Isola di San Servolo

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Francesco Guardi (Venezia 1712-1793) - Isola di San Servolo

Isola di San Servolo. Chiesa e Monastero degli Ospitalieri Fatebenefratelli

Storia dell’isola, della chiesa e del monastero.

In remotissimi tempi, e molto prima che fosse da Malamocco trasferita la sede ducale in Rialto, fu fondato ad uso dei Monaci di San Benedetto, e sotto l’invocazione di San Servolo martire di Trieste un monastero nell’isola, che dal santo suo titolare prese la denominazione di San Servolo. Vivevano quei buoni religiosi fra le paludi in somma ristrettezza di rendite, penuriando il loro mantenimento. Perciò Angelo e Giustiniano padre e figlio Participazi dogi di Venezia, ricercati da Giovanni abbate di qualche soccorso, concessero loro nell’anno 819 la Chiesa di Sant’Ilario posta nei confini delle lagune venete verso il territorio padovano, affinché ad essa si trasferisse la maggior parte dei monaci, a condizione però, che anche nell’Isola di San Servolo abitasse un numero di religiosi sufficiente al servigio della chiesa, e all’ufficiatura del coro, dovendo l’abbate di Sant’Ilario somministrare loro il mantenimento.

Ivi dunque continuarono ad abitare benché non molto numerosi i monaci di San Benedetto, finché al principio del XII secolo con permissione dell’abbate di Sant’Ilario cedettero l’intera isola a ricovero delle monache Benedettine, che fuggire erano dall’imminente rovina della Città di Malamocco. In questa città fabbricata già nei funesti tempi di Attila dagli aquileiesi, e padovani sul lido dell’Adriatico fondati vi erano due monasteri d’istituto Benedettino; l’uno di regolari sotto il titolo dei Santi Cornelio e Cipriano; di monache l’altro sotto l’invocazione del vescovo e martire San Basso, i quali per le inondazioni marittime, che a poco a poco sprofondarono quella città, si ristabilirono nell’interno delle lagune. Fu assegnato ai monaci nell’Isola di Murano un luogo atto a fabbricarvi un nuovo monastero, ed alle monache impotenti al dispendio di nuove fabbriche fu assegnata l’Isola di San Servolo per pia donazione di Pietro abbate dei Santi Ilario e Benedetto, fatta a Vita abbadessa dei Santi Basso e Leone nell’anno 1109. Col raddoppiato titolo dei Santi Basso e Leone cominciò a chiamarsi il monastero di Malamocco fin dai principi del secolo undecimo, nel qual tempo fu trasferito al Monastero San Basso il sacro corpo di San Leone vescovo di Sarno. Di tale traslazione si legge il racconto in un antico codice intitolato Cimiteriale di San Servolo appresso le Monache di Santa Maria dell’Umiltà, di cui questo è un compendioso trasunto.

San Leone greco vescovo di Samo, isola non molto lontana dall’Albania, morì e fu sepolto nella detta isola addì 26 di aprile, glorificato da Dio con molti miracoli, per la fama dei quali alcuni greci, che ivi casualmente passavano, rapirono quel sacro corpo, e irriverentemente lo divisero a pezzi per più facilmente portarlo; ma non potendo per divina ordinazione partirsi dal luogo, furono costretti restituirlo al suo sepolcro. Non molti anni dopo nel giorno appunto festivo del santo arrivarono a Samo con una galera alcuni veneziani, i quali dopo essere intervenuti alla solennità volendo partirsi furono per ben due volte da furioso vento respinti alle spiagge dell’isola. Mentre dunque attoniti di tale stravaganza stavano irresoluti, un buon vecchio si espresse essere ciò segno, che Iddio li animava a trar quel sacro corpo da luogo cotanto solitario. Applaudirono: tutti al consiglio, e nella susseguente notte portatili alla chiesa videro schiudersi da sé stesse mirabilmente le porte e dinotarsi il nome di San Basso, alla di cui chiesa doveva offrirsi il sacro deposito. Portato dunque da un sacerdote il sacro corpo alla galera, con viaggio accompagnato sempre da prodigi arrivarono a Venezia, ove smontati a terra s’indirizzarono tosto vero la Chiesa di San Basso per collocarvi il venerabile corpo; ma trattenuti da forza invisibile dovettero fermarsi innanzi la chiesa senza poter penetrarvi.

Era presente fra gli altri a tal prodigio Leone di questo nome II vescovo di Malamocco, uomo di singolare pietà, il quale poté persuadere al popolo ivi concorso essere volontà dl Dio, che il corpo del santo vescovo fosse trasportato alla Chiesa delle Monache di San Basso della sua diocesi, e ciò detto con mirabile facilità levò il venerabile deposito, e seco lui conducendolo ne arricchì la Chiesa di San Basso ufficiata allora da vergini benedettine. Seco poi trasportarono il sacro corpo le religiose, collocandolo nella chiesa dell’isola a lor pervenuta per la donazione dell’abbate Pietro, a cui solennemente nel mese di febbraio dell’anno 1109, sottoscrissero il doge Ordelafo Faliero, e Giovanni Gradenigo patriarca di Grado.

Perchè poi le buone monache poste in salvo dai pericoli dell’inondazione non perissero oppresse dal vecchio rovinoso monastero, a cui erano state tradotte, la famiglia Calbana, che poco avanti si partì da Capodistria fissata aveva la sua dimora in Venezia, rinnovò dai fondamenti le fabbriche, ed ampliate le ridusse atte all’uso delle religiose. Furono poi queste dichiarate di giurisdizione del vescovo di Castello contra le insussistenti pretese di Domenico vescovo di Chioggia, il quale per essere state le monache a lui nel Monastero di Malamocco soggette, tali pure le voleva nel veneto monastero, finché ad insinuazione di Enrico Dandolo patriarca di Grado, e de li altri vescovi della Venezia marittima, si ridusse finalmente al conoscimento del proprio torto.

Succedette poi nel governo del monastero dopo il corso di molti anni un’altra abbadessa di nome pur essa Vita, a cui nell’anno 1205, Pietro Ziani allora conte d’Arbe, e poi doge di Venezia, donò in perpetuo possesso per vantaggio del di lei monastero alcune case situate nella parrocchia di San Giovanni di Rialto.

Circa il fine poi dello stesso secolo XIII, essendo stata da tre monache, nelle quali tutte le altre si avevano compromesso, eletta abbadessa Donata Foscari; questa per una fatalissima condiscendenza avendo abbandonata nelle mani di una sua sorella l’amministrazione delle rendite, e trascurando di corregger gli abusi, che si andavano introducendo nelle altre monache, ridusse l’economia, e l’osservanza a tale stato, che andando di anno in anno decadendo di credito si ridussero finalmente le monache nell’anno 1431 al solo numero di quattro. Per dare rimedio a sì grave disordine, e restituire al monastero l’antico lustro della regolare disciplina, il santo vescovo di Castello Lorenzo Giustiniano trasse dall’esemplare Monastero di Santa Croce della Giudecca le monache, fra le quali una di nome Scolastica, vergine dorata di singolare santità, e le tradusse all’Isola di San Servolo, affinché coll’esempio di lor virtù, e col fervore delle esortazioni, riducessero quelle traviate monache al diritto sentiero di salute; il che poi felicemente successe secondo i voti del santissimo prelato.

Benedisse Iddio copiosamente il ravvedimento di quelle religiose, finché le rendite, che nella libertà del lor vivere bastavano appena a cinque monache, per le pie oblazioni dei fedeli si accrebbero fin ad essere sufficienti al mantenimento di oltra ottanta monache, che sotto il governo della sopra lodata Scolastica eletta abbadessa vestito avevano in San Servolo l’abito, e professata la regola di San Benedetto. Fu poi nel giorno 23 di novembre dell’anno 1470, da Urbano dei Vignati, vescovo di Sebenico consacrata la chiesa per la pia attenzione dell’ottima abbadessa Scolastica, la quale dopo quarantaquattro anni di lodatissimo governo volò felicemente alla gloria nel giorno 24 di agosto dell’anno 1478. Fu sostituita nella direzione del monastero Cristina Gavardi, vergine di esimia pietà, discepola, ed emulatrice delle virtù della defunta abbadessa, la quale nell’anno XXI di sua dignità la mattina del Venerdì Santo 29 di marzo dell’anno 1499, in devote aspirazioni al suo sposo crocifisso spirò l’anima, veduta nello stesso punto volar al cielo da don Agostino virtuoso canonico lateranense nel Monastero della Carità, che dal pulpito, ove predicava, annunzio ai suoi uditori la felice morte dell’abbadessa di San Servolo. Fu essa l’ultima dell’abbadesse perpetue; dopo la di lui morte fu da Alessandro VI, con bolla del giorno 3 di ottobre 1499, ridotta la dignità di abbadessa al periodo di un triennio.

Prima dell’abbadesse triennali fu Domitilla Malipiero, a cui poi fu sostituita Niccolosa Caborsa, nativa di Modone nel Regno di Morea, la quale poi dal patriarca Antonio Suriano fu destinata al Monastero di San Giovanni Laterano (come altrove si è detto) a stabilirne la riforma. Frattanto il monastero riedificato (come si è detto) nei principi del secolo XII, andava rilevando dal corso degli anni gravissimi pregiudizi. Poiché i di lui procuratori operarono con forti maneggi, che dal senato fossero concesse in perpetua abitazione alle Monache di San Servolo la chiesa, e casa unita di Santa Maria dell’Umiltà, possedute già dalla religione dei Gesuiti, e lasciate al tempo dell’interdetto di Paolo V. Ottenuto il favorevole rescritto in decreto del giorno 27 di giugno 1615, passarono nel giorno 4 del susseguente luglio nelle fabbriche dell’Umiltà, seco conducendo i preziosi ornamenti della loro chiesa, cioè il corpo del vescovo San Leone; una gamba di San Servolo martire, donata già al monastero da Almerico dei Giudici nobile triestino nel secolo XIV, ed un osso della coscia di San Basso vescovo e martire da esse possedute fin dal tempo, che abitavano in Malamocco.

Restò vuoto di abitatori il luogo di San Servolo, finché nell’anno 1646, essendo caduta in poter dei turchi l’illustre città di Candia, furono trasferite a Venezia in questo monastero le religiose, che sotto i quattro istituti dei Santi Benedetto, Agostino, Domenico, e Francesco professato avevano nei chiostri di quell’infelice metropoli, e quivi vissero alimentate dalla pubblica, e privata carità, finché la corte successivamente togliendole lasciò di nuovo desolato quel sacro recinto.

Determinò dunque il senato con pia provvidenza nell’anno 1715, d’ivi istituire un pubblico ospitale, ove curar si potessero i soldati infermi, e piagati, e ne assegnò l’amministrazione, e la custodia alla sacra religione dei Frati Ospitalieri, istituiti da San Giovanni di Dio, i quali con carità e perita assistenza fervendo indefessamente agli infermi meritarono, che dal senato stesso con decreto emanato nel giorno 27 di giugno dell’anno 1733, in perpetua permanenza fosse concesso loro il monastero, ed ospedale annesso, perché ivi con un pieno numero di dodici avessero a stabilire il loro convento.

Si fermò ad alloggiare in questo monastero l’imperatore Ottone III, allorché venne incognito a Venezia per visitare il doge Pietro Orseolo II, e seco rallegrarsi delle vittorie da lui riportate nella Dalmazia, come riferisce nella sua Cronaca il Dandolo, da cui pur sappiamo, che Giovanni già di sopra nominato abbate di questo monastero fu intruso con violenza nella sede di Fortunato patriarca di Grado, fuggito in Francia; ma essendosi poi il patriarca pacificato coi Veneziani, l’abbate Giovanni ritornò al suo monastero, finché per dono dei dogi Participazi avendo ottenuto il luogo di Sant’Ilario si portò ad abitar in esso con la compagnia dei suoi monaci. (1)

Visita della chiesa (1839)

Nel 1715 quattro sole monache rimanevano nel monastero di San Servolo. Era allora che la repubblica aveva chiamati i padri ospitalieri, l’ufficio dei quali mirava al solo soggetto di assistere gli infermi poveri e medicarli così delle piaghe del corpo come di quelle dell’anima. E qui li chiamava il senato affinché assistessero i militari ammalati raccolti nello spedale di Sant’Antonio di Castello. Ma preso miglior consiglio nell’anno appresso (anno 1716) li trasportava, insieme con gli infermi, in quest’isola, la quale venne poi dalla repubblica interamente ad essi donata, facendo erigere dalle fondamenta un nuovo convento a loro uso, un nuovo ospedale per gli infermi ed una chiesa nuova: lavori che cominciati nel 1754 furono compiuti nel 1759. Si vuole che ne sia stato architetto Giovanni Scalfarotto, zio materno del Temanza. Sebbene l’opera riesca allo scopo cui fu destinata non merita quanto all’arte lode particolare.

E ogni opera più sublime sarebbe stata vinta dalla naturale satisfazione cercata da quanti qui ricorrono sia per avere guarigione nelle infermità, sia per visitare gli infelici sofferenti e sia per conoscere da vicino l’ordine, la fraterna carità onde è diretto si pio istituto. Né queste ultime doti sfuggivano alla Repubblica quando volle trarne tutto il vantaggio affidando alla vigilanza dei Fatebenefratelli i pazzi. Dapprima il consiglio dei Dieci (anno 1725) aveva invitati quei padri ad accogliere quelli soltanto attenenti a patrizie o ad agiate famiglie, ché gli altri plebei, come per lo innanzi, continuavano ad errare per le vie e per i trivi, ludibrio del volgo, se innocui, e ad essere gettati nelle carceri se violenti e pericolosi.

L’inumana consuetudine durò sino al 1797 in cui apparve nella sua interezza la barbarie di abbandonare al vituperio delle piazze ed all’obbrobrio delle carceri coloro che avevano smarrita la ragione. Da allora in poi si ordinò che anche questi venissero raccolti presso i padri ospitalieri e là assistiti ed alimentati a spese dello stato. Cosi ebbe principio la vera fondazione in questa città di un ospizio per gli alienati, aperto e sostenuto dalla pubblica pietà a beneficio universale.

Dal quale ospizio partirono poi nel 1808 gli ammalati militari, sostituiti nell’anno seguente da altrettanti infermi di malattie chirurgiche d’ambo i sessi. Ma le donne ne furono escluse altresì da questi nel 1829 e dai mentecatti nel 1834, sicché indi a poi l’istituto rimase ospedale per la cura mentale di oltre a 200 alienati, e per la cura chirurgica di circa 80 infermi, gli uni e gli altri però de solo sesso maschile.

E già se entri nell’ospedale vedi il primo piano destinato ai secondi, il superiore ai primi. Per il chiostro saresti introdotto alla elegante chiesetta di tre altari. Quello alla sinistra ha la pala col Cristo deposto, pala che incominciata da Giambettino Cignaroli si è compiuta da Lattanzio Querena. Molto graziosa invero nella composizione, e molto saviamente lumeggiata! Di più avremmo bramato da Francesco Maggiotto nell’altra opposta pala con San Giovanni di Dio abbracciante a croce. Notiamo soprattutto la tinta giallognola dominante generalmente in essa essendo che ci par manierismo a cui di leggeri incorra la stessa età nostra; età di ricerche e di studiata perfezione. Niuna tinta è mai sola, ché ad ogni punto sono a dismisura variate nelle cose: possente teoria dal solo buon secolo XVI della veneta scuola altamente conosciuta e praticata, ed a poco a poco, in grazia di sempre nuovi tentativi, abbandonata quasi onninamente.

L’orto dell’ospizio, mercé la solerzia dei padri, si ampliò recentemente colle scavazioni dei nostri canali; ma sia che tu passeggi per esso, sia che ti diletti inoltrarti pei dormitori degli infermi, per le stanze dei mentecatti, per le celle dei padri ammirerai ovunque una mente regolatrice di ogni cosa con quello spirito che la religione infonde per la causa dell’umanità e che per niuno altro premio terreno a si alto grado si saprebbe giammai raggiungere. (2)

Eventi più recenti

Dagli anni novanta del XX secolo la Provincia di Venezia, oggi Città metropolitana di Venezia, proprietaria dell’isola, ha avviato il recupero edilizio avviando un centro di promozione multiculturale. Dal 2004 la Provincia di Venezia ha istituito la Società San Servolo Servizi – oggi denominata San Servolo Servizi Metropolitani di Venezia – alla quale ha dato il compito di salvaguardare, gestire e valorizzare l’isola di San Servolo. L’Isola è sede anche della Fondazione Franca e Franco Basaglia, della Venice International University, del Centro di Formazione in Europrogettazione AICCRE, nonché residenza per studenti di dottorato o in progetti di scambio internazionale.

Dal 2008 l’isola accoglie anche la succursale dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e dal 2012 è sede del Collegio Internazionale Ca’ Foscari. (3)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

(3) https://it.wikipedia.org/wiki/San_Servolo

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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