I caffè veneziani nel Settecento

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Alessandro Milesi (1856-1945). Il Caffè Florian. Museo Revoltella Trieste

I caffè veneziani nel Settecento

Si può andare benissimo a Milano o a Roma senza dare una capatina al Biffi o all’Aragno, ma non si può venire a Venezia senza fare un po’ di sosta al Florian (magari di sfuggita, così, tra una corsa e l’altra) e sorseggiare un caffè, a rivedere il volto di un amico caro, ad ascoltare questa gaia parlata goldoniana, che fa rivivere, nei salotti tutti stucchi e oro, attraverso un pettegolezzo più o meno benevolo, la vita veneziana d’oggi, politica, artistica, mondana. Non parliamo poi di certe serate estive, in cui tutta la migliore società cosmopolita, affluita per la season nei grandi alberghi di Venezia e del Lido, si raduna nella più bella piazza del mondo, ad ascoltare gli ormai famosi concerti bandistici .. e allora veramente il Lamberti avrebbe ragione di ripetere quello che ai suoi tempi poteva forse sembrare esagerato in rapporto all’ambiente, se pensiamo che, nei primordi, il Florian si riduceva a due modeste stanzette, senza cristalli, con un semplice lume ad olio che gettava assai poca luce sugli intabarrati frequentatori;

Florian su la sera,
Par proprio una fiera

Tuttavia non è a credere che Lamberti se pur poeta, esagerasse di troppo, abbandonandosi alla sua facile vena; poi che anche il Rossi, nei suoi manoscritti inediti che si trovano alla Marciana, ci dà un quadro altrettanto allettante di Venezia, riferendosi in particolar modo a quelli del centro. “Dalla metà del Carnevale al suo termine, a migliaia le maschere vi concorrevano: onde, per godere quello spettacolo, le donne, calcolate come civili, e le dame ancora per tempo vi si assidevano, tenendo per la maggior parte il loro tripuntato cappello e il tabarro di manto nero per indizio di maschera, quantunque nessuna di quelle maschere rimanesse, cosa che sarebbe anche riuscita insoffribile a lungo per l’eccessivo caldo che si sentiva in quei luoghi“.

E una piacevole descrizione di quello che erano i caffè settecenteschi durante il Carnevale ce l’offre anche la Gazzetta Urbana: “I caffè di Stefano, dei Mori e delle rive, che sono ridotti dei morbinosi, ricevono in folla le maschere che tornano dai teatri, ed a mezzanotte tutte le stanze sono piene. Quante persone si trovano che godono delle delizie, dove tante altre proverebbero un martirio! Ma i nostri giovinotti di buon tempo starebbero anche sulla brace che cercano avventure vorrebbero carnevale tutto l’anno“.

Ma la bottega da caffè, e le botteghe da caffè a Venezia, nella prima metà del secolo XVIII erano tante che Goldoni stesso fa dire da Cate nella sua Puta Onorata: “Oh caro fio! cafè ghe n’è tanti che i se magna un co’ l’altro“, non era soltanto un ritrovo di maschere e di gaudenti durante il carnevale, ma tutto l’anno ritrovo di habitués più o meno aristocratici e di politicanti, di letterati e di artisti, di gentildonne e di politicanti, e perfino sede di accademie letterarie, come quella dei Granelleschi, che ebbe inizio al caffè di Menegazzo a san Giuliano; e non basta: perché, come ben ricorda il Molmenti, durante l’eroica rivolta del ’48, il caffè Florian fu anche il quartier generale dei patrioti, teatralmente vestiti, con divise dai colori sgargianti e i cappelli alla Ermani e gli elmi dalle lunghe criniere.

Pagine altrettanto gloriose può vantare (è vero) anche il Caffè Quadri, così chiamato dal suo primo proprietario, il corfiota Giorgio Quadri, che l’aprì sotto le Procuratie Vecchie al principio del secolo XIX, e l’Aurora, inaugurato fin dal 1723 da Giuseppe Boduzzi a fianco del campanile di San Marco, e chiuso temporaneamente con I.R. Decreto nel settembre 1864 per aver fornito i suoi avventori di giornali non troppo in odore di santità per la regnante Casa d’Austria.

Pur tuttavia il caffè principe di Venezia resta e resterà sempre il Florian, dove ebbe larga risonanza tutti i più importanti avvenimenti politici della città prima, della nazione poi; il caffè che fu fucina di schiette coscienze patriottiche e vaglio severo di sicure fame d’artista: di dove partì il primo squillo annunziatore del grande risveglio d’arte, che doveva concretarsi nella Biennale: per dove passarono gli uomini più famosi nell’arte, nelle lettere, nella politica, nella mondanità, da Casanova ai due Gozzi, da Bayron a Goethe, da Parini a Canova, da Dumas a de Musset, da Berchet a Fusinato, da Law alla Sand, da Carrer a Zanella, da Tommaseo a Silvio Pellico. Il quale ricordava con rammarico le belle serate trascorse in lieta compagnia al simpatico caffè veneziano, nel ripassare tra gli sgherri, dinanzi a quei tavoli, per esser condotto nelle carceri di Palazzo Ducale.

E’ interessante dare una scorsa, attraverso le dotte pagine del nostro compianto Pilot, alla storia dei caffè veneziani, che per la conformazione eccezionale della città e il carattere gioviale dei suoi abitanti, tanta parte ebbero, in ogni tempo, nella vita politica, artistica, mondana della città nostra.

Sembra che la prima bottega da caffè sia sorta sotto le Procuratie Nuove nel 1683, e che incontrato il favore dei cittadini evidentemente portati ai piacevoli e salaci conversari, alle maldicenze più o meno innocua, agli intrighi amorosi, alle sieste lunghe e alle veglie più lunghe ancora, nottambuli impenitenti come son sempre stati i veneziani, tali botteghe aumentarono di numero così che nel 1759 per legge furono limitate a ben 206: tra le quali, nella sola Piazza di San Marco devono ricordarsi sotto le Procuratie Nuove, oltre a quella della Venezia Trionfante (in seguito chiamata Caffè Florian dal nome di certo Floriano Francesconi, che l’aprì circa nel 1720) quella dell’Angelo Custode, del Duca di Toscana, del Buon Genio, del Dose, dell’Imperatore, dell’Aurora,  della Fortuna, di Diana e degli Specchi: e sotto le Procuratie Vecchie quella del Re di Francia, dell’Abbondanza, di Pitt l’eroe, della Regina d’Ungheria, dell’Orfeo, del Redentore, del Coraggio, della Speranza, dell’Arco Celeste, detto poi degli Specchi.

Ma molti altri caffè, situati in altre località cittadine più o meno eccentriche, ebbero grande rinomanza a quei tempi: come il Caffè dei Mori e quello delle Rive a San Moisè, dove ora sorge il negozio Tropeani, notissimo per il soprastante Casino dei Mami, in cui solevano radunarsi vecchi patrizzi barbogi e giovani gentiluomini … non troppo di spirito: il Caffè di Stefano in Frezzaria, quello del Gobbo in Calle dei Fuseri, quello dei Secretari, il cui padrone manteneva nel retrobottega una mucca onde fornire il latte fresco ai clienti; senza parlare del Caffè di Menegazzo in Merceria San Giuliano, dove praticavano letterati di vaglia come il Baretti e i due Gozzi, e quello in Calle de le Acque, presso il ponte dei Baretteri, dove dame e gentiluomini convenivano a giocare sfrenatamente.

Perché non è detto che a caffè si andasse solo a sorseggiare il moka o la cioccolata e a sparlare del prossimo: ma piuttosto ci si andava per giocare, un tempo al faraone e alla bassetta, e in seguito al biliardo, al trucco a tavola, alla dama, alla tria, agli scacchi e perfino alla tombola, come si narra di un caffè di Casselleria, dove ogni sera si radunava una cinquantina di persone intorno a certo Giuseppe Magale, che gridava i numeri man mano che uscivano.

Ma non basta: ché la bottega da caffè era spesso, specie durante il Carnevale, buon pretesto e sede acconcia, con la moda dei camerini separati che si era venuta diffondendo, per tenere lacci amorosi di facile riuscita; fino a che non furono promulgate provvide leggi onde raffrenare la dilagante corruzione. E durante il febbraio 1745, secondo quando narrano le cronache, “girarono li fanti del Consiglio dei Dieci per ogni sestiere intimando, pena la vita, a tutti li venditori di caffè e malvasie di sradicare tutti li camerini abusivamente in quantità modernamente costruiti di tavole, in modo che non se ne veda, né se ne voi in avvenire alcuno, come cosa disdicevole e scandalosa in questa Cristianissima Dominante“.

E dobbiamo per convenire che le nostre donne di allora non erano meno assidue frequentatrici dei caffè di quello che non siano le donne d’oggi, anche se vecchie, come quella N.D. Elisabetta Gritti, che, già settantenne, dove abitava, al caffè di Gerolamo Ratti ai Santi Apostoli a sorbirsi la sua cicolata coi buzoladi d’inverno e a rinfrescarsi con la limonata d’estate. Buone vecchie abitudini che continuano ancor oggi, come può constatare chi passi ad una certa ora dinnanzi al Quadri o al Florian, dove, come esposti in vetrina, si potranno ammirare i più incalliti habitués, che il popolo chiama venezianamente foghere; vecchietti, di solito, che possono ormai rinunziare a tutto, all’amore, alla mondanità, alla buona tavola, al teatro, ma non alla bottega da caffè. (1)

(1) Guido Marta. IL GAZZETTINO ILLUSTRATO, 27 aprile 1930.

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