africane, fu costretta a rivolgersi alle vicine città della terraferma, ma invano. Poiché, né Trivigiani, né Padovani non diedero ascolto alle domande pressanti; sicché, dopo molto penare, pervenuti alquanti grani dalla Sicilia e perfino dall’Asia, poterono distribuirsi e far cessare la fame.

A vendicarsi dei tristi vicini impose la Repubblica gravi balzelli sulle loro merci, e nuovi dazi ai legni che navigassero nel golfo e su per i fiumi, rinnovando anche il decreto che tutti i legni carichi di vettovaglie non potessero approdare se non a Venezia; al quale oggetto furono instituiti i Governatori delle dogane d’ingresso, ed il capitanato delle barche armate alla riviera della Marca, il quale dovesse custodire tutti gli sbocchi dei fiumi nell’Adriatico, ed vigilare sui contrabbandi.

Di questi provvedimenti non tardarono i Bolognesi, fattisi capi e vindici dei popoli della Romagna e della Marca d’Ancona, a mover legno; sicché, spediti ambasciatori a Venezia, domandarono che tolto venisse ogni impedimento al loro commercio, e specialmente a quello del grano e del sale diretto ai porti loro. Fu quindi conchiuso un trattato, nel 1269, con reciproca libertà e sicurezza, salve alcune restrizioni pei Bolognesi; e pari trattato fu stabilito con quei di Forlì. Insorte poscia alcune differenze, mal divisate dagli storici, o, a meglio dire, variamente discorse; a cagione delle quali avendo i Bolognesi eretto un castello a Primaro sul Po, da dove recar potevano grave molestia ai Veneziani, fu ogni cosa disposta alla guerra.

Spediva pertanto la Repubblica Marco Badoaro, con otto galee ed altri legni sottili al ben munito castello di Santo Alberto, che dominava Primaro. A lui si facevano incontro con grande esercito i Bolognesi, uniti coi loro confederati, ed si appostarono sul Po. Da prima furono respinti; ma sorta fiera burrasca, dovette il Badoaro ritrarsi, per cui gli avversari ne approfittarono per deviare, con tagli, il fiume, e tanto più fortificare il loro campo. Nuovi rinforzi pervenuti al Badoaro non valsero per due mesi di seguito, che a dar scaramucce senza ottenere rilevanti vantaggi. Jacopo Dandolo, con nuove genti, sostituito al Badoaro, riuscì con le sue macchine atterrar quelle dei Bolognesi, e recar grave danno alla loro torre. Durava però ancora a lungo la guerra, quando, scoperta una trama d’incendiare le macchine ed i navigli dei Veneziani, si venne alla pugna, nella quale, quantunque si dimostrassero valorosissime le genti della Repubblica, pure, soperchiate dal numero, e decimate dalle malattie autunnali, mal poterono resistere ad un assalto dei Bolognesi; onde battuti, furono costretti a salvarsi a Volano. L’anno appresso, Marco Gradenigo e Jacopo Dandolo, tornarono in campo, e fattisi incontro ai nemici li assalirono, sicché, dopo di averne feriti parecchi, tra quali lo stesso podestà dei Bolognesi, Lanfranco Mallucelli, si ritrassero alle loro navi.

A finire quelle lunghe discordie s’intromise papa Gregorio X, per cui, con il trattato 15 aprile 1273, conchiusesi la pace.

Con Treviso anche si componevano, nel 1270, le differenze insorte per la causa medesima del nuovo balzello, e per alcune altre molestie accadute da ambedue le parti. E agli Anconitani, che per la ragione stessa avevano portato i loro lagni al pontefice, nulla volle accordare la Repubblica; e quindi, rimessa, dal pontefice stesso, la controversia all’arbitrio dell’abate di Nervesa, questi decise, continuassero le gabelle pagarsi da quei d’Ancona, affinché potessero i Veneziani, con queste, sopperire alle spese di guardare dai Saraceni e dai pirati le coste dell’Adriatico. Altri trattati, per ragion di commercio, furono conchiusi con Milano (1268), con Mantova (1269), con Ferrara e con Pisa (1273), e con Cremona (1274). Con l’Armenia pure si rinnovavano i trattati (1271); si regolava il commercio di Francia e delle Fiandre; e alle lunghe guerre con Genova dava riposo una tregua di cinque anni pattuita a Cremona il 22 agosto 1270, ove si era a bella posta recato, come mediatore, un rappresentante del re di Francia; e, da ultimo, con l’Augusto d’Oriente, Michele Paleologo, nel 1272, veniva rinnovata la tregua.

Tanta potenza, principalmente sul mare, della Repubblica, mosse le vicine città dell’Istria e della Dalmazia a porsi sotto la sua protezione, ed accettarne anche il dominio. Perciò Umago, Cittanuova, Cervia, ed i castelli di Montone e di San Lorenzo venivano a dedizione e ne ricevevano particolari podestà che le reggessero.

Nel mentre seguivano le cose narrate accadde nella città una congiura, il cui scopo, dice sommariamente il Sanudo, era contro la Repubblica. Scoperta a tempo, vennero dannati a perpetuo bando sette dei capi principali, i cui nomi lo stesso Sanudo ci tramandò. In Candia pure, per opera di alcuni iniqui, capo dei quali era Giorgio Curtazio, fu ucciso il duca Marino Zeno, al quale sostituito Marino Morosini, questo si preparò ad oppugnare i rivoltosi. Anche in Negroponte seguiva avverso caso, e fu, che parecchi regoli, al dir del Sanudo, dominatori d’una terza parte di quell’isola, armati sedici navi corsero depredandole coste dell’Asia Minore soggette all’Augusto d’Oriente, sicché questi, a prender vendetta dell’insulto e del danno, spedì una flotta a Negroponte, ove era bailo per la Repubblica Andrea Dandolo, e, postovi assedio, e quindi data battaglia alle venti galee che coloro avevano raccolte, le vinse, e venne per tal modo quell’isola in potere dei Greci. L’imperatore però, ad osservare la tregua in cui era con la Repubblica, sciolse cinquecento prigionieri veneziani che furono fatti in quell’incontro.

Era il dì 15 agosto dell’anno 1275 quando doge Tiepolo pagava a natura il tributo, dopo il governo di sette anni e ventiquattro giorni, ottenendo sepoltura in Santi Giovanni e Paolo nell’urna stessa del doge suo padre.

Al suo tempo veniva fondato l’ospitale della Casa di Dio, per donazione di un fondo, fatta, nel 1272, da Maggio Trevisano, pellicciaio, a frate Lorenzo. Questo ospitale fu poi destinato ad albergare povere donne di vita onesta e sciolte dai legami del matrimonio, e dura tuttavia.

Il breve che si vede svolgere dalla sinistra mano del ritratto del nostro doge dice:

CLAVSTRA MARINA TVENS, PROFUGO BONONIENSES. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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