Palazzo Molin Cappello a Sant’Aponal

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Palazzo Cappello a Sant'Aponal. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzo Molin Cappello a Sant’Aponal

Fino alla scoperta di alcuni autografi, questo edificio rimase incognito, e fu per le Raspe dell’Avogaria, rimesse in evidenza, e di cui toccheremo, che potè essere restituito ai diritti della storia. Esso innalzasi angolarmente sul piccolo rivo di Cà Rampani, or Carampane, in parte sul Rivo di Sant’Apollinare, di presente interrato, a piè del ponte storto, contermine ad un altro di legno, oggidì demolito, e che dava ingresso alla magione attraverso il canale. L’accidente di questo interrimento diviene adesso un mezzo facile, perchè l’osservatore possa meglio soffermare lo sguardo su qualche reliquia di stile gotico-moresco, scoprendosi da quel lato alcuni davanzali a sesto acuto, e un avanzo di cordone sull’angolo fogliato, e adorno di capitello del medio evo. Dell’eguale carattere avrà figurato questa fabbrica, al pari delle altre confinanti, come ne dà prova tuttora il palazzo rimpetto, in calle Tamossi, che vuolsi prisca residenza dei Salviati fiorentini, il quale, sebbene guasto e contraffatto anche nel cortile, è tuttavia pittoresco, conserva pure le merlature di fino lavoro, alla foggia araba.

È quindi evidente che l’edificio si rinnovava sul vecchio fondo, all’epoca del rinascimento, con architettura dei primi Lombardi, se pure alquanto ristretta nel prospetto, con due ingressi dal lato di terra, ed uno sull’acqua, non senza qualche gentilezza di forma. Poichè ai canti della riva di approdo sono graziose le due finestrelle; i davanzali degli amezzati, sporgenti quali mensole, fregiansi di eleganti corniciette e modiglioni, al pari di quelli che, a leggere volute, sorreggono le balaustrate nel poggiolo del primo ordine, a quattro archi, e le tre colonne di pietra greggia, con capitelli corinti. Simile è la distribuzione architettonica dell’ordine secondo, ma di proporzioni più svelte, e di opera più leggiadra, stando anche sopra ogni finestra un ritondo, che fu un tempo rivestito di marmo a colori. Così non si fossero mutate le due arcate nel centro, uguali a quelle dei lati, con sporgente marmo modiglionato, a comodo dei pergoli, ora cinti da barriera non dicevole di ferro, e che non si avesse contraffatto l’edilìzio ne gli altri lati, che si vedrebbe un tipo del bel tempo. Perchè l’atrio è nobile, sorretto da colonne gotico-lombarde, ha un’ornata cisterna col doppio stemma, però cancellato nello scudo, e sussiste un davanzale a due arcate, respiciente la fondamenta Molin, del disegno di quelli del palazzo Vendramin-Calergi, a San Marcuola, e della scuola ornatissima di San Rocco.

In questo palazzo respirava le prime aure della vita, nel 1548, la celebre Bianca Cappello, della quale la curiosa storia è divenuta ormai popolare, ma che possiamo dare espurgata da tradizioni apocrife, anche per recentissime scoperte. Magico fu l’incanto che traspariva dalle sembianze di Bianca; singolari le grazie e lo spirito della bellissima persona, e Pietro Bonaventuri, da un anno allogiato nella casa mercantile Salviati, che vedemmo in linea retta di faccia, ne rimase preso d’amore, e in uno dei secreti colloqui notturni i due giovani, dalla passione conquisi, deliberavano una fuga da queste soglie, quale si mandava ad effetto per la riva di approdo, sulla mezzanotte del 29 novembre 1563, ma con previo giuramento di stringere un nodo legittimo, varcati appena gli Apennini. Scopertasi all’indomani la fuga, Bartolammeo Cappello, padre di Bianca, presentava una precipitosa querela al Consiglio dei Dieci, che, raccoltosi col Collegio straordinario, decretava il bando capitale del rapitore, e la sentenza degli Avogadori veniva pubblicata sopra le scale di Rialto ai 7 gennaio 1564.

Chiedeva il padre, che gli venisse Bianca restituita, per recluderla in un monastero, e del proprio aggiungeva alla taglia per chi gli recasse, vivo, o morto, il seduttore. Desta in vero meraviglia profonda un tanto inconsulto disegno, per cui si fece pubblico in solenne guisa il disonore della casa, mentre stoltamente si mirava a risarcirne la fama, ed a ragione il Botta appunta il padre di cieco orgoglio. Non poteva egli darsi invece il pensiero d’indagar prima a quale famiglia il Bonaventuri appartenesse, e se poteva dirsi in fatto, che quell’uomo, date anche le condizioni di quei tempi, fosse alla figlia sua incompetente, come per errore credeva, e come fin’ora ha spacciato senza appoggio la storia? Non doveva invece, rotto ogni indugio, a tutt’uomo adoperarsi, perchè seguissero le pronte nozze, e cercar poi coi mezzi, che avea già in potere, di farlo innalzare da una condizione disforme, se tale risultata fossegli di confronto? In tal guisa operando gli sarebbe emerso ciò che in oggi rilevasi da parecchi documenti dell’Archivio di Stato in Firenze, che la casa del Bonaventuri era casa nobilissima, e nelle linee e attinenze paterne e materne, e tutt’altro inoltre che povera, più ricca forse della di lui stessa famiglia, se oltre varii altri fatti, sappiamo quello, che alla Bianca si confiscava la dote materna nella miserabile somma di seimila ducati. Tali circostanze il padre avrà in seguito rilevato, quando per più motivi si sarà pentito del troppo rapido incauto passo.

La povera Bianca non tardava poi a disingannarsi sull’amore del consorte suo Bonaventuri, che conobbe triste e spregiatore di fede. Frattanto i di lei modi imperiosi e piacevoli, il fascino delle grazie e della facondia, avendo avuto sagace e apertissimo l’intelletto, colpirono l’animo di Francesco, figlio di Cosimo dei Medici, per tal modo che la vide egli dal proprio destino inseparabile per l’onnipotenza delle sue attrattive, e morto il Bonaventura che rimase su pubblica via pugnalato, il Granduca, già vedovato nel talamo, risolse dividere con Bianca il regno e le voluttà della vita. Per ottenerle quindi un carattere, dicevole al regale suo grado, notificava alla Repubblica le già seguite sue nozze, per celebrarle con la incoronazione di Bianca, un anno dopo il lutto per la defunta consorte, e il Senato, che negò ricisamente al Granduca di assolvere Bianca, quando era priva di titolo per meritare la grazia, e respinse più volte le inchieste fatte al Consiglio dei Dieci, a mezzo del residente toscano in Venezia e del nunzio Apostolico, secondava di buon grado l’inchiesta, quando la seppe moglie legittima, il 5 giugno 1578, e creava Bianca figliuola della Repubblica.

Ordinava anche la cancellazione di quanto era scritto a di lei carico nelle Raspe dell’Avogaria, e inoltre, per etichetta di Corte, insigniva del cavalierato della stola d’oro il padre e il fratello della Granduchessa. I quali intervennero in Firenze al solenne cerimoniale delle nozze, tra lo splendor delle quali sfavillava Bianca di bellezza, e quasi in maestà di regina, con sfarzo di gemme in monili, orecchini, collari di diamanti, e rubini, che, compresi colle gioje della corona, sommavano a due milioni di oro. Potevasi dire che allora Bianca sfoggiasse veramente l’orgoglio della bellezza e l’ambizione del regno, due passioni che le soverchiarono la mente, e la indussero ai fatti, di cui le storie veneziane e fiorentine ridondano.

Eppure qual donna sarebbe stata Bianca Cappello, se avesse coltivato le inclinazioni, di cui teneva il germe per il bene!. Fu essa infatti non disutile ai sudditi propri e alla sua Repubblica, sapendosi per esempio, che, mercè la di lei mediazione, si tolsero alcuni dispareri, per soverchie licenze delle galere toscane, tra il Granduca e il veneto Governo. Inoltre fu intelligente e magnanima proteggitrice dei letterati, che con munificenza sovvenne, e varie opere le dedicarono i primi dotti del suo tempo, come Francesco Sansovino la Venezia, un dialogo il Tasso, che la lodò nei suoi carmi, e fu da lei regalato di una coppa d’argento. Le si attribuisce anzi il gran merito in faccia al mondo, di essersi col Granduca interposta, e in ogni guisa adoperata, per impedire la profanazione della divina Gerusalemme. Godeva quindi l’estimazione degli illustri; ebbe il dono della Rosa d’oro, che le inviò Sisto V, nel 1586, e si ricorda da lei disposto il legato di mille scudi di entrata all’anno, sul monte delle Graticole ai frati di San Francesco dei Zoccoli, da ripartirsi fra i conventi della Toscana.

La bellezza pertanto e l’ingegno levarono fino al soglio Bianca Cappello, e se non le nuocevano, nella età di appena sedici anni, ben pericolosa alle impressioni, le coincidenze di certi contatti di tristi, che per lei parvero un fatalismo, e avesse potuto operare libera secondo i principi della educazione costumata, che la casa sua non neglesse, non troveremmo tanta malignità negli storici, nel pennelleggiare alcuni tratti della procellosa sua vita. Il sospetto di avvelenamento, per la morte rapida, avvenuta nella età sua di circa 39 anni, il 20 ottobre 1587, in Poggio di Cajano, è intanto dissipato dal protocollo verbale, esistente nell’Archivio di Stato di Firenze, dietro il seguito sparo della salma di Bianca. Le spoglie mortali della infelice illustre, ravvolte in un lenzuolo, si deponevano però nel Carnajo di San Lorenzo, colla sola pompa dell’accompagnamento di un numero eccessivo di torce, come abbiamo da un brano di cronaca fiorentina. E fu il cognato Ferdinando I, de Medici, cardinale, succeduto al fratello e che visse senza infamia e senza lode, il quale ordinava si spogliasse Bianca degli ornamenti granducali, e fosse esclusa dalle tombe medicee, quasi quella esclusione valesse ad abolire il fatto, io eterno indestruttibile nella storia, dell’appartenenza immediata, per strettissima parentela, dietro legittime nozze riconosciute, di Bianca Cappello, gentildonna veneziana, figliuola della serenissima Repubblica, e Gran duchessa incoronata, alla Casa dei Medici; triste atto questo del Cardinale, di lei cognato, veramente inqualificabile, che non pesando menomamente sulla memoria della Granduchessa, ridonda invece a disdoro di chi pretendeva con basso animo, vituperare un’estinta.

La fuga di Bianca da queste soglie era causa, che, tre lustri dopo, ne uscisse per sempre anche il padre colla famiglia, per trasferirsi nell’altro edificio, ben più spezioso, dei Trevisan in Canonica, che già abbiamo a suo luogo descritto. La storia però, giudice sempre inappellabile, non perdona a Bortolammeo Cappello di aver quel palazzo acquistato coi danari della figlia, il 4 ottobre, 1577, in precedenza al matrimonio, e quando anzi viveva ancora la moglie di Francesco dei Medici, ed erano tanto meno previsibili quelle nozze; non dicevole procedere, per cui in più guise egli si accorse, che lo colpiva il biasimo del Maggior Consiglio e del Senato. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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