Chiesa e Monastero di San Daniele vulgo San Daniel

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Campo San Daniel. Luogo dove si ergeva la Chiesa di San Daniele

Chiesa dei San Daniele vulgo San Daniel. Monastero di Canonichesse Lateranensi. Chiesa demolita, Monastero secolarizzato

Storia della chiesa e del monastero

Sin dai principi della nascente città di Venezia, prima anche che il trono ducale vi fosse trasferito da Malamocco, la famiglia Bragadina fondò una chiesa ad onore del profeta San Daniele. Fatta questa soggetta alla giurisdizione del vescovado di Castello, Giovanni Polani essendo vescovo nell’anno 1138, la concesse in libero dono, con tutte le sue rendite, a Manfredo abbate Cisterciense di Fruttuaria, perché contiguo ad essa fabbricasse un monastero per abitazione dei suoi monaci, ai quali aveva nello stesso tempo Enrico Dandolo, patriarca di Grado, donato il monastero di San Giorgio del Lido Pineto, soggetto al patriarcato di Grado, constituendovi abbate un monaco di nome Daniele, che si dice sortito dalla nobile famiglia Molina. Queste donazioni fatte quasi negli stessi giorni alla religione Cistercense, e l’equivoco del nome, con cui fu confuso il titolare della veneta chiesa con l’abbate fondatore del Monastero di Pineto, causarono sentimenti diversi negli scrittori. Essi tutti però devono regolarsi alla verità dei pubblici documenti, dai quali si rileva, che la veneta chiesa di San Daniele (come si è detto) fu donata all’abbate di Fruttuaria, che vi destinò per primo abbate Leon Molino, obbligandosi esso, ed i suoi successori a dover riconoscere la chiesa Cattedrale di Castello col censo annuo di due ampolle di vino, e con altre onorificenze, fu poi merito dell’abbate Leone la fabbrica di un conveniente monastero, che, come dipendente dall’Abbazia di Fruttuaria, fu da Alessandro Papa III, nell’anno 1165, ricevuto in protezione della sede apostolica. Arrivato poi in Venezia nell’anno 1177, lo stesso pontefice, confermò con nuovo amplissimo diploma i privilegi concessi al monastero, e stabilendo che dovesse sempre restare soggetto all’Abbazia di Fruttuaria, gli confermò il possesso dei beni, che godeva, nominatamente registrandoli, e fra essi la Chiesa di San Martino di Tripoli, offerta al monastero da Arcuico vescovo di Cittanova nell’Istria; donazione, che fu poi rinnovata nell’anno 1180 da Giovanni, esso pure vescovo di Cittanova, con la condizione d un annuo censo, da offrirsi ai vescovi di Cittanova, nella solennità del martire San Pelagio.

Insorsero poi, a motivo d’eleggersi il rettore di detta Chiesa dl San Martino, controversie fra il vescovo di Cittanova Gerardo, e Orpelino priore di San Daniele, pretendendo il vescovo appartenente a se l’elezione. Perciò ridotta la cosa a giudizio, fu deciso nell’anno 1280, che dovesse il rettore, ossia abbate di San Martino di Tripoli, eleggersi dal Monastero di San Daniele, e poi presentarsi al vescovo di Cittanova, a cui fosse tenuto giurar ubbidienza. Oltre le chiese, e possessioni contenute nell’apostoliche bolle d’Alessandro III, ottennero i monaci di San Daniele dalla pietà della Famiglia Zorzani un monastero, situato nell’imperiale città di Costantinopoli, alla visita del quale trasferitosi Roaldo priore, ossia abbate di San Daniele, ebbe maniera di rapire da una chiesa, nominata Theotocos, il corpo di San Giovanni Martire, che, come scrive il Dandolo, era stato coronato martire in Cesarea di Bitinia nella persecuzione di Diocleziano imperatore. Sono incerti gli atti del martirio di questo santo. Poiché quelli, che di lui si leggono, essendo gli stessi che quelli del famoso martire San Procopio, fanno ragionevolmente dubitare, che o per impostura, o per equivoco gli siano stati irragionevolmente adattati. Comunque sia della verità di tali atti, si dimostra il merito del santo martire da una mirabile in corruzione, di cui Dio lo volle dotato, e dai frequenti miracoli, che per di lui intercessione si ottengono; La storia della traslazione fu scritta da Pietro Calozio Domenicano fra le vite dei santi, ed è questa in compendio ridotta. Acquistata dai latini nell’anno 1204 la città di Costantinopoli, i veneziani, che avevano avuto gran parte nella vittoria, ottennero ricche spoglie, e vasti poderi. Fra questi Marco e Martino della nobile famiglia Zorzani, ossia Zorzi, avendo avuto nella contingente loro parte il Monastero di Psichosostra, cioè del Salvatore dell’anime, l’offersero a Giovanni priore di San Daniele; il di cui successore Roaldo, ossia Rodaldo, uomo religioso, si portò in Costantinopoli per farne la visita. Mentre dunque ivi si tratteneva, vide un giorno un numeroso concorso di greci portarsi ad una chiesa , detta Theotocos, non molto distante, e rilevò, che ivi concorrevano per venerar il corpo del Martire San Giovanni, che ivi riposava. Desideroso dunque d’acquistare il sacro tesoro, non essendovi chi di notte custodisse la chiesa, segretamente accompagnato da un monaco, e da un sacerdote, coll’aiuto d’un servo greco, s’introdusse di notte tempo per una finestra nella chiesa, e forzata la cassa, rapi il sacro deposito, che avvolto in un candido lino segretamente ripose nel suo monastero, finché cautamente poté nell’anno 1214 trasportarlo a Venezia nella sua chiesa di San Daniele, ove per i di lui meriti opera Dio molte meraviglie . Successe poi a Roaldo nel governo del monastero Alberto priore, a di cui istanza Ugolino cardinale ostiense, legato apostolico, poi Gregorio papa IX, consacrò con pompa straordinaria la chiesa, intervenuti essendo all’ecclesiastica funzione, oltre il patriarca di Grado, altri sei vescovi, nel giorno 7 di febbraio dell’anno 1219, i quali tutti concessero indulgenze alla chiesa nuovamente consacrata.

Nell’anno susseguente alla solenne consacrazione Marco Niccola, vescovo di Castello, per contribuzione al sostentamento dei monaci, l’esemplarità dei quali si aveva meritato l’amore ed ammirazione della città, donò loro un gran tratto d’acqua e di terra, su cui vi erano due molini, con la soggezione dell’annuo censo d’ una misura d’olio, da presentarsi ai vescovi di Castello otto giorni avanti la festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo. Fu poi questo sito scelto dai monaci, coll’assenso del vescovo di Castello, e dell’abbate di Fruttuaria, alla Repubblica per la fabbrica del pubblico arsenale nell’ anno 1325 avendo avuto in compenso l’assegnazione di un’annua rendita di soldo esigibile dal pubblico erario.

Dopo questi tempi andò sensibilmente decadendo nel monastero l’antico splendore dell’osservanza, e si minorò pure a tal segno il numero dei monaci, che nell’anno 1387, non era il Monastero abitato che dal solo priore Giorgio di San Giorgio di Piemonte, uomo di perverso costume, e notoriamente scismatico. Resa nota al pontefice Urbano VI, la condizione di questo uomo, che pubblicamente professava ubbidienza a Roberto antipapa, detto Clemente VII, commise a Carlo abbate di San Giorgio Maggiore, che rilevate la delinquenza del priore, rimuovere lo dovesse dal priorato, sostituendo in di lui luogo Antonio Gallina, monaco professo nel suo monastero di San Giorgio Maggiore. Restò nell’anno 1389 eseguito il pontificio comando, e fu poi posto al possesso del priorato l’eletto Antonio, i di cui successori nel caso di vacanza furono eletti dai romani pontefici, finché al principio del XV secolo, essendo già e per la lunghezza del tempo, e per l’incuria dei priori vicino a rovinare l’antico monastero, Michele di Sebenico allora priore, conoscendosi incapace di poter risarcirne i gravi discapiti, cercò in ogni maniera d’accorrere all’imminente pericolo, e fare rifiorire nel sacro luogo col culto divino anche l’osservanza religiosa. Viveva allora in Venezia con fama di singolare virtù una donna di nome Chiara, e di famiglia Ognibene, che in compagnia di altre devote femmine serviva a Dio in ritiro dal mondo, e in continuo esercizio di buone opere, attendendo il divino beneplacito, che di loro disponesse. Con questa virtuosa donna venne dunque a contratto il priore Michele, e ad essa, con la condizione però, che dalla sede apostolica se ne ottenesse la conferma, cessò e rinunziò la chiesa ed il monastero, riservando a suo vantaggio, e disposizione le rendite tutte, che ad esso monastero erano annesse. Rassegnate per parte dei contraenti le cose stabilite al pontefice Eugenio IV, prescrisse egli nell’anno 1437, al santo vescovo di Castello Lorenzo Giustiniani, che riconosciuta la verità delle cose, dovesse nel priorato, coll’assenso della Famiglia Bragadina, che ne aveva il juspatronato, instituire un monastero di monache sotto la regola di Sant’Agostino, e coll’ abito, che allora solevano vestire le Monache di Sant’ Andrea di Girada, riservando però al priore Michele il suo titolo, con una conveniente pensione da assegnarsi sopra i beni del priorato medesimo. Esegui il santo prelato le apostoliche commissioni, e portatosi nel giorno 18 di dicembre dello stesso anno 1437 al priorato di San Daniele coll’intervento, ed assenso di Andrea Bragadino, pose in possesso della chiesa ed abitazioni adiacenti Chiara Ognibene, dichiarando ivi estinto l’ordine di San Benedetto, ed instituito quello di Sant’Agostino, riservatasi poi l’autorità di stabilire ed assegnare al priore quella annua pensione, che si credesse giusta, secondo il comando del pontefice Eugenio. Si dichiarò aggravato da tale stabilimento il priore, e nel punto stesso se ne appellò alla sede apostolica. Per cui il pontefice rimise prima la controversia all’uditor delle cause del palazzo apostolico, poi in formato più esattamente dello stato delle cose, comandò, che sospesa qualunque appellazione, dovesse il priore depositare dentro un mese il soldo necessario alla riparazione del priorato, altrimenti valer dovesse la sentenza del vescovo di Castello. Furono dirette le lettere pontificie emanate nel giorno 6 di marzo 1438, al vescovo di Recanati Tommaso Tommasini; dopo di che il priore Michele con nuovo trattato rinunziò volontariamente al priorato, salva un’annua pensione di ducati cento esigibili sulle rendite del monastero.

Nuovo privilegio poi ottennero le monache da Alessandro VI che cosi da esse pregato le dichiarò unite, e soggette alla congregazione dei Canonici Lateranensi: e Giulio II, dappoi , acciòchè fossero ai loro direttori uniformi nell’ abito, come lo erano nella regola, permise che mutare potessero il loro abito grigio nella veste bianca col rocchetto di lino, che usare sogliono i canonici regolari, ammettendole anche alla partecipazione di tutte quelle grazie e privilegi, di cui per concessioni apostoliche gode la congregazione Regolare Lateranense.

Un secolo incirca durò il monastero sotto il governo spirituale dei canonici, finché nell’anno 1604, Clemente VIII lo levò da qualunque soggezione, e cura della congregazione, lo consegnò interamente alla direzione del patriarca di Venezia, ed Alessandro VII, dappoi per maggior suo decoro nell’anno 1659. mutò l’antico titolo di priora nel più specioso d’abbadessa. Si conservano in questa chiesa nella cappella a man manca dell’altar maggiore onorevolmente disposte le seguenti reliquie: Un dito di San Giovanni Grisostomo. Porzione della mascella con un dente di San Beda monaco, detto il Venerabile. Un nodo di San Quirico fanciullo e martire, ed un articolo del dito di Santa Margherita vergine, e martire. Porzioni dell’ossa dei Santi apostoli Pietro, Paolo, Giacomo Minore, Filippo, e Mattia, e dei Santi martiri Giovanni, e Paolo, con una riguardevole parte di un osso del santo profeta titolare.

Visse in questo monastero l’ammirabile vergine suor Maria Arcangela Salvadori con tal innocenza di vita, e austerità di penitenza, che uguagliare può i più riguardevoli degli anacoreti. Nacque ella circa l’anno 1460 e prevenuta fino dall’infanzia con le celesti benedizioni, fece che le penitenze, e l’orazione fossero l’unico divertimento, in cui trattenevasi. Orava ella con fervore un giorno nella Chiesa dei Santi Giovanni e Paolo avanti l’immagine del crocifisso, quando avendo sentito la di lui voce, che l’eccitava a imitarlo, rapita in estasi vi durò per tre ore, e poscia promise con voto di conservar la sua virginità nei chiostri religiosi. Simile prodigiosa grazia le accadde pure nella Chiesa di San Francesco nell’ età di anni 15; dopo il qual tempo con una più rigida maniera di vivere fece conoscere ai suoi parenti, che ella non voleva altro sposo, che Gesù Cristo. Un sì fatto proponimento recò dispiacere ai suoi genitori, che usarono ogni sforzo per distoglierla da tutti i pensieri di vita religiosa: ma la costante vergine dopo aver tollerata per molti anni la domestica battaglia, si risolse ispirata da Dio di sottrarsi con la fuga dai più gravi pericoli, e rifuggitasi in San Daniele vi fu accolta come un angelo dalle monache, che ben conoscevano la di lei virtù. All’avviso della di lei fuga tutti si ricolmarono di dolore i suoi parenti, e la madre sorpresa da grave accidente poco dopo morì. Ma non perciò commossa la buona vergine resisté intrepida a qualunque tentativo, e vestì nel Monastero l’abito religioso di Sant’Agostino.

Invidioso di tanta intrepidezza il demonio, tentò con suggestioni prima, ed occulte insidie, e poi con terrori, e violenze di ritirarla dall’intrapresa carriera. Ma resa ella più forte dalla divina assistenza si accrebbe sempre più di fervore, ed ottenuto dalla priora dopo dieci anni di professione religiosa un angusto ritiro, ivi si chiuse solitaria, e con libertà sfogava in lagrime e sospiri quell’ardore interno dl carità che le consumava il cuore. Ma perché i continui suoi singulti riuscivano di disturbo alla quiete dell’altre monache, avvertita dall’ angelo, con la permissione dei superiori si ritirò fra le mura del campanile, ove in perpetuo digiuno di pane ed acqua dormendo stentati, e brevi sonni sopra le nude tavole, condusse per qualche tempo vittoriosa d’ogni sforzo diabolico una vita da angelo. Ma l’insidioso nemico, che né con terrori, né con le percosse, né con le interne suscitate tristezze potuto aveva vincere l’invitta costanza della vergine, si rivolse ad aperte insidie, e per la bocca di un misero indemoniato rispose ad un sacerdote, che lo esorcizzava in una chiesa di Padova, che giammai tralasciato avrebbe di affliggere quel miserabile, se prima suor Maria Arcangela non usciva dalle strettezze di quel campanile, ove erasi ritirata. Conobbe la prudente donzella l’insidiosa minaccia del nemico, né mai avrebbe perciò lasciato quel per lei delizioso carcere, senonché la priora mossa ad un’inconsiderata misericordia verso l’ossesso, la obbligò con positivo precetto ad uscirne. Ebbe con ciò principio una nuova prova della di lei virtù: poiché le monache le quali la decantavano per santa, mentre era chiusa nel campanile, uscita che ne fu la dichiararono pazza, ed illusa dal demonio, e sfuggendo dalla di lei conversazione, non le parlavano che per colmarla d’ingiurie e strapazzi. Niente però ottenne con questa nuova battaglia il demonio; poiché l’ottima vergine, che nella sua solitudine aveva saputo vincere se stessa, seppe nel consorzio degli uomini superarne le persecuzioni, e soffrirne con pace gli ingiusti trattamenti. Compensò Gesù Cristo queste afflizioni con altri invidiabili dolori. Perciò visibilmente le apparve nella notte precedente alla solennità della sua gloriosa resurrezione, e con un colpo la trafisse nel petto dalla parte sinistra, dalla qual ferita soleva poi nei giorni di venerdì, e di sabato stillare vivo sangue, quando negli altri giorni ne uscivano solo poche gocce di acqua. Finalmente macerata dalle continue penitenze, e da acerbissimi dolori con miracolo di pazienza tollerati, fu sorpresa dall’estrema sua infermità, in cui munita degli ecclesiastici sacramenti soavemente penando volò agli amplessi del suo sposo nel giorno 20 di gennaio dell’anno 1521 contando sessanta anni in circa dell’innocente sua vita.

Dimostrò Iddio, qual gloria si avesse la sua serva meritato in cielo per l’eroica sua pazienza, ad un buon monaco certosino, a cui apparve circondata di luce, e gli commise di dover annunziar alle sue Suore, che la di lei morte più che di lagrime, degna era d’allegrezza, per esser di già passata al godimento degli eterni riposi.

In simile guisa risplendente si fece vedere ad una monaca in atto di portarsi al cielo, e più volte furono veduti uscire dal di lei sepolcro chiarissimi globi di luce. Il di lei corpo fu collocato nel muro di un altare, e nell’occasione di rifabbricarsi I’altare stesso ivi scoperto nell’anno 1667 fu, per ordine del patriarca Giovanni Francesco Morosini, separatamente riposto nell’interiore oratorio del monastero con un’iscrizione incisa in marmo, che esprime il tempo della di lei morte, e dello scoprimento del suo corpo. (1)

Visita della chiesa (1733)

Nella cappella destra dell’altar maggiore vi è la tavola con la natività di Maria, di Domenico Tintoretto. La tavola dell’altar maggiore col Padre Eterno in aria, e nel piano San Daniele nel lago dei Leoni è opera bella di Pietro da Cortona, e va alla stampa. Dall’altro lato della chiesa si vede la tavola dell’Annunziata; opera degna di Luca Giordano. Segue un’altra tavola dove Cristo battezza San Giovanni martire, del Padovanino. Più avanti una tavola con Santa Catterina, che disputa tra dottori è opera rara, ma assai deteriorata del Tintoretto; altare di casa Veniera. Dalle parti di un altarino sono il coro vi sono due Sante Monache del Vivarini. Sopra il coro delle Madri il quadro lungo è del Zanchi. La tavola poi con i Santi Girolamo ed Agostino è del padre Massimo Cappuccino. L’altra tavola d’altare, che segue ove la Beata Vergine e S. Giuseppe adorano il nato Gesù, con altri Pastori adoranti è opera degna del soggetto che la dipinse, che fu il Co: Ottaviano Angarano nobile veneto, posta in luogo d’una di Domenico Tintoretto. Sopra le due porte della fondamenta vi sono due mezzelune di Francesco Pittoni, ed una ancora vicina al coro, ed un’altra sopra la porta della sacrestia rappresentanti azioni della vita di Cristo, fuorché quella sopra la sacristia, che è la sacra famiglia. (2)

Eventi più recenti

La chiesa di San Daniele, che contava opere pregiate dei Vivarini, del Varottari, di Jacopo e Domenico Tintoretto, del Giordano, e di Pietro da Cortona, nel principio del presente secolo, unitamente al convento, divenne caserma, ma nel 1839 fu del tutto demolita. Il convento è tuttora caserma dei Reali Equipaggi.(3)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ANTONIO MARIA ZANETTI. Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia ossia Rinnovazione delle Ricche Miniere di Marco Boschini (Pietro Bassaglia al segno di Salamandra – Venezia 1733)

(3) GIUSEPPE TASSINI. Edifici di Venezia. Distrutti o vòlti ad uso diverso da quello a cui furono in origine destinati. (Reale Tipografia Giovanni Cecchini. Venezia 1885).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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