Pietro Grimani. Doge CXV. – Anni 1741-1752

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Sala dello Scrutinio. Francesco Salvatore Fontebasso. Ritratto di Pietro Grimani

Pietro Grimani. Doge CXV. — Anni 1741-1752 (a)

Il dì 30 giugno 1741 veniva chiamato al trono ducale il cavaliere e procurator di sier Marco Pietro Grimani, uomo non solo resosi benemerito della patria per molti ed utili servigi prestati, ma anche degnissimo per la sua sapienza ed erudizione profonda. Egli aveva avuti a competitori il cavaliere e procurator di San Marco Barbon Morosini, ed il procuratore Nicolò Veniero.

La morte dell’imperatore Carlo VI, accaduta il 20 ottobre 1740, poneva in grande trambusto l’Europa per la successione a quel trono; poiché Carlo non lasciava che un’unica figlia, la celebre Maria Teresa, maritata a Francesco di Lorena, gran duca di Toscana. La Francia, principalmente, poi Carlo elettore di Baviera, Filippo V re di Spagna, Federico re di Prussia, Augusto III di Sassonia re di Polonia, infine il re di Sardegna, tutti, o per l’uno o per l’altro movente, desideravano lo smembramento di casa d’Austria; tutti agognavano di allargare, per vantati diritti, i loro Stati.

Un trattato, conchiuso, il 18 maggio 1741, fra i detti principi, mirava a spossessare Maria Teresa, e ridurre a brevissimi limiti i domini austriaci.  La guerra quindi si rompeva in Germania ed in Italia; ma la Repubblica, ferma nel suo sistema di neutralità armata, non diede ascolto, anche questa volta, alle proposte fattele, quando da una e quando dall’altra parte, dichiarando a tutti di non volere immischiarsi nelle loro contese.

A meglio provvedere alla sicurezza dei propri Stati pose in piedi un’armata di osservazione di ventiquattro mila uomini, retta dal provveditor generale Angelo Emo e dal provveditore straordinario Jacopo Boldù; e questa fece distribuire sulle rive dell’Adige e sulle frontiere; concedendo però alle parti belligeranti di poter liberamente approvvigionarsi nelle terre veneziane, a condizione di soddisfare subitamente a giusto prezzo le tolte derrate.

Per questo modo, nel mentre tutta Europa era allagata di armi e di sangue, Venezia sola godeva profonda pace, fino a che il trattato segnato in Aquisgrana, nel 1748, pose a termine le lunghe lotte, e regolò sopra un nuovo piano gli Stati dei principi contendenti.

Ed appunto per aversi astenuto dalle armi poté la Repubblica sostenersi in grande reputazione all’ esterno; regolare, con utili ordinamenti, l’interna sua amministrazione; e così porre in grado i cittadini di abbellire vieppiù con nuove fabbriche la dominante.

All’esterno operava prima, nel 1742, con l’Inghilterra affinché fossero riannodate le relazioni interrotte a cagione delle onorificenze fatte al figlio del pretendente Carlo Eduardo Stuard, quando, sotto il nome di conte d’ Albany, era venuto a Venezia: stringeva poscia trattato di alleanza col papa, col re delle Due Sicilie, con Genova, con Malta, a cui aderì anche il re di Spagna, onde purgare il Mediterraneo dai pirati, e massime da quelli di Algeri e di Tunisi: passava di buon accordo con la Prussia, con la Germania, con la Danimarca, con la Polonia e con la Russia; ma specialmente vive erano e frequenti le sue trattazioni con la corte di Vienna. La contesa insorta, fin dal 1734, intorno alla giurisdizione del patriarca di Aquileja, al quale si voleva sottrarre Gorizia, stabilendo in essa una nuova sede episcopale, o  venisse nominato, morto il patriarca, una volta dall’Austria, un’altra dalla Repubblica, il successore; quella contesa, si diceva, veniva al fin definita dall’autorità di papa Benedetto XIV, il quale, per l’ interposizione della corte di Torino, soppressa, nel 1750, la sede patriarcale di Aquileja, eresse in quella vece le due nuove sedi arcivescovili di Udine e di Gorizia. Oltre questa, fu ridotta quasi a termine un’altra non meno difficile questione, quella cioè intorno alle acque del fiume Tartaro, nel Mantovano, per certi diritti di navigazione da ambedue le parti pretesi, sicché poté essere alfine appianata con speciale accordo, nel 1753.

In ciò concerne agli ordinamenti interni, erano questi divenuti necessari dai vari abusi introdotti, massime nell’arsenale, per le lentezze e le fraudi che si commettevano. Per cui per ben tre volte furono eletti inquisitori, nel 1732, 1742, 1752, a prenderne in esame la condizione, ascoltare le lagnanze degli operai e portarle al Senato, dando esatta notizia dei disordini di ogni maniera che vi avessero incontrato. Nell’ultimo anno citato, confermate le leggi precedenti, nuove ne furono aggiunte, risguardanti la totale sua amministrazione, la sopravveglianza necessaria sulle guardie e sui custodi, sui depositi, sulle artiglierie, sui bastimenti e loro attrezzi; furono fatte nuove provvisioni per i boschi, che a quell’importantissimo stabilimento fornivano il legname. Quindi si divenne alla elezione dei patroni dell’arsenale medesimo, che ebbe luogo poi per legge del 1757. Anche a riparare ai disordini introdottisi nel governo delle provincie, specialmente della Dalmazia ed Albania, volse le sue cure il Senato.

E di vero li sindaci inquisitori, che di tempo in tempo si mandavano a visitare le provincie, affine di scoprirne i mali, ascoltarvi le querele dei popoli, od applicarvi quei rimedi che più estimavano opportuni, per la lunga guerra di Candia, si aveva intermesso quell’utilissimo uso, sicché, approfittando di quell’abbandono, parecchi rettori in Dalmazia e nella Albania lasciavano a proprio vantaggio correre ogni maniera di abusi, onde gli arbitri, le venalità, i monopoli, la mala amministrazione della giustizia, disertavano quei poveri popoli, che disperati abbandonavano la patria, quali recandosi nei territori dell’ Austria, quali, persino, in quelli del Turco.  A por fine a tanti mali, a cui non valse l’autorità e lo zelo dei tre inquisitori eletti, ma residenti in Venezia, sorse Marco Foscarini allora savio, poscia doge, e con eloquente e robusta orazione, detta da lui nel Maggior Consiglio il 17 dicembre 1747, vinceva il partito, oppugnato da molti, di mandar inquisitori in Dalmazia a riconoscere e correggere gli abusi introdotti nell’ amministrazione di quella provincia; e quindi furono eletti a quell’uffizio gravissimo Gio. Battista Loredano, Vincenzo Nicolò Erizzo e Sebastiano Molino.

Anche l’oggetto dei dazi richiamò l’attenzione del governo. Riuscendo difficile l’esazione giusta ed esatta dei medesimi nelle varie provincia stabiliti, poiché molti e di diversa natura, deliberati separatamente al pubblico incanto, infiniti perciò erano i pericoli di defraudo all’erario, pensò la Repubblica a rimediarvi, il che fece con la elezione di due Inquisitori sopra li dazi della Terraferma, nel 1749, 23 marzo. Ai quali diede l’incombenza, di riconoscere principalmente la quantità degli oli estratti nei territori di Salò e di Verona; di rilevare i motivi del degrado degli altri dazi; di por regola a toglimento dei contrabbandi; di pensare a redimere i dazi tutti pregiudicati. Essi inquisitori si occuparono tosto della importante materia, e proposero poi, nel 1751, al Senato, di unire in qualche provincia, e se giovasse anche in tutte, quasi impresa unita e congiunta, la somma dei dazi in un solo appalto, onde una sola per tutti uniti fosse l’impresa medesima. Fu accolta la proposta, e riuscito utilissimo l’esperimento nelle due camere di Vicenza e di Crema, nel 1765 fu decretata per massima generale, l’unione dei dazi in tutte le provincie della Terraferma, da deliberarsi ad un solo appaltatore, stabilendo un regolamento valevole a torre qualsiasi abuso.

A meglio tutelare gl’interessi dei cittadini, e a regola e norma delle arti in generale, nel 1751 si riformò la conferenza stabilita sopra le arti medesime, ordinando che dovesse esser questa formata da molti giudici, prendendone uno solo dai magistrati seguenti, cioè dai cinque savi, dai deputati al commercio, dai provveditori sopra la giustizia vecchia, dai provveditori in zecca, dai provveditori di comun, e da ognuno competente ordinario magistrato di giustizia vecchia e sopra consoli, ai quali fu prescritto di adunarsi nel solo caso che si trattasse di regolare quell’arte la quale fosse a qualcheduno di loro rispettivamente soggetta. Si elesse eziandio nello stesso anno un inquisitore, estratto dal corpo del Senato, al quale si delegarono gli obblighi seguenti; vale a dire, di rintracciare le cagioni dalle quali provenisse l’alzamento eccedente dei prezzi nei commestibili con aggravio dei sudditi, e l’eccesso delle mercedi delle manifatture, e quindi il danno generale del commercio; inquisire, con il rito del Senato, sull’arte principalmente della seta, e sopra l’ufficio dei mercatanti di questo genere, rilevandone gli abusi, gli arbitri, i dispendi inutili ec. dai quali derivava il difetto delle contribuzioni all’erario ed ai privati creditori.

La pace anche, come notammo, diede modo ai cittadini d’innalzare, intorno a questi tempi, vari palazzi, tra quali quello dei Grassi, dei Morolin, dei Curti, dei Mangilli, dei Fontana, dei Rezzonico, degli Emo, dei Martinengo, dei Labia, sul gran canale, e dei Zenobio ed altri nell’interno della città; ed animò, la pace stessa, la pietà loro a procurare la erezione o la rinnovazione di parecchie chiese. Tali furono; 1.a quella di San Tommaso apostolo, rifabbricata di pianta nel 1742, coi disegni di Francesco Bognolo;  2.a quella di Santa Maria della Pietà, di cui pose la prima pietra, nel 1745, lo stesso doge, avendosi coniata apposita medaglia a perpetua memoria;  3.a quella di Santa Teresa, la quale arsa da un incendio accaduto nel detto anno 1715, fu subitamente rifatta; 4.a quella della Maddalena, eretta nel 1749, coi disegni del celebre architetto Tommaso Temanza; e finalmente la 5.a di San Barnaba, rinnovata nel detto ultimo anno, sul modello di Lorenzo Boschetti. Anche il campanile di San Bartolomeo, uno dei più eleganti della città, veniva innalzato nel 1747. Il governo anche diede mano ad erigere la più colossale e utile opera che vanti Venezia. E’ questa i murazzi, costrutti contro la furia del mare, che di continuo minacciava d’irrompere nelle lagune. Perciò decretava il Senato, che sul disegno offerto da Bernardino Zendrini, si devenisse a murar quella mole, che desta tuttavia la meraviglia dello straniero. Quindi il dì 24 aprile 1744 si poneva la prima pietra dal Iato di Pellestrina, e dopo sette anni di continuato lavoro, veniva consegnata quell’opera insigne, siccome propugnacolo della veneta sicurezza, con questa inscrizione :

VT. SACRA. AESTVARIA — VRBIS. ET. LIRERTATIS. SEDES — PERPETVVM. CONSERVENTVR — COLLOSSEAS. MOLES — EX. SOLIDO. MARMORE — CONTRA. MARE. POSVERE — CVRATORES. AQVVARVM — ANN. SAL. MDCCLI — AB. VRBE. CON. MCCCXXX.

L’anno dopo, vale a dire il 7 marzo 1752, il doge Pietro Grimani moriva, nell’età sua di anni 74, e nei suoi funerali, celebrati nel tempio dei Santi Giovanni e Paolo, diceva le sue lodi il canonico di San Marco Bartolommeo Schiantarelli, che vanno alle stampe. Poscia venia tumulato in Sant’Andrea della Certosa in isola, nell’arca dei suoi maggiori.

I casi straordinari accaduti nella città sotto la sua ducea sono i seguenti: Il 17 marzo 1744, cadde, con gran rovina, il campanile della Carità. Il 31 ottobre 1746, e il 9 novembre 1750, crebbe sì alta la marea, che si andava in barca per la piazza di San Marco. Arsero parecchi incendi in vari luoghi della città, ma li due che recarono maggior danno furono quelli del 10 gennaio 1746, che ruinò parte del convento di San Nicolò dei Frari, e l’altro, del 5 ottobre 1747, al teatro di San Samuele. Da ultimo, Apostolo Zeno, morendo il 10 novembre 1750, lasciava la sua preziosa libreria in eredità ai padri Domenicani sulle Zattere, passata poi, alla soppressione di quel cenobio, alla biblioteca di San Marco.

II ritratto del nostro doge é lavorato da Francesco Salvatore Fontebasso, e reca sul campo questa nota :

PETRVS GRIMANI DVX V. 1752 (1)

(a) Nacque Pietro Grimani il 5 ottobre 1677, da Pietro q. Murino. Fu egli uno dei più svegliati intelletti del tempo suo; e per le scienze e le lettere da lui con grande amor coltivate, distinto. Il di lui padre, che lo vide inclinato ad ogni maniera di studio, gli propose di battere la carriera ecclesiastica: ma egli, sentendosi di poter riuscire utile alla patria, abbracciò la via delle magistrature: per cui fu tosto eletto camerlengo di comune, poi sopra gli uffici, poi savio di Terraferma. Nel 1710 fu spedito quindi ambasciatore alla regina Anna d’Inghilterra, dalla quale venne insignito della dignità di cavaliere. Ivi essendo, fu nel 1713 eletto ambasciatore alla corte di Vienna, e due anni dopo destinato alla corte stessa siccome ambasciatore straordinario; nel quale incontro conchiuse la lega fra l’ imperatore Carlo VI e la Repubblica contro il Turco. Ripatriato, sostenne varie magistrature, tra cui quelle di savio del consiglio, di riformatore dello studio di Padova, di luogotenente nel Friuli.  Nel 4719 venne decorato della stola procuratoria de supra, infine fu, nel 1741, eletto doge.

Il conte Girolamo Dandolo, che a titolo di onore e di stima citiamo, nella sua opera La caduta della Repubblica di Venezia, ed i suoi ultimi cinquanta anni, da lui dettata alfine di lavare la patria dalle accuse nefande che le appose, con nuovo esempio, un di lei ingratissimo figlio, affermante essere sparita dal mondo quella Repubblica per mancanza di fede, di educazione, di costumi, di armi, di tesoro, di consiglio, il conte Dandolo, dicevamo, a convenire costui di falso, di calunniatore, anzi diremo meglio, di traditore della propria madre, annoverando veniva gli uomini illustri in tutte le facoltà ed in ogni ordine, che fiorirono in Venezia in quell’ ultimo periodo della sua esistenza politica ; e fra questi comprese, a molta ragione, il doge Grimani; e di lui così scrisse. « Pietro Grimani, molto più che per l’altezza degli uffizi sostenuti, vuol essere con grande onore ricordato per il suo molto e vario sapere, e per la splendida lucidezza della sua grave e dignitosa parola, che, quasi regale fiume, cui nessuna forza impedisce o ritarda, sgorgava con sempre uguale fluidità dal suo labbro: per cui, o dottamente ragionasse di astronomia alla presenza di Newton nella reale società di Londra, di cui era membro egli stesso; o, cittadino fervoroso del pubblico bene, perorasse in Senato e nel Maggior Consiglio, intorno ai più gravi interessi di Stato; o capo e supremo rappresentante della pubblica maestà, accogliesse ambasciatori, prelati ed altri personaggi cospicui, in tutti destava sempre uguale lo stupore e la meraviglia. Né si dica questi sua rara facilità al ragionare improvviso, doversi credere, più che altro, special privilegio di una felice disposizione d’ingegno; perché, se entro certi confini può, in qualche modo, menarsi buona l’osservazione finche usava fra noi la patria favella; non é da dirsi altrettanto, d’allora che svolgeva, con finissimo tatto argomenti di alta politica presso le corti straniere, o che discuteva in lingua francese coi più datti oltramontani intorno alle scienze più astruse, l’usar favellando, speditamente e con garbo, qualunque sia il soggetto intorno a cui si aggira il discorso, una lingua straniera, e sia pur essa quanto più si vuole vicina alla propria, non fu mai quella facile cosa che vanno spacciando certi spiriti fatui, i quali si persuadono sapere a fondo una lingua, quando abbiano fatto incetta di una qualche dozzina di frasi che gli aiuti ad intendere, bene o male, il Gazzettino della moda. Al Grimani però non é intervenuto ciò che a molti altri non di rado interviene, di essere condotto, cioè, dal soverchio affetto per le altrui lingue, a trascurare vergognosamente la propria.  Ed infatti, fu egli ottimo prosatore cosi nell’italiana, come nella latina favella; e valoroso e giudizioso poeta in un tempo in cui l’Italia non era per anco interamente guarita dalla lebbra del turgido seicento. Di che rimasero testimoni i suoi componimenti già impressi nelle Rime degli Arcadi, ai quali appartenne col nome di Almiro Elettreo; le quattro latine inscrizioni da lui collocale a decoroso ornamento della sua domestica libreria, che si leggono riferite dal Moschini nella sua Letteratura Veneziana; e dodici grossi volumi manoscritti in forma di ottavo, nei quali aveva raccolti i dispacci, le relazioni e le allocuzioni politiche da lui dettate o proferite nell’esercizio delle gravi incombenze affidategli dalla patria, che ancora vivente depositava egli stesso nella medesima libreria. E di questa pure parlando, non deve tacersi che tali e così fatte furono la solerzia e la splendidezza da lui usate a metterla insieme, che ben presto crebbe a tanta dovizia, cosi pel numero, come per la rarità delle opere manoscritte e stampate, da essere annoverata fra le principali della città: e che in essa si conduceva abitualmente a ricreare lo spirito travagliato dalle gravi cure del governo, trattenendosi bene spesso in lunghi e dotti colloqui cogli uomini più celebrati del tempo suo, all’uso dei quali lasciatala costantemente aperta, come accennava una delle inscrizioni che vi si leggeva: GENIO. FAMILIAE. AMICORUM. VSVI.  Non e quindi da meravigliare se il nome di Pietro Grimani, sempre generoso di ogni favore alle lettere ed ai letterali, si vede cosi spesso lodato nelle opere dei suoi più illustri contemporanei nostrali e stranieri; se tanti credevano acquistar favore alle opere del proprio ingegno a lui intitolate; se l’Università di Padova, a celebrare il suo esaltamento al dogado, gli alzava una statua, e gli poneva una gloriosa inscrizione.

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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