Domenico Michiel. Doge XXXV. Anni 1118-1130

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Domenico Michiel. Doge XXXV. Anni 1118-1130

Succeduto al defunto Ordelafo Faliero Domenico Michiel, pensava egli tosto riparare in qualche modo agli effetti della vittoria degli Ungheri nella Dalmazia, la maggior parte delle cui città erano cadute in poter loro. Chiedeva quindi pace a Stefano II, spedendo a lui ambasciatori Vitale Faliero, figlio del morto doge, Orso Giustiniani e Marino Morosini, e fermata veniva una tregua per cinque anni, per la quale rimaneva ognuno in possesso delle città allora occupate.

Pativa, secondo il Savina, Venezia, nel verno del 1118 orribil sido, talché era dato di cavalcar le paludi, e nella estate seguente desolavanla peste e carestia. Si Rinnovavano, nel 1122 tutti cotesti mali, a cui si aggiunse l’incendio accaduto nel 1120, della chiesa di San Pier di Castello e di parecchie case circonvicine; né perciò veniva meno il valor cittadino; che preparavasi a prove novelle in Oriente. Difatti, nel 1122, inviava Baldovino II, e quindi papa Calisto II, ambasciatori alla Repubblica, affinché volesse ancora aiutare le armi crociate in Siria. Doge Michieli, col generale acconsentimento della nazione, radunava poderosissima flotta, vi saliva capitano, e scioglieva dal porto. Toccava nel viaggio Bari, e il doge unitamente ai principali guerrieri lasciavano carta di sicurtà a quegli abitanti, che nessun danno o molestia avrebbero patito. Veleggiava quindi la flotta alla volta di Corfù, alla quale posero assedio durante il verno, e ciò in odio all’imperatore Giovanni Comneno che si dimostrava ostile. Alla novella stagione riprese suo viaggio, e nel cammino devastava Chio, Lesbo e Rodi, giugnendo da ultimo in Cipro, e da colà poscia moveva per alla volta di Jaffa, ove si aggirava la flotta egiziana. Incontratala, dopo tre ore di battaglia fierissima e sanguinosa, rimase dai nostri sgominata, dispersa e vinta compiutamente. Tanta vittoria venne espressa nella sala dello Serutinio, da Santo Veranda, e fu in quest’opera incisa ed illustrata alla Tavola CLXX.

Entrato il Micheli nel porto di Jaffa, si unì con l’armata dei crocesegnati che ivi stanziava, e vi lasciò la propria in riposo, affinché si preparasse a nuove intraprese, trasferendosi egli infrattanto a Gerusalemme. Fu colà accolto siccome un glorioso alleato trionfatore, ed ivi si pensò tentare qualche altra intrapresa di grave importanza. Erano però gli animi divisi circa la scelta della impresa da compiersi, giacché un piano si aveva fissato. Fu quindi deciso, secondo il costume di quella età, di rimetter la scelta in mano alla Provvidenza divina, traendosi cioé a sorte le due città, che prima delle altre disegnato si aveva di oppugnare. Erano queste Tiro e Ascalona, i cui nomi vennero scritti sopra due schede, le quali furono indi deposte sull’altare. Quindi Garimondo, patriarca di Gerusalemme, invocò l’aiuto celeste, e celebrati i divini misteri, un fanciullo pose da ultimo sull’altare una mano e scelse la scheda recante il nome di Tiro. E Tiro appunto fu la città su cui diressero tosto le loro armi i erociati. Prima però d’accignersi all’impresa, fermarono i guerrieri di Cristo con i Veneziani un trattato, col quale si stabilirono i privilegi, le immunità a lor concedute, e la parte della città che andavano a conquistare e che dovea godersi da loro.

All’aprirsi della primavera dell’anno 1123 partiva l’esercito da Gerusalemme, e la flotta veneziana scioglieva dal porto di Tolemaide, dirigendosi sì l’uno che l’altra alla volta di Tiro.

Il doge Michieli strinse primo con la sua flotta il porto, chiudendo ogni comunicazione dalla parte del mare; il patriarca di Gerusalemme, dappoi, reggente del regno, e Ponzio conte di Tripoli, che comandavano l’armata, la circonvallarono dal lato di terra. Con incerta fortuna combatterono sui primordi i erociati, quantunque animati da fierissimo ardore. Ma poiché entrò la discordia nel campo loro, mancando venne negli animi il fuoco, il coraggio e quel valore che fa disdegnare ogni impresa arrischiata; ché le milizie terrestri invidiavano la posizione della flotta dei Veneziani, i quali, dicevano esse, stavano tranquilli sulle loro navi, salvi da ogni pericolo, esenti dalle fatiche di Marte ed in attesa che Tiro, domata per fame e divisa dai partiti, si arrendesse, senza che per loro parte cooperassero col più piccolo sforzo, sicuri d’altronde di potersi ritrarre impunemente ad ogni evento sinistro. Da queste mormorazioni passarono quindi alle minaccie, protestando generalmente, volere pur elleno rimanere immobili sotto le tende, siccome i Veneziani facevano sulle loro navi.

Non appena seppe il doge Michieli queste tumultuanti ed ingiuriose proteste, chiamossene offeso, arse di sdegno; e siccome uomo che era franco, leale, generoso, impuntatole nella data fede, incapace della viltà la più lieve, deliberò, con atto magnanimo, di far tacere la maldicenza di quei venturieri. Pertanto ordinò ai suoi che spogliassero di tutti gli attrezzi le navi, e quindi li adducessero sul lido. Caricateli poscia sugli omeri dei marinai, con essi si avviò al campo dei crociati. Giunta la comitiva alle tende si fermò: ed allora il Michieli accennando ai capi erociati, e remi, e vele, e timoni, e sartie, e quanto altro mai occorre ai navigli per renderli abili al mare, proruppe in così fatte parole: Coi sospetti vostri il dubbio spargeste sulla nostra lealtà; comuni devono essere i pericoli, comuni i travagli; e perciò eccovi la guarentigia della nostra fede. Così ora, togliendoci il modo di allontanarci da questo lido, saremo esposti più di voi ai pericoli; ché avremo da un lato i nemici, dall’altro il mare, che ad ogni gruppo di vento ci muoverà altra guerra più funesta e tremenda. Il nobile atto del doge valse a confondere le milizie crociate, le quali ad una voce chiesero perdon dell’insulto ai Veneziani, e manifestarono loro piena fiducia, volendo che ritornassero alle navi coi loro attrezzi.

Ritornata la concordia fra l’esercito, si strinse d’assedio vieppiù la città, e già parlatisi di darvi l’assalto onde espugnarla. Senonché fu osservato più volte nel campo, che una colomba, a cui sotto una zampa o ad un’ala stava assicurata una carta, entrava ed usciva dalla città; e tosto si conobbe che con quel mezzo, praticato allora dagli Orientali, ricevevano i nemici dal di fuori notizie. Usarono modo accomodato per prenderla; e presa, conobbero che venia da Damasco, recando una scritta del sultano, colla quale esortava gli assediati a star fermi nella difesa, dappoiché egli fra poco sarebbe accorso in loro aiuto. Trattennero quindi i crociati quella scritta, sostituendone un’altra, nella quale si simulava, in quella vece, non potere il sultano stesso venire a liberarli dall’assedio, stante che era assalito da altra parte dall’oste eristiana. E così fatto, liberarono la colomba, la quale sciolse il volo, recando ai nemici quella falsa novella. Lo stratagemma riuscì felicemente, imperocché, scoraggiata la guarnigione di Tiro calò a capitolare, sicché nel giro di brevi giorni si arrese, consegnando la città all’oste erociata.

La presa di Tiro, che recò sì gran nome alla Repubblica, venne espressa nella sala dello Scrutinio per opera di Antonio Vassilachi, detto l’Aliense, e fu incisa ed illustrata alla Tavola CLXX bis.

Dopo tale vittoria, venuta a notizia del doge e la invasione nuovamente operata dagli Ungheri nella Dalmazia, e le continuate molestie, che al veneziano commercio davano i Greci, ordinate le cose nei nuovi stabilimenti, partiva colla flotta alla volta d’Europa, togliendo a devastare le isole greche. Poi, giunto in Dalmazia, riprese le perdute città, e col ricco bottino acquistato rientrava in patria glorioso, recando la salma del martire Isidoro, che ripor fece nella basilica ducale, ove del pari si collocava un masso di granito, tolto a Tiro, che la tradizione diceva aver salito l’Uom-Dio, per predicare alle turbe.

Pochi mesi eran passati, che i Greci continuavano a correre i mari, prendendo le navi veneziane; sicché fu costretto il doge armare di nuovo una flotta, capitanarla, e sciogliere contro la Grecia. Occupava quindi subitamente Cefalonia, e già innoltravasi vittorioso nell’Arcipelago, quando, a scongiurare la minacciata procella, spediva l’imperatore Giovanni Comneno, ambasciatori per trattare la pace, la quale, non senza difficoltà, fu alla fine conchiusa; confermando il Comneno i privilegi già accordati ai Veneziani dal padre suo Alessio.

Non possiamo però tacere, che intorno a questi fatti tanta s’incontra diversità negli storici, che ad uscirne dall’intricato labirinto, duopo sarebbe del filo d’Arianna, non essendo valevol la critica.

Nel ripatriare, recarono da Cefalonia i Veneziani il corpo di San Donato, vescovo di Evorea, e lo deposero nella chiesa di Santa Maria di Murano, che da quell’istante assunse la doppia intitolazione di Santa Maria e Donato.

Tenne poscia in pace il Michiel la sede ducale fin verso al chiudersi dell’anno 1129, in cui rinunziò il trono per ritirarsi a vivere in quiete, passando a vita migliore l’anno appresso. Alcuni cronacisti però tacciono di tale rinuncia, dicendo che morì doge nel 1130.

Secondo una cronaca anonima antica, citata dal Gallicciolli, si deve al Michiel la illuminazione della città, introdotta saggiamente per menomare gli assassini, che frequentemente commettevansi di notte per le vie da malvagi travestiti con barbe simulate alla greca; sicché fu proibito il loro uso, sotto pena capitale.

Sul breve tenuto nella sinistra mano del ritratto di questo doge leggesi il motto seguente, ommesso però il vocabolo praesens, riportato da tutti gli scrittori:

TYRIVM CVM SYRIA PRAESENS TIRI CHRISTE REDEMI. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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