Storia della Basilica di San Marco di Antonio Quadri
La grandezza e potenza delle repubbliche italiane prosperando in quella età che il sentimento religioso s’immedesimava ad ogni atto e pensiero della vita civile e intellettuale dei popoli, fu cagione che i templi di Dio fossero i monumenti ai quali gli italiani commettessero l’incarico di tramandare ai posteri l’eredità della gloria e della prosperità procacciatesi. Tutta Italia seminata è di tali fasti, e nulla può meglio dimostrare l’efficacia di molte volontà riunite ad un proposito solo, quanto i decreti per edificare il duomo di Firenze e la basilica di San Marco, per edificare la quale ultima si ordinava che fosse un tempio senza pari al mondo.
L’origine della quale basilica si confonde con l’origine di Venezia. Si dice che Narsete, visitando le nostre lagune l’anno 552, vi ergesse un tempio a San Teodoro, appresso il quale Angelo Partecipazio, tosto che l’anno 810 od 811 fu eletto doge, fece fabbricare il palazzo ducale, perché fu sempre creduto cosa opportuna ed onorevole, che il santuario della giustizia e la sede del principato si trovassero vicini al tabernacolo di Dio, per essere quello il principale attributo, questo l’emanazione della potestà e la immagine della provvidenza di lui. All’ ultimo anno della vita di Giustiniano Partecipazio, vale a dire nell’827, cominciano le notizie più certe ed autentiche intorno questa basilica. In quell’anno Buono Tribuno da Malamocco e Rustico da Torcello, ambedue persone nobili, ed allora aventi in Alessandria gran traffichi, per fuggire il castigo di aver navigato in Egitto contro gli ordini del doge, trafugarono il corpo di san Marco che si conservava in Alessandria, e con quel prezioso deposito ritornarono a Venezia: dove non solamente impetrarono perdono del fallo involontario, ma ricevettero premio ed onore. Inoltre il doge Giustiniano, principe religiosissimo, ordinò l’erezione di una chiesa per riporvi la salma tutelare, anzi ne gettò egli medesimo le fondamenta, e fabbricar fece tosto una cappella in un angolo del palazzo ducale per collocarvi frattanto il corpo dell’Evangelista, siccome fu fatto con gran pompa, per mano del vescovo Orso Eraclese, nipote di Giustiniano e figliuolo di Giovanni Partecipazio, e con gran festa del popolo, del clero e del principe. A tanto però non si tenne contento il piissimo doge Angelo Partecipazio, temendo essere (come fu l’anno seguente) sopraggiunto dalla morte innanzi che la chiesa fosse compiuta; e quindi per testamento dispose tutti i suoi beni a benefìcio della fabbrica, e lasciò a Giovanni suo fratello l’incarico di accelerarne i lavori. Si disputa se quando furono gittate le fondamenta della nuova chiesa, il tempio di San Teodoro andasse o no distrutto, o totalmente od in parte.
Secondo alcuni, non patì danno veruno, esisterebbe tuttavia, e sarebbe quello appunto di San Teodoro dove si radunava il Santo Ufficio, dimodoché malamente si crederebbe, che la basilica di San Marco occupasse il luogo della chiesetta fabbricata da Narsete.
Anzi da taluno s’aggiunge, che per la erezione della nuova chiesa, venne scelto un certo luogo chiamato il morso, appartenente alle monache di santo Zaccaria, e si ottenne da esse, mediante il tributo di un passere e di un’annua visita del doge a quella chiesa nelle feste pasquali. Non pertanto sembra vi sia ragione di credere, che la chiesa di san Teodoro fosse ruinata per ampliare quella ad onore del santo Evangelista. Gli storici parlano di un picciolo tempio che sorgea d’allato al palazzo ducale, e dicono aversi in quella occasione renduto più ampio, per ordine del doge Giustiniano Partecipazio: e perché da lato al palagio ducale non vi era altra cappella che quella di San Teodoro, come si prova col Sabellico e con altri autori, creder si può che questa cappella fosse al tutto demolita ed incorporata con quella di san Marco. Altri poi ciò danno per certa notizia, ed aggiungono, che il vescovo Orso, già nominato, fu quello che pose la prima pietra del novello edificio.
Questo fu compiuto in poco più di un anno, sotto il dogado di Giovanni Partecipazio, che attese a compiere con tutta sollecitudine la volontà del fratello Giustiniano, al quale era succeduto nella ducea; quantunque non manchino documenti che lo dicano compiuto innanzi che lo stesso Giustiniano morisse; notizia non vera, perché repugnante alle cose già narrate; ma poco prima o poco dopo che fosse compiuto il lavoro, durerebbe tuttavia la meraviglia intorno la celerità del fatto, quando non sapessimo che era questa primissima basilica, dalle esterne muraglie in fuori, tutta di tavole.
Come al doge Giustiniano appartiene la gloria di avere fondato, così a Giovanni si deve quella di avere decorato fin dalla origine sua questo tempio. Non piuttosto fornita, trasportato venne il corpo del santo Evangelista dalla cappella ducale, venne chiuso in un’arca di bronzo, e murato entro un pilastro, con non affidarne il segreto che al solo primicerio, al procuratore ed al vescovo, a cagione del l’invidia che in quei tempi regnava fra le nazioni pel possedimento delle sacre reliquie. Furono poscia ordinati i cappellani per recitare dì e notte l’ufficio, e un primicerio reggere e governare, secondo gli fosse accennalo dal doge, la chiesa, che in fine fu insignita dell’onore di cappella ducale ossia di basilica. Quei cappellani ebbero poscia il titolo di regi, e a quel tempo si riferisce ancora la creazione dei procuratori di san Marco, destinati al miglior andamento della basilica; e si aggiunse, per farne più solenne l’officiatura, buon numero di preti e di cantori. E se alcuni provarono la istituzione dei primiceri a Venezia essere mollo più antica, fu anche osservato da altri, che i primiceri anteriori alla creazione di questo non potevano appartenere che alla chiesetta di San Teodoro.
Durava questo stato di cose fino all’anno 976, nel quale accadde un tragico avvenimento, che fu cagione al palazzo ed alla chiesa ducale di un’epoca migliore. Innalzato al trono Pietro Candiano IV, quantunque, per aver congiurato contro il padre, fosse già stato esiliato a Ravenna, i vizi, l’ambizione, la crudeltà e l’orgoglio con che governava, gli concitarono contro tanto furore di popolo, che questo fece impeto col ferro e colle fiamme contro di lui, prima nel palazzo, di poi nella chiesa di San Marco, dove egli da quello era passato, ed uccisolo col figlio, ne gettarono i cadaveri alle fogne.
Narrano tutti che in quella occasione, le fiamme avventate dai sediziosi consumassero affatto o distruggessero quasi la basilica e l’annesso palagio, e più di 500 case giacenti fra lo spazio che si stendeva dalla chiesa Marciana fino a quella di Santa Maria Zobenigo.
Vi è chi asserisce avere il fuoco distrutta in quella circostanza la sola chiesa di San Teodoro, e solo danneggiata gravemente quella di San Marco e il palagio. Si recano, a confermazione di ciò, le parole del Sagomino, scrittore contemporaneo alla riedificazione della chiesa, il quale dice, che ai suoi tempi durava tuttavia il palagio fondato da Angelo Partecipazio. Siffatta osservazione però, se da un lato non è da spregiarsi, dall’altro non sembra di tal peso da poter decidere la questione. Poiché è modo comune di dire, durar tuttavia città surte ab antiquo, distrutte e poi ancor rifabbricate; durar monumenti più volte manomessi e ristorati più volte.
Quindi non sembra potersi al tutto ripudiare l’autorità del Dandolo, di Pier Giustiniano, e di quasi tutti gli scrittori, che narrano la basilica distrutta dalle fiamme; cosa facilissima a credersi, per essere stata, come si vide, costrutta in legno, salvo le principali muraglie. Ma di ciò meglio parleremo ove trattiamo del palazzo ducale.
Comunque sia di questo fatto, a Pietro Orseolo I, che poscia fu santo, si devono la prima restaurazione e il primo ornamento della chiesa di San Marco. Cicognara riporta l’autorità di una cronaca, nella quale si racconta, che, fin dal suo tempo, Giustiniano Partecipazio, nella fabbrica della basilica: fesse metter tutte le fiere, e tutte le colonne marmoree che esso za aveva portade de Sicilia, e ne deduce, che fin da quel tempo si usasse costruire con un misto di materiali: ma questo fatto, se pur è vero (non potendosi giudicare dell’ autorità di una cronaca, della quale Cicognara non ci dà nessuna cognizione, se non degli errori che appariscono in essa), non si potrebbe tutto al più che riferire ai tempi di Pietro Orseolo I, perché Giustiniano e Giovanni Partecipazio poterono essere iti in Sicilia bensì (sebben sappiamo che il primo fu a Costantinopoli come ambasciatore, il secondo a Zara e poscia in Italia come esule), ma è certo che essi non fabbricarono la chiesa né di marmo, né di pietra, ma di legno, come è dimostrato dalla rapidità della sua costruzione: e che il doge Pietro Orseolo I fu il primo a decorarla di marmi, dimodoché può essere chiamato il terzo fondatore. Il santo doge volle pur egli consacrate a questo edificio le proprie ricchezze; ordinò che la pianta ne fosse più ampia e più magnifica, chiamò architetti da Costantinopoli e da tutta Italia, e fu allora che avvenne la miracolosa invenzione del corpo di san Marco, quantunque non manchino alcuni che neghino il fatto; dicendo salvate pria dell’incendio le preziose reliquie, e qui riposte dopo la riedificazione del tempio.
Il santo Pietro Orseolo non vide la fine dell’edificio, perché occultamente passò monaco in Aquitania, né lo videro i suoi successori che molto tardi. Sappiamo che l’anno 1043, sotto il dogato di Domenico Contarmi, la chiesa cominciò ad essere ridotta nella guisa che di presente si vede, e ciò deve intendersi di puro restauro non di mutazione di modello, dicendo anzi lo Stringa, che in tal anno si era perfezionato per quello appartiene a sole pietre cotte e mattoni.
Ma il vero lustro della stupenda basilica incomincia dall’anno 1071, nel quale il doge Domenico Selvo pose mano a farla incrostare di marmi preziosi e di ammirabili mosaici, talché questo principe merita d’esser chiamato quarto ed ultimo fondatore, e l’anno 1071 può venire assegnato a compimento della fabbrica. La cronaca citata dal Cicognara, dice, che: «Domenego Selvo doxe XXXI comenzò a far lavorar de mosaico la Gesia de San Marco e mandò in diverse parte per trovar malmori, e altre honorevol piere e mistri, per far cossi grand’ovra e maravigliosa, in coIona de piera, che in prima gicra de pare, zoè de legname, come apar ancuò in dì.» (Cronaca questa che in qualche modo contraddirebbe alla prima pur riportata da Cicognara, come vedemmo). La facilità di aver tante pietre preziose venne dalla estesa navigazione che avevano i Veneziani, per via della quale, andando le navi o galee nostre nelle parti di Levante, se le procacciavano, o dalle cave, o traendole dalle ruine di molle fabbriche illustri, ancora a quel tempo superstiti. Anzi fu allora statuito, che niuno legno potesse tornar di Levante, senza portare seco marmi o pietre fine per lo abbellimento della basilica. Una iscrizione descrive, con barbaro latino, queste ricchezze nel modo seguente:
Istoriis, auro, forma, specie tabularum Hoc templum Marci fore die decus Ecclesiarum.
Un’ altra, non meno barbara, che i secoli cancellarono dal vestibolo, ma conservata dagli storici, ricorda l’epoca nella quale fu compiuto l’edificio:
Anno milleno transacto bisque triceno Desuper undecimo fuit facta primo.
Quanto al tempo della sua consacrazione, gli autori sono discordi: alcuni la riportano al 1083, altri al 1084, altri al 1094, sotto il dogado di Vitale Falier, nello sfesso dì che il corpo di san Marco fu occultato sotto la mensa dell’altar maggiore: altri, finalmente, la protraggono fino all’anno 1111.
La basilica di San Marco, essendo il luogo dove si adorava la divinità, si trattavano gli affari del comune, si deliberava della guerra e della pace e si ricevevano gli ambasciatori, divenne scuola, museo e galleria nazionale; il che spiega la stranezza, la diversità e l’infinità degli ornamenti di ogni genere, di ogni rito, di ogni costume, di ogni tempo in essa collocati, e che porgerebbero ottimo argomento alle disquisizioni degli artisti, degli antiquari, degli storici e dei litologi i più chiari.
I fatti in alto narrati bastano pertanto a provare essere falso, secondo alcuni scrittori, che i ricchi materiali componenti questo meraviglioso monumento, procedessero dalla presa e dal sacco di Costantinopoli, accaduti tanti anni dopo; intorno a che conviene osservare, che le colonne che si ammirano in essa, sono bensì preziosissime per la qualità del marmo, ma di troppo breve dimensione per credere che la città di Costantinopoli non ne potesse somministrare di mole maggiore. Finalmente, quantunque fossero chiamali ad aiutare I’opera i maestri bizantini, è certo che gli italiani, appresso i quali non era mai perito il lume delle arti, ed i nostri, che, in queste inviolate lagune, ne poterono conservare il retaggio, non solo vi lavorarono promiscuamente coi Greci, ma vi fecero le più insigni prove d’ingegno. Dopo quest’ultimo tempo, soggiacque la basilica a quattro incendi, vale a dire, a quelli del 1106 e del 1230, che distrussero tutti i diplomi ducali che si conservavano nel suo tesoro; e agli altri nel 1419 e 1429, che arsero per caso nelle soffitte, e diedero motivo alla rinnovazione dei musaici e delle cupole. Ciò è quanto ci narrano le storie intorno la fabbrica di questa basilica. Della quale chi sia stato l’architetto s’ignora, tacendolo le cronache nostre, né potendosi da esse argomentare nemmeno se fosse greco o italiano. La bellezza e la unità di pensiero nella ben distribuita sua pianta, attestano però il valore di lui.
Si giudicherebbe, a primo vederne il disegno, che l’inventore fosse stato educato alle più severe dottrine della solidità e del buon gusto; ed ove mente si ponga alla regolarità, alle giuste proporzioni, all’utile impiego dello spazio, si crederebbe il sontuoso edificio opera di miglior secolo, e d’ingegno non ottenebrato dalla nebbia che tutte avvolgeva le arti italiane intorno al mille. Lo stile però, non obbligato ad alcun ordine, e nel suo insieme partecipe di tutti, è di maniera greca, con qualche parte di arabo e di gotico. Vuolsi riconoscere in essa fabbrica uno stile non decaduto e corrotto, ma si piuttosto discostato dall’ araba derivazione, proprio dell’Italia universa in quei secoli, e qui specialmente al greco inchinantesi per le immediate relazioni, che i Veneziani avevano coll’Oriente, e sì per la varia natura dei materiali impiegali, che servirono altra volta a greci edifici, come notammo. Vi si contano, fra gli ornamenti esterni ed interni, da ben cinquecento colonne di porfido, verde antico, serpentino, cipolino, rosso antico, ecc.; e tutto ciò non è bronzo, sculte immagini, oro, ornamenti intagliali, è marmo eletto orientale.
La lunghezza della pianta, presa dalla porta maggiore al presbiterio, è veneti piedi 220, pari a metri 76,50; la larghezza, tolta alla crociera, di piedi 180, o metri 62,60, e il circuito di piedi 950 circa, ovvero metri 350,50. (1)
(1) ANTONIO QUADRI. Venezia e le sue lagune Vol II. (VENEZIA, 1847 Sabilimento Antonelli).
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