Galea da mercanzia o galeazza grossa

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Coronelli Vincenzo - Galea del Doge Morosini - da Internetculturale.it

Galea da mercanzia o galeazza grossa

Che è la vera trireme veneziana.

Di tale sorta di legno, da alcuni paragonato all’antico Dromone, vi sono memorie fino dal 1358, taluno però li vorrebbe fabbricato la prima volta nel 1429 si usava anco nel 1533 e venne dimesso nel 1645, al dire del Coronelli, che in tale anno vide le due ultime abbandonate nell’arsenale. Vi è chi assegna la costruzione della Galeazza Veneziana da Mercanzia all’anno 1470, e ne dà lode d’inventore a certo Crescenzio, ma ogni argomento tende a provare che l’opera di questo Crescenzio, si sia limitata ad una semplice modificazione.

Coloro che hanno creduto non diversificare la Galeazza dall’antico Dromone, assegnarono a quella la supposta lunghezza di questo, cioè piedi 175; ma per ciò asserire manca ogni documento; bensì con decreto 30 marzo 1520, il veneto Senato prescrisse che le galere grosse aver dovessero la lunghezza di passi 26.172, cioè di veneti piedi 132.6, ma in seguito essendosi riconosciuto che riuscivano pericolose, nacque altro decreto, in data primo marzo 1549 con cui le dimensioni di tali navigli rimasero fissate in lunghezza di passa 27.172 pari a veneti piedi 137.6 da ruoda a ruoda; in bocca piedi 23. Puntale ovvero altezza piedi 9; ad esempio delle greche portavano due e forse tre alberi verticali, come probabilmente le galere grosse del XIV secolo, a differenza delle antichissime galee, le quali non ne avevano che un solo. Le loro vele, secondo alcuni, erano solamente due, la mezzana, cioè, ed il papafigo; né sarebbe fuor di ragione il credere che usassero di una terza vela di nome Artimon, e forse anche di una quarta detta Cokina, dai più antichi nostri conosciuta, quale per avventura somigliava alla odierna vela di contromezzana.

La Repubblica pietosamente liberale dimostrava spesso gli effetti della pubblica munificenza in vantaggio delle povere corporazioni religiose: leggiamo nei codici molte donazioni di vecchi bastimenti, e dal decreto 5 febbraio 1403, si rileva che alli frati di San Giobbe, venne data una galia grossa de quele che sono alla maza , (da demolire) perché col ricavato del legname e della ferramenta provedessero alle loro esigenze.

Il ricordato Pietro Martire, da Spagnoli monarchi spedito ambasciatore ai Veneziani ed al Soldano del Cairo, tragittò, come si è detto, da Venezia in Alessandria su di una Galea grossa, e siccome gli si aveva ordinato di scrivere puntualmente e registrare quelle cose che egli credesse degne di conto, così molto volle internarsi nei particolari del Veneziano Arsenale, per quanto poté essergli permesso nella breve visita di una sola giornata, affaticandosi in ricerche, e raccogliendo verbali informazioni, e più ancor disse riguardo al naviglio su cui ebbe a passare in Egitto, onde, ciò che in tale proposito ci ha egli lasciato, sembra, e per la franchezza del dire, e per la sincerità della esposizione, esser meritevole di ogni nostra fiducia.

La Galea grossa o Galeazza non diversificava dalla più antica Galera grossa, che nella grandezza e nella quantità e distribuzione dei remi era questo legno giudicato robusto, e sicuro per resistere alle vicende del mare; lo si fabbricava nell’Arsenale a spese della Repubblica, e proclamato un concorso, si affittava, previo riconosciuta idoneità, al maggior offerente che esser doveva patrizio. La galea allora si distingueva col nome famigliare del patrizio medesimo, fino che durava il viaggio.

Il carico ossia la portata era di mila botti, delle quali cinquecento si collocavano al dissotto ed altrettante sopra coperta: ogni botte pesava libbre mila, e perciò la sola mercanzia ascendeva al peso di 500 Tonnellate, stando al costume dei nostri tempi.

L’equipaggio di questo legno mercantile era forte di quasi 200 uomini, tre quarti dei quali servivano alla manovra delle vele, ed a quella dei remi, il restante si occupava nella interna amministrazione, e del le cure di negozio; il doge Tommaso Mocenigo fa ascendere l’intera ciurma a 300 persone, vi erano i falegnami, i calafatti, i balestrieri, gli arcieri, i bombardieri, ed altri molti, lo che ci dà a conoscere che il naviglio era anco provveduto dei necessari mezzi di difesa, e quindi la Galeazza da mercanzia o Galea grossa, è stato il primo naviglio da commercio costruito sulle forme, e coi requisiti dei legni da guerra, essendosi altrove osservato che, quasi per sistema, trattene le galere da mercanzia del XIII secolo, i legni da carico e da trasporto, come appunto sono quelli di commercio, erano della specie dei Rotondi ed a vele, a differenza degli altri navigli da guerra, la cui figura era lunga, bassa e quasi sempre viaggiavano col palamento.

Ciò che di singolare e degno di rimarco si legge nella relazione del Martire, e ciò che a noi deve renderla interessante e preziosa, sta nel rilevarsi, con evidente chiarezza, che la Galea grossa o Galeazza da mercanzia, era veramente la Trireme Veneziana.

Questa osservazione, per l’avanti negletta, che a guisa di fiaccola, sembra poter rischiarare una parte almeno delle tenebre in cui ci hanno lasciato gli antichi nostri in proposito al meccanismo impiegato nei navigli a più ordini di remi, e che serve anche a porgere qualche indizio per rettificare le idee, ed i sistemi da tanti autori variamente immaginati, nello scopo di conciliare la solidità del legno, l’impiego dei rematori, e singolarmente la disposizione dei ranghi; questo indizio, dissi, bisognerebbe di qualche maggiore illustrazione, massime se si volesse estenderlo a più remote applicazioni; ma incarico tale non ista nelle mie forze, e quindi mi limiterò ad accennar solamente ciò che risulta dalle relazioni di esso ambasciatore, e dall’opera m. s. di Cristoforo Canal, in cui si trovano ampi argomenti di confronto e di reciproca conferma, per determinar francamente qual fosse il meccanismo dei navigli Veneziani, che il prestigio del nome ha fin or fatti credere a molti ranghi di remi.

Dopo calcolate tutte le circostanze, e fatte le considerazioni che le summentovate opere mi han suggerito, e dopo avermi convinto intimamente sull’antico sistema de legni Veneziani Poliremi, ho trovato che il chiarissimo Luigi Bossi, in una erudita nota all’elogio storico da lui fatto a Gio. Rinaldo Carli pag. 124, mi aveva in qualche modo prevenuto, laddove parla della Quinquereme di Vettor Fausto, ma con semplice suspicione, senza però determinarsi di concreto; laonde avendo io amato di ben entro penetrare a questo argomento, esporrò le mie osservazioni, e produrrò quello che mi pare dover concludere intorno allo esposto interessante problema.

E continuando col riferire le indicazioni del Martire osserveremo, che da quelle parole: ogni galea grossa ha bisogno quasi di dugento huomini pagati al suo servitio, cento et cinquanta si consegnano alla vela et ai remi perché ciascuna va giusto con tanti remi: sembra poter dedurre che tale naviglio portasse appunto 15o remi, cioè 5o più che alcune galere del XIV secolo, lo che per altro non si combina con quanto riferisce Marino Sanudo, il quale assegna alle galee grosse, al più cento remi, e dal mettere pari il numero degli uomini a quello dei remi, con l’assistenza però di dodeci giovani che si chiamavano compagni d’albero è pure da ritenere che ad ogni remo un rematore solo fosse assegnato. Né questo raziocinio è privo di appoggio, che anzi nella più volte citata opera m. s. di Cristoforo Canale, si trova come anco alle galee da guerra del XVI secolo, un solo uomo si applicava a cadaun remo. Era poi la Galeazza vera trireme, se per testimonianza di esso ambasciatore li remi stavano a tre per ogni banco.

Quand’anche non vi fossero questi indizi, e mancassero gli esposti confronti, basterebbero pochi, e brevi riflessi per assicurarsi che la Galeazza o Galea grossa, su cui nel 1501 Pietro Martire d’Anghiera viaggiò da Venezia in Egitto, era una Trireme, e che in questa trireme Veneziana i remi non erano distribuiti in tre ranghi, uno all’altro sovrapposti, ma piuttosto erano tre remi associati per cadaun scalino o portello, in una sola fila, metà per lato del naviglio.

Difatti se questi remi fossero stati distinti in tre diversi ranghi, non avrebbe bastato dar all’altezza della galea li 9 piedi di puntale che abbiamo riscontrati di sopra, né si sarebbe fatta menzione di un sol ponte o coperta, e della ripartizione del carico metà sotto, e metà sopra essa coperta, cioè in sito esposto alle vicende del cielo e soggetto a quelle del mare, ma si avrebbero nominati due ponti e la coperta, e quindi ammessa una tale ipotesi, la maggior altezza del naviglio lasciava luogo a comodamente ricoverare l’intero carico pel maggior numero dei ponti stessi, e per la più ampia lunghezza della sezione.

Dal fin qui detto ne deriva per conseguenza che i legni Veneziani non assumevano il nome di triremi, quadriremi, quinqueremi, perché avessero tanti ranghi di remi, uno all’altro sovrapposti, ma invece perché avevano tre, quattro o cinque remi ad ogni banco.

Quanto ricorda Pietro Martire, e ciò che si conferma con l’autorità di Cristoforo Canale, il qual ci ha lasciato un disegno di galea a tre ordini di remi, venne anco ripetuto vari anni dopo da Lazzaro Baifio il quale nell’opera De re navali veterum c. 47, nominando le Fuste Veneziane, disse che esse dalla estremità di poppa fino all’albero, portavano i remi a due a due, e semplici per il restante fino alla prua, la qual cosa è confermala anche dal nostro enciclopedico frate Coronelli, sul proposito stesso delle Fuste, ricordando che dal 1498 al 157© le si chiamavano biremi, ed anche triremi, secondo, che avevano due o più remi per ogni banco; si sa che la Fusta era naviglio di non grande dimensione in confronto delle altre specie di galee, come dunque avrebbe potuto avere due o tre ranghi di remi uno all’altro sovrapposti?

A questo punto ha luogo una ragionevole ricerca, ed è per qual ragione invece di distribuire i remi regolarmente su d’una linea continua lungo i lati della galea, si combinassero piuttosto ai due ed a tre per banco, mentre sembra che colla prima ripartizione, un minor spazio di bordo avrebbe bastato per un maggior numero di remi.

Ma se si faccia senno di quanto andrò dicendo, e qualora si ammetta, per invariabile principio, che un solo uomo manovrasse un remo, si troverà che la distribuzione di due, tre e più remi per ogni scalmo, o di tanti rematori per banco, era la misura più opportuna, la più consigliata , e la più efficace, che il calcolo e l’esperienza potessero suggerire.

Per restar convinti di tal verità bisogna farsi un idea dei remi, della figura dei banchi, e della manovra di quelli. Cristoforo Canale ci ha lasciati anco i nomi marinareschi comuni ai remi ed ai rematori. I remi erano di tre lunghezze: il più lungo che si diceva piamero era manovrato da colui che si stava verso il centro della galea: a questi succedeva il remo di mezzo, che si chiamava Posticcio, quindi il più corto detto Terlicchio, il quale era condotto da quegli che più vicino al bordo sedevasi. Ecco in qualche modo una immagine degli antichi Traniti, Zigiti, e Talamiti; difatti queste tre gerarchie di rematori, più e meno agivano, e con forza e con movimenti proporzionali alla lunghezza del remo ed alla loro distanza dal bordo.

Li banchi o sedili erano di pianta angolare, oppure erano divisi in tre parti, fra loro poste a riseghe, cioè presso al bordo, per una terza parte perpendicolari al lato stesso della galea, e per gli altri due terzi avvanzati ed inclinati verso poppa. Questa inclinazione era determinata da quella del remo Piamero, quando prendeva la voga, onde restava anche precisata la distanza necessaria da un banco all’altro perchè rimanesse lo spazio occorrente alla libera manovra di esso Piamero, il cui manubrio passava al posto del galeotto Posticcio davanti, mentre il Posticcio occupava in quell’istante, il sito del rematore Terlicchio, e questi finalmente si spingeva verso il Terlicchio del banco, che seguitava, conservando sempre il paralellismo delle aste fra loro.

Altro vantaggio contemplato in tale interpolata distribuzione di remi, era quello di lasciar campo fra uno scalmo e l’altro al silo delle balestre, le quali ivi si collocavano e si facevano agire, per lo che anzi si chiamava Balestriera lo spazio di bordo, tra il remo Terlicchio di un banco, ed il remo, Piamero dell’altro, onde sempre più si giustifica il ripiego di far perpendicolare al bordo il sedile o la porzione del banco su cui riposava il rematore Terlicchio, poiché senza l’oggetto di ottenere il maggior possibile campo, si avrebbe disposto anche questo sedile in direzione obbliqua, come quelli degli altri due rematori, ma da tale industrioso e ben calcolato comparto ne derivava che la galeazza, non solamente era formidabile alla fronte di prua, su cui stavano i più efficaci mezzi di difesa, ma li due bordi ancora rimanevano custoditi, ed in ogni loro parte difesi perché chiari appariscano gli effetti del meccanismo che ho descritto, pensai delineare in piccolo disegnetto questa manovra, e di rappresentare la posizione dei remi, tanto in istato di quiete, come in quella di movimento.

Al principio di questo articolo ho indicalo la mancanza di ogni documento per cui provare che la Galeazza da mercanzia del XV secolo avesse 175 piedi di lunghezza, come vari scrittori ebbero a supporre. Procurerò adesso di riavvicinare le opinioni, e porgere qualche maggiore dilucidazione su di tale proposito, seguendo in ciò le pratiche di Giuliano de Fazio, e quindi, ritenuto il numero di 15o remi, distribuiti metà per bordo del naviglio, secondo la testimonianza di Pietro Martire, si hanno 25 banchi per lato da tre remi per cadauno, ai quali remi assegnando la distanza tra loro di un piede di scalino, misura sufficiente alla libera manovra, ove si rifletta alla disposizione angolare dei banchi, si avranno, piedi 75 di lunghezza, alla quale aggiungendosi altri piedi 72 che rappresentano li 24 interscalmi, luogo delle balestriere, cui si danno piedi 3 per cadauna, risulta una lunghezza di piedi 147, in guisa che rimangono ancora piedi 28 per giungere alla supposta misura di piedi 175, che tanti appunto abbisognano prossimamente per le due estremità, o loggiamenti di poppa e di prua.

Anche sulle lunghezze dei remi, varie erano le opinioni dei nostri padri; alcuni reputavano che i tre remi aver dovessero la medesima lunghezza nella parte fuori del bordo, ed altri, fra quali Alessandro Contarini Procuratore, amico del Canal, che fosse da preferirsi il sistema, in cui la stessa lunghezza esteriore fosse disuguale. Ma questi sono punti di controversia che poco fanno al proposito nostro, onde alla lettura dell’opera di Cristoforo Canale si rimetton coloro che maggiormente volessero saperne.

A maggiore illustrazione giova osservare che li dodici giovani, che si chiamavano compagni d’albero, e dei quali sopra è fatto cenno, questi erano destinati a soccorrere coloro, fra i remiganti, che per qualche eventualità non potessero secondare la simultanea evoluzione, per certo necessaria nel maneggio dei remi, e quindi servivano, e come soldati in aiuto degli altri nell’esercizio delle balestre, e quali marinai sugli alberi e sulle sarte, lorquando il naviglio viaggiava col solo impiego delle vele.

Da quanto aggiunge il ripetuto ambasciatore, siamo assicurati altresì che le Galee grosse o Galeazze di mercanzia, attesa la loro grandezza poco si servivano della voga, e quel poco solamente in tempo di calma, o per uscire o per pigliar porto, ovvero per girare di bordo, ciocché appunto concorre a sempre più confermare che la difficoltà di maneggiare i remi, faceva che se ne fuggissero le occasioni a fronte della semplicità, adottata di remi poco lunghi, combinati a due ed a tre sopra un medesimo scalmo.

E per non lasciar infeconde le fatte ricerche, d’uopo è considerare, che l’assodamento di più remi in un solo scalmo, o portello, minorava il bisogno di soverchia lunghezza del bastimento, altro ostacolo che sin ora sembra aver poco influito a moderare le congetture di tanti eruditi, certo essendo che quanto più è lungo un naviglio, tanto maggiori si oppongono le difficoltà per contenerlo possibilmente elevato agli estremi, solita difetto anco degli odierni legni da guerra, per quali appena efficaci si trovano i ripieghi suggeriti dalla esperienza, dal calcolo, e dalla pratica per mantenere la chiglia o colomba in istato di prossima orizzontalità.

Né minor riflesso merita il sistema delle antiche Galee o Galeazze, quando si consideri, che diversamente congetturando, ed ammettendo l’ipotesi di remi sovrapposti a più ranghi, allora, oltre alla improprietà di remi di strana lunghezza incomodi, pesanti e difficilissimi al maneggio, per isporgerli sullo scalmo e per ritirarli entro il bordo, oltre alla difficoltà della manovra ed il bisogno di molto maggior numero di remiganti, oltre alla difficoltà di conciliare la distribuzione di tanti uomini, oltre all’assurdo di poter combinare la lunghezza e la inclinazione variabile del manubrio dei remi, coll’altezza costante dell’uomo, quand’anche si fosse data alli ponti una rapida pendenza verso l’esterno, o fatti dei gradini al suolo, ed applicate delle appendici o maniccie paralelle alla parte superiore dell’asta, oltre alla impossibilità di combinare il simultaneo ed equabile movimento di coloro che stavano presso allo scalmo con gli altri che più erano discosti, a fronte dei suoni e dei canti che si costumavano per determinare il tempo e la misura della voga, oltre alla compromessa stabilità del naviglio, posta ad evidente pericolo dalla sproporzionata altezza della parte emergente in confronto della parte immersa, qualunque potesse essere la quantità e la distribuzione della zavorra; oltre tutto questo, sussisteva l’altro non meno riflessibile ostacolo, quello cioè che tanti fori nella corteccia del naviglio, tante aperture da ogni lato, fatte una all’altra perpendicolari, ovvero disposte a scacchiere, fossero i bordi sporgenti verso l’esterno del naviglio, o fossero entranti, tutte queste aperture, alternate o combinate, tutti questi ranghi sovrapposti, richiedevano un’altezza strana di puntale, oltre una soverchia larghezza, od apertura di bocca, dalle quali cose ne sarebbe derivato lo slegamento del naviglio, prodotto dall’eccessivo peso laterale, e dalla impossibilità di garantire la sussistenza dei bordi, o delle così dette opere morte, con quei legnami trasversali che li costruttori di navi a Venezia, chiamano sbaggi, e che appunto servono a frenare li due bordi onde non declinino verso la parte esteriore del vascello, o non tendano a rientrare, stanteché la estraordinaria lunghezza di tali sbaggi, richiedeva a sostegno un numero di punte verticali, inconciliabili affatto, con la interna disposizione del legno, molte delle quali avrebbero riposalo sopra parti non solide, con sempre maggior danno dell’afflitta carena.

Ecco dunque, se mal non si scorge, offerto un lume per spiegare il meccanismo di alcuni navigli dell’antichità, fra quelli che si distinguevano per la quantità dei remi. È vero che con lo sistema delle galeazze Veneziane del XV secolo non si può giungere alla spiegazione dei singolari navigli di Demetrio Poliorcete, di Tolomeo Filopatore, e di Lerone Siracusano, l’uno credulo a sedici ranghi di remi, il secondo a quaranta, e l’ultimo a venti; ma rispettando le autorità di Plutarco, di Calixene, di Ateneo, e del men antico Pigafetta nelle di lui annotazioni al decimo nono libro della Ordinanza militare di Leone Imperatore, ove nomina vascelli anco a cinquanta ordini di remi, sarà permesso osservare che moli così immense, come cel vorrebbero far supporre le loro descrizioni, lunghe perfino 462 ed anche 660 piedi, sopra altri piedi G2.112 di larghezza, ed alle piedi 79, con remi di 62 piedi e 172, munite di torri, di recinti, con un equipaggio ed una guarnigione di quasi 9000 persone, erano macchine fatte per boria, piuttosto stazionarie che attive, od almeno difficoltosissime da esser mosse tarde e lente alla manovra ed all’evoluzioni di mare, in mezzo a cui restar dovevano quasi scogli, perché prive di vele, e soggette appunto per la loro mole, ad esser arrestate nel cammino dagli scontri del vento, e dagli urti del mar procelloso. Difatti nessuna storia fa menzione o d’imprese, o di spedizioni operate a mezzo di tali navigli, ed anzi li medesimi scrittori ci documentano che la nave, fatta, costruire dal ripetuto Tolomeo, per navigare sul Nilo, e che si appellava Talamega, lunga appunto G60 piedi, era piuttosto un palazzo galleggiante anziché un naviglio.

In quanto poi alle Galeazze mercantili del XVII secolo, troviamo ampia informazione nell’Atlante del Coronelli pag. 141, che ne dà anche un disegno prospettico, ma di quelle da guerra. La loro costruzione era affatto differente dalle antiche che abbiamo descritte, ed anche il sistema dei remi era in tutto diverso, che, non già distribuiti a tre per banco, ma invece disposti in serie continuata, lungo i due bordi giacevano. Dallo storico Viannoli sappiamo che fino dal 1417 parecchie Galeazze viaggiavano annualmente per varie scale commerciali. 11 Coronelli, che abbiam nominato, asserisce conservarsi ancora il registro di tutti li capitani che dal 1424 al 1508 le hanno comandate; aggiunge che negli ultimi tempi, il governo loro si affidava, non più ad un nobile, come era anticamente prescritto, ma ad un mercadante od altro individuo che ne prendeva il partito: offre in appresso le dimensioni, e dice che lunghe erano da piedi veneziani 135 a 140, larghe nel vivo piedi 23, alte in puntale piedi 8, ampiezza nel fondo piedi 13, e di telaro piedi 13; indica che portavano 35 remi, cadauno lungo 35 piedi, e soprattutto poi riferisce la notabilissima circostanza, che questi remi erano lateralmente disposti, nella sola metà del naviglio verso prora, restando l’altra metà di poppa sgombra a comodo delle merci. Ogni remo era manovrato da quattro uomini; gli alberi erano tre di nome trinchetto, mezzana, maestro, il trinchetto solo con vela quadra, gli altri due spiegavano vele latine. L’artiglieria consisteva in due falconi del calibro da 6 con l2 o 14 petriere da 14. L’equipaggio poi era comporto di 186 persone. Le galee grosse o galeazze del XVII secolo non erano dunque triremi. (1)

(1) GIOVANNI CASONI. Dei Navigli poliremi usati nella marina degli antichi veneziani – Ateneo Veneto 1838

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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