Il corno e le vesti del Doge

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Domenico Tintoretto - Doge Giovanni Bembo dinanzi a Venezia (particolare) - Andito del Maggior Consiglio. Palazzo Ducale

Il corno e le vesti del Doge

Usavano i dogi fin dal principio abiti pomposi ed insegne onorifiche tolte dalla corte bizantina, siccome abbiamo avvertito ragionando del mosaico di San Marco, non che dai re e dai duchi barbari. Il corno o berretto che alcuni credettero derivare dal pileo dei Troiani e dei Frigi non era che una somiglianza del berretto portato dai duchi longobardi, e franchi e forse anco dai consoli ed ipati greci. Nei primissimi tempi il corno altro non era che un berretto tozzo. Variò per altro e divenne come una mitra di figura conica guarnita di velluto cremesino simile al triregno dei Pontefici; in fine si ridusse alla forma di un corno curvato al davanti della testa.

Il doge Reniero Zeno vi aggiunse un circolo d’oro in forma di diadema (1252), e Lorenzo Celsi, un secolo dopo, lo arricchì nel frontale di una croce di diamanti. Il motivo dell’introduzione di quella croce si dice essere stato perché presumendo il padre di quest’ultimo doge essere di gran lunga superiore al figlio, non soffriva di scoprirsi in faccia di lui; di che era venuto in ridicolo presso la nazione. Perché adunque non si facesse belle del padre suo, il doge pose la croce sul corno, e cosi costrinse il genitore ad un atto di dovere, se non verso il figlio, verso il segno almeno della redenzione.

Il doge Nicolò Marcello nel 1475 volle che quel corno fosse tutto d’oro e finalmente, nel secolo XVI si portò a tale ricchezza che il valore di esso montava a 150.000 ducati, custodendosi nel tesoro di San Marco, né traendosi di là che nella coronazione del doge e per la visitazione della detta chiesa di San Zaccaria. Sino dai primi tempi sotto il corno portavano i dogi un camauro di rensa di modo che al levarsi del corno rimanesse sempre il capo coperto.

Circa le vesti ducali, da poche modificazioni in fuori, rimasero sino al cadere della repubblica quali furono alla prima istituzione dei dogi. Il mosaico per noi ricordato sulla facciata della basilica di San Marco ci fece già conoscere quali esse furono anticamente. Principale era allora la sottanella di lana purpurea, né più che essa era lungo il manto superiore.

Alterandosi la forma del corno si mutarono anche le vesti. Nel 1556 si decretò che dovessero essere la veste ed il manto di velluto cremesino, tranne il venerdì santo che dovevano essere di scarlatto e guarnite di vai o di ermellino ad imitazione degli imperatori d’Oriente e dei re d’Occidente. Il manto, a somiglianza di quello del Papa e dell’imperatore, si volle in seguito più ampio, e la sottoveste ebbe le maniche larghe con lo strascico a terra.

Nicolò Marcello che, come si disse, aveva voluto d’oro il corno, d’oro pure volle tutte le vesti insieme all’ombrella, ai guanciali ed alla sedia onde era preceduto il doge nei suoi trionfi e che dapprima erano purpurei similmente che il corno. Nondimeno alcuni dogi vestirono particolarmente di altro colore. Lorenzo Celsi vestì sempre di bianco per devozione alla Beata Vergine. Michele Steno ricevette nel 1406 gli oratori di Vienna in abito bianco, ed Andrea Gritti nel 1522 fu il primo che variasse colori. Nei giorni dedicati alla Madonna vestiva d’argento, e negli altri tempi di drappi d’oro e di colori differenti. Da quel momento i dogi stabilirono l’argento per la festività di Maria Vergine e l’oro per le altre festività. In privato il doge portava soltanto la berretta rossa, la sopravveste purpurea a maniche larghe con lo strascico ed i calzari rossi. E perché il manto aveva lo strascico, al comparire del doge nelle pubbliche solennità, sostenuto esso veniva dal caudatario. In antico i dogi non portavano il bavaro di ermellini, che con le anzidette modificazioni fu pure in seguito introdotto a guisa di mozzetta e che lungo era sino alla cintura.

Purpurei calzari ebbero sempre i dogi in segno di cavalleria; ma solo che in antico portavano la spada al fianco e lo scettro in mano; dacché negli ultimi tempi veniva portata sguainata la spada da un nobile, e lo scettro si dava al capitano delle navi.

Dai consoli e dai magistrati greco-romani presero infine i principi veneziani anche l’ombrella che sempre li seguiva ed il doppiere acceso, le trombe e gli stendardi da cui, come più sopra si è detto, erano accompagnati sempre che uscissero in pubblico. (1)

(1) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia. I quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi veneziani. Vol IV (Venezia, Tommaso Fontana Tipografico Edit., 1840).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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