Chiesa e Monastero di San Nicolò del Lido

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Chiesa di San Nicolò - Isola del Lido

Chiesa e Monastero di San Nicolò del Lido. Monastero di Monaci Benedettini. Monastero secolarizzato

Storia della chiesa e del monastero

Si unirono con un eguale oggetto di carità a fondare il monastero di San Niccolò del Lido tre illustri personaggi dello stesso nome, Domenico Contarini doge di Venezia, Domenico Marengo patriarca di Grado, e Domenico Contarini vescovo olivolense, i quali uniformi nei loro consigli, dopo aver eretta la sacra fabbrica, la destinarono per abitazione dei monaci Benedettini, offrendola circa l’anno 1053 a Sergio monaco dell’ordine di San Benedetto, istituito primo abbate del nuovo monastero, fondato sotto l’invocazione di San Niccolò per terra e per mare glorioso titolo col quale si chiamava a quei tempi il santo vescovo per gli innumerabili miracoli, coi quali e nell’uno e nell’altro elemento si era reso benefico e glorioso. Insieme col monastero assegnarono all’ordine di San Benedetto i pii fondatori possessioni, opportune per l’alimento dei monaci: le quali furono accresciute sotto il governo dell’abbate Zenone successore di Sergio, per la religiosa donazione di Remedio uomo pio, che nell’anno 1072, con l’assenso di Adalgerio vescovo di Trieste concesse al monastero di San Niccolò situato nel lido di Rialto una sua chiesa dedicata al martire Sant’Apollinare nel distretto triestino, con tutte le vigne, oliveti, e possessioni ad essa appartenenti. Maggiore, e al sommo più prezioso fu l’acquisto, che a decoro e tutela della chiesa e del suo monastero, fece l’ottimo e lodatissimo Vitale successo nell’abbazia al soprallodato Zenone, avendo ottenuto il venerabile corpo, ossia la maggior parte del corpo del santo vescovo titolare dalla città di Smirna, trasferito a Venezia, e collocato nel monastero a suo onore fabbricato. Viene da molti autori descritta la celebre traslazione di questo sacro tesoro. Andrea Dandolo doge, Pietro Calò domenicano, Marin Sanuto, Pietro dei Natali vescovo di Jesolo, ed altri la rapportano per esteso, e perfettamente concordano con gli antichi Passionari della Basilica Ducale, e con gli autentici documenti del monastero, nei quali fu registrata da monaco anonimo, che fu testimonio di vista e della traslazione medesima, e dei prodigi in essa, e dopo di essa seguiti: nella fede fondata del quale però si appoggiarono tutti i susseguenti accreditati scrittori. Di tal relazione, che tutt’ora si conserva, questo è un fedele compendioso trassunto.

Nell’anno 1096 eccitati dall‘apostolico fervore di Urbano II, alcuni principi cattolici d’Occidente, uniti in sacra lega sotto il glorioso titolo di Crocesignati, intrapresero la conquista della Terra Santa, e benedicendo Iddio la pietà dell’impresa, nel terzo anno della guerra liberarono la santa città di Gerusalemme dalla tirannide dei maomettani. Desiderosi i veneziani di prestar alla sacra guerra i più validi aiuti, radunarono una numerosa armata navale, e convocato il consiglio nella Ducale Basilica di San Marco, ne destinarono rettore e maestro Enrico vescovo castellano, figlio del già doge di Venezia Domenico Contarini, e supremo capitano Michele figlio di Vital Michele, che allora sedeva sul trono ducale della Repubblica. Unitosi ai voti del popolo anche il comando di Pietro Badoaro patriarca gradese, soggetto sì al peso della nuova carica il buon vescovo, e nella chiesa del Monastero di San Niccolò, dopo aver coi soldati dell’armata ascoltate le pastorali esortazioni, e ricevuta la benedizione del patriarca, avanzò una quasi profetica preghiera al santo vescovo titolare della chiesa, perché prosperando il viaggio e l’impresa, lo rendesse anche degno di arricchire Venezia col trasporto del sacro suo corpo. Spiegare dopo le vele passarono prima in Dalmazia, e poi a Rodi, dove avendo determinato di svernare, mandarono la notizia della lor venuta in Gerusalemme al re Goffredo, ed agli altri principi suoi confederati. Da Rodi poi, ove superata avevano l’armata dei pisani, che frastornare voleva il loro cammino, veleggiarono, terminata l’ottava delle Pentecoste verso Gerusalemme: e di già arrivati erano poco lungi da Mira metropoli della Licia, allorché il vescovo Enrico desideroso d’accrescere protettori alla sua patria, ordinò che l’armata in vicinanza di quella città dovesse fermarsi. Quivi dunque ancoratesi le galere, furono dai comandanti mandati in terra esploratori, quali riferirono, essere la Città di Mira sei miglia solamente distante dal mare, e vuota di abitatori per le irruzioni de turchi, che l’avevano quasi affatto distrutta. Animati da tali notizie i Veneti sbarcarono in gran numero dalle galere, e si portarono tosto alla chiesa di San Niccolò, ivi ritennero quattro custodi procurando con lusinghe e promesse di rilevar da essi, ove nascosto riposasse il corpo del prodigioso San Niccolò. Negarono i custodi di saperne particolarità veruna, e solo mostrando un’arca di marmo infranta da uno dei lati, questo, dissero, è il luogo, dal quale i baresi trasportarono parte delle reliquie, e altra parte ne lasciarono, da quest’area, soggiunsero poi, trasse il sacro corpo Basilio imperatore per volerlo trasportare in Costantinopoli: ma ove poi l’abbia riposto, nessun uomo, certamente lo potrà dinotare. Corsero ciò udito i veneziani a schiuder l’arca, ma nulla trovandovi, fuorché acqua ed olio, fremendo di dispetto sconvolsero per tutta la notte ogni parte della chiesa ricercando invano ciò, che ritrovar non potevano e frattanto uno dei custodi troppo tormentato dai veneti indicò di voler manifestare ogni cosa al vescovo direttor dell’armata, il quale al primo avviso di ciò, benché aggravato d’infermità, si portò sotto alla chiesa, ove tutto sciolto in lagrime rinnovò al gran santo le sue suppliche, fervorosamente pregandolo, che volesse con le venerabili sue reliquie decorar Venezia, che professava una somma venerazione al suo nome. Rivoltosi poi al custode, a di cui istanza era stato chiamato, l’animò a palesare quanto sapeva, sicuro facendolo di doverne riportare lode, e generoso guiderdone. Alle forti insinuazioni del vescovo altro non fece e sospirando rispondere il misero custode, se non che averlo esso fatto chiamare per liberarsi dagli ingiusti tormenti, che gli facevano patire. In ciò udire il buon vescovo tutto mesto si ritirò a piangere nella più secreta parte della chiesa, e frattanto i soldati stimandosi derisi dal custode, rinnovarono i di lui tormenti, ai quali incapace ormai di resistere, invocò ad alta voce l’assistenza del vescovo. Accorso questi tosto alle strida del miserabile, rimproverò l’indiscreta crudeltà dei soldati, e lo liberò dalle loro mani. Grato il custode alla giusta pietà del buon prelato, non sapendo rivelargli, ove riposto fosse il corpo del ricercato San Niccolò, volle manifestargli altri due corpi santi, che nella medesima chiesa erano stati riposti: ecco, gli disse, mostrandogli un’arca, quivi sono deposti due santi vescovi predecessori del grande San Niccolò, o pure se qui non si ritrovassero, certamente riposano nell’altar principale dedicato a San Giovanni Battista. Si ricercò dunque nell’arca, ma nulla trovandovi, fu diroccato l’altare, in cui si rinvennero due sacri corpi con le loro iscrizioni, che dinotavano, essere l’uno San Teodoro Martire, l’altro San Niccolò zio di San Niccolò il grande, ambi vescovi della città di Mira, dei quali anche si fa menzione negli atti di San Niccolò cognominato il Grande. Festosi dunque i veneziani di tal acquisto, levati i sacri corpi nelle loro antiche casse di cipresso, li condussero all’armata: e già si disponevano alla partenza, allorché alcuni di essi tardando a partirsi dalla chiesa, sentirono un’insolita mirabile fragranza uscir poco discosto dall’altare già atterrato di San Niccolò; Si ricordarono allora alcuni pratici del luogo, che l’arcivescovo nelle principali solennità non solevano celebrare la messa solenne all’altare di San Niccolò, ma posta in altro luogo a puntato una mensa amovibile, ivi offriva il sacrificio, e fatto riflesso, che sopra quel luogo a diritta linea si vedeva in alto collocata l’immagine di San Niccolò, corsero tosto all’esercito a dare ragguaglio e del odore sentito, se delle congetture, che inspiravano in loro una nuova speranza. Sospeso dunque il partire, ritornarono frettolosi alla chiesa, ed animati dalla loro devozione, e infranto il suolo scavarono nel terreno, finché giunsero ad un altro sotterraneo pavimento. Rotto pur questo, e rimosse alcune gran pietre, che lo sostenevano, ritrovarono una gran massa di durissimo, vetro, che a grande stento poterono far in pezzi, ed in mezzo di essa ritrovarono un’altra minor massa d’impietrito bitume. Aperta pur questa, benché non senza fatica le videro in mezzo collocata un’altra durissima massa di metallo e bitume, che invoglieva e legava le sacre ossa del prodigioso San Niccolò. Allo scoprirsi delle venerabili reliquie si diffuse tosto per la chiesa un odore di Paradiso, ed accostatosi al santificato terreno il vescovo Enrico, lacrimando per devota allegrezza, raccolse nella cappa sua vescovile le ossa santissime. Apparve nello stesso incontro un altro prodigio, che una palma portata dal santo vescovo nel ritorno da Gerusalemme, e preso lui seppellita, pullullò rami e frondi verdeggianti, dei quali ne raccolsero molti, e seco li portarono in testimonianza della verità. Nel sepolcro vi era anche un’inscrizione in lettere greche, le quali esprimevano. Qui riposa il gran Vescovo Niccolò in terra e in mare glorioso per i miracoli. La causa, perché così fortemente chiuso, e nascosto fosse il sacro corpo, è questa raccontata negli annali dei greci. Basilio imperatore deliberando avendo di condurre il santo corpo alla città di Costantinopoli, ma non potendo per divina permissione trarlo di chiesa, sdegnato di ciò, perché nessun altro ottenesse ciò, che a lui era stato negato, lo fece in tal maniera sigillare, e sotto terra nascondere, non lasciando memoria alcuna di tal secreta reposizione. Furono presenti alla prodigiosa invenzione popoli d’ogni nazione, fra i quali Baresi ancora e Pisani, che poterono rendere testimonianza al fortunato acquisto fatto dai veneziani. Raccolte dunque con venerazione le reliquie del santo, ed i pezzi di bitume divenuti sacri per il contatto, ascesero le navi, ed avendo ad onore di San Niccolò liberati alcuni ostaggi pisani presi nella sopraccitata battaglia, rimisero all’arcivescovo della citta una cassella di reliquie tratta dall’altar maggiore, e cento bisanzi d’oro per la restaurazione della chiesa. I veneziani frattanto tutti allegri per l’acquistato tesoro, disposero al miglior modo possibile un oratorio nella galera, che portava i sacri corpi, e vi destinarono sacerdoti, che giorno e notte cantassero le laudi divine. Fra tanto fu spedito con sollecitudine a Venezia un messaggio coll’avviso del fortunato acquisto, che colmò la città tutta di giubilo e di speranza, e mentre variamente si discorreva del luogo, ove si sarebbe collocato il sacro corpo, l’abbate Vitale, uomo di esimia virtù, ottenne dal doge e dal dominio la sicurezza, che sarebbe collocato nel suo monastero. Viaggiava intanto l’armata veneta, e felicemente poco dopo giunse in vicinanza di Terra Santa, ove sbarcato il vescovo e il generale, incontrati da Goffredo già dichiarato re di Gerusalemme, seco lui si portarono, seguendoli una parte dell’esercito, a venerare i luoghi santificati da sangue del Redentore. Entrarono a piedi nudi nella santa città, ricevuti con sommo applauso dal popolo nel giorno solenne della natività del precursore, e nel giorno seguente il vescovo Enrico celebrò pontificalmente, e di poi predicò nella chiesa del Santo Sepolcro. Dopo di che con somma tenerezza di divozione visitarono i veneziani i luoghi più sacri, così dentro, che fuori di Gerusalemme. Stabilire poi col re Goffredo giuste condizioni per le imprese ed acquisti, che dovevano e seguirli, partirono dalla Santa Città per dilatare le cristiane conquiste sopra dei barbari, dalla forza dei quali valorosamente tolsero le più forti città della Palestina. Adempito dunque al debito dei trattati conclusi, ed imminente essendo l’inverno si ridussero per ripatriare i veneziani alle loro galere, ove dopo d’essersi con giuramento obbligati a depositare i sacri corpi nel monastero di San Niccolò del Lido, sciolte le vele dirizzarono il loro viaggio verso Venezia, nel di cui porto entrarono allo spuntar del giorno festivo dello stesso San Niccolò. Alla veduta della vittoriosa armata si mossero tosto, il doge, ed il patriarca di Grado, ed accompagnati dalla nobiltà, e da numeroso popolo si fecero incontro all’accoglimento dei sacri corpi, i quali furono onorevolmente deposti nella chiesa del monastero, ove collocati sull’altare, e ivi lasciati all’insaziabile divozione del popolo vi restarono sino alla solennità della resurrezione di nostro signore, operando Iddio frattanto per l’intercessione dei santi a favore dei supplicanti, continuati miracoli. Terminate poi le feste pasquali furono i sacri corpi rinchiusi in luogo forte e sicuro, finché a di loro onore si ergesse una chiesa e più decorosa, e più ampia. Segui la sacra invenzione di tutti e tre li venerabili corpi nel giorno 30 di maggio, e la traslazione, ossia arrivo di essi a Venezia nel giorno (come dicemmo) festivo di San Niccolò.

Segue poi l’anonimo scrittore a raccontare mirabili apparizioni fatte dal santo, e prodigiose sanazioni seguite, dopo che i tre santi corpi furono collocati nel monastero del Lido, ad alcune delle quali fu egli, mentre presente salmeggiava nel coro, testimonio di vista.

Divenuto dunque celebre e per il possesso dei sacri tesori, e per l’esemplarità dei religiosi il monastero del Lido, Bertoldo vescovo di Parenzo nell’anno 1114, gli soggettò la chiesa di Sant’Anastasio con le altre chiese e possessioni ed e a spettanti, situata nel territorio di Parenzo, riservandosi solo un annuo censo di una libra di incenso da offrirsi ai vescovi parentini nella solennità di San Mauro martire protettore principale della città. Simile offerta fece nell’anno 1133. Pellegrino di tal nome patriarca d’Aquileia, donando coll’assenso del suo capitolo al veneto monastero di San Niccolò l’Abbazia di San Pietro di Carso, donazione, che fu poi ancora dappoi confermata in Venezia nell’anno 1205 dal patriarca Wolfgero. Nell’anno susseguente alla donazione, che fu di Cristo 1134, i tre corpi dei santi, che separatamente si conservavano in tre piccole casse sotto la confessione dell’altare, furono collocati in un nobile sepolcro di marmo, diviso però internamente in tre nicchi, dei quali quel di mezzo accolse le ossa di San Niccolò il grande, nel destro fu riposto il corpo di San Teodoro, e nel sinistro quello dell’altro San Niccolò.

Come però per pie oblazioni dei fedeli possedeva il monastero di San Niccolò una gran parte dei suoi beni nel dominio imperiale, così a decoro e difesa del monastero stesso l’imperatore Corrado III, con suo diploma segnato in Ratisbona nell’anno 1151, gli concesse con l’imperiale protezione amplissimi privilegi, ai quali sottoscrissero molti dei più riguardevoli prelati, e principi dell’impero.

Con grave disturbo della loro quiete suscitarono circa questi tempi l’abbate e monaci un litigio contro il vescovo castellano, negandogli quell’onorificenze, che da molto tempo erano soliti prestargli nel giorno festivo dell’Ascensione: per cui ricorso il vescovo Vital Michiele alla suprema autorità del pontefice Eugenio III, ottenne da esso, che i vescovi di Jesolo e di Torcello, come apostolici delegati, decidessero la controversia. Conosciuta dunque anche per confessione dell’abbate Domenico Contarini, e dei suoi monaci la verità della causa, decisero i vescovi delegati, che continuar dovessero i monaci nell’antica soggezione degli ossequi, e ne confermò poi la sentenza dimorando in Venezia nell’anno 1177, Alessandro III sommo pontefice. Tentarono qualche tempo dopo i monaci di sottrarsi dal giusto peso; ma, implorata dal vescovo Marco Niccola la giustizia del pontefice, Clemente III, avvalorò questi nell’ anno 1188, con nuova conferma il giudicato dagli apostolici delegati.

A questi tempi deve ascriversi la celebre dispensa data dal pontefice romano a Niccolò Giustiniano, monaco professo di San Niccolò del Lido, poiché lasciato l’abito monastico, potesse col matrimonio continuar la serie dell’illustre sua casa, di cui era rimasto egli solo superstite. Così la registrò in una sua Cronaca Bortolammeo di questo nome III, abbate del monastero. Governava il monastero di San Niccolò del Lido Vitale di questo nome III, abbate, allorché per le tiranniche violenze, di Emmanuele imperatore di Costantinopoli, risolse la Repubblica di Venezia di intimargli la guerra. Disposta dunque un’armata di cento galere, ne assunse il comando Vital Michiele, cui seguirono nell’impresa per amore della lor patria tutti i nobili della famiglia Giustiniana. Sbigottito. all’avviso di così copioso apparato l’imperatore, non sapendo in che maniera resistere, ricorso ai consigli della peggior perfidia, e fingendo desideri d’accomodamento, mandati ambasciatori al doge, fece infettare di veleno tutte l’acque, delle quali doveva servirsi l’esercito. Ne insorsero da ciò gravissime malattie nelle venete milizie, che per la maggior parte perirono, e fra di esse restarono miseramente estinti tutti i valorosi nobili Giustiniani. Ritornato il doge a Venezia afflitto per la strage dell’esercito, e per l’estinzione di una così illustre famiglia, di cui non era superstite che un solo giovine di nome Niccolò monaco in San Niccolò di Lido, pensò di implorare l’autorità pontificia, acciocché assolto il giovane monaco dal sacro legame dei voti potesse far rinascere alla Repubblica una prosapia sì benemerita. Ottenuta dunque l’apostolica dispensa, diede il doge in matrimonio Anna sua figlia con ricca dote al giovine Niccolò già divenuto secolare, dai quali nacquero nel corso di pochi anni sei figliuoli maschi, e tre femmine. Dopo una sì evidente benedizione del cielo, risolsero i piissimi coniugati di consacrare se stessi al divino servigio; e ben disposti prima a favore della lor prole gli affari domestici ritirandonsi l’uno al primiero suo monastero di San Niccolò, e l’altra nell’Isola di Ammiano, ove accompagnata da pie vergini, e nobili matrone, che vollero seguirla nel santo proposito, fondò l’illustre monastero di Sant’Adriano, sotto la regola di San Benedetto. Ricevuto Niccolò con indicibile allegrezza dall’abbate, e dai monaci, quasi reputandosi indegno di convivere con quei servi di Dio, volle in parte appartata del monastero condurre nell’umile stato di converso una vita austera e penitente condannandosi agli uffici più abbietti, nell’esercizio dei quali perseverando fedelmente fino alla morte, felicemente volò al cielo decorato dagli scrittori del sacro ordine Benedettino (come anche lo fu la di lui moglie) del titolo di beato; vedendosi ancora nel monastero le antiche loro immagini notate con tale titolo, e circondate dal diadema solito apporsi alle immagini dei santi. Fu il corpo del venerabile monaco sotterrato separatamente, e poi deposto nel muro di una di quelle camere, ove si conservano le suppellettili sacre; il qual sito rotto nel giorno di marzo 1756, d’ordine dei visitatori della congregazione cassinense, vi si ritrovò un’urna di terra alta tre quarte, coperta di piombo, su cui latinamente vi era inciso: Ossa dei Venerabile Servo di Dio Niccolò Giustiniano. Sotto il coperchio di piombo ve ne era un altro di legno con simile inscrizione: dentro vi si trovarono tutte le ossa intatte, la testa ed il mento con tutti i denti del beato uomo; dopo di che, sigillata l’urna fu riposta in luogo onorevole della sacristia.

Furono dappoi nell’anno 1186, confermati da Urbano III, tutti i privilegi apostolici, siccome nell’anno 1222, l’esenzioni concesse da Corrado III, restarono in Venezia nuovamente approvate dall’imperatore Federigo Secondo.

Con lo scorrere degli anni si andò a poco a poco intiepidendo il fervore di devozione, con cui dai veneziani si venerava il grande San Niccolò al suo sepolcro; onde, oltrepassata la metà del XIII secolo, cominciò ad insorgere nel popolo qualche dubbio, se veramente il monastero di San Niccolò possedesse le di lui venerabili reliquie. Per calmar tal dubbiezza fece l’abbate Pietro Balastro nell’anno 1282, schiudere i sepolcri dei santi, ed esporre le sacre ossa in onorevole forma alla venerazione dei fedeli, e così si custodirono, finché nell’anno 1287, Francesco Tagliapiera successore del Balastro nell’abbazia le fece nuovamente rinserrare nel loro sepolcro. Fu poi l’abbate Francesco Tagliapiera instituito vescovo di Torcello, e se bene egli sia per errore dall’Oghello chiamato col cognome di Dandolo, contuttociò è fuor di dubbio, come si rileva dal di lui testamento, e da quello pure di Giacomo suo padre, che nell’anno 1296 era ancora abbate di San Niccolò, presso cui si ritirò a finire i suoi giorni il mentovato Giacomo suo padre. Passò poi nell’anno 1303, al vescovado di Torcello, e circa il principio dell’anno 1314, finì di vivere. Frattanto il monastero e la chiesa per i pregiudizi del lungo tempo davano segni di presta ruina: onde accorsa la pietà pubblica al riparo di un così venerabile santuario, comandò con decreto del maggior consiglio nell’anno 1316, che tosto e l’uno e l’altra fossero riparati, assegnando a spese del pubblico erario la terza arte della rinnovazione della chiesa, ed ordinando che per la terza parte della rifabbrica così del monastero, che della chiesa supplire dovessero i procuratori di San Marco, destinati all’amministrazione delle commissarie consumata l’opera del risarcimento degli edifici seguì sotto l’abbate Martino una nuova ispezione dei sacri corpi, fatta d’ordine d’Andrea Dandolo doge, il quale accompagnato dal vescovo di Castello Niccolò Morosini, e dal Senato, col seguito di numeroso popolo si portò nel giorno 3 di maggio dell’anno 1347 a San Niccolò del Lido, ove scoperto il sepolcro dei Santi vescovi, e riconosciutane l’esistenza dei corpi non toccati, li fece dopo umile e devota adorazione tosto nuovamente chiudere ed assicurare.

Scrive, Marin Sanuto nella sua Cronaca, che l’abbate Martino morì poco dopo nello stesso anno del riaprimento della venerabile arca; il che pure era successo all’abbate Pietro Balastro, quasi facesse conoscere Iddio, essergli dispiacevole, che quei sacri pegni maneggiati fossero senza grave necessità. Pure passarono pochi anni dalla seconda ispezione delle sacre reliquie, che Donato Contarini, il quale dallo stato di semplice laico nell’età giovanile di ventitré anni era stato da Bonifacio IX, trasferito all’abbazia di San Niccolò del Lido, senza considerare, o temere l’esito dei due suoi precessori, volle nel giorno 11 di agosto dell’anno 1399, riaprir la tomba dei sacri corpi; le ossa venerabili dei quali mentre egli nella seguente notte con troppo irreligiosa libertà va maneggiando, restò colpito da improvvisa cecità. Tratto d’indi tutto tremante e grondante di sudore fu tosto sorpreso da grave febbre, e visse penando fino al giorno 20 del susseguente settembre. Scoperte le sacre reliquie furono lasciate esposte a soddisfare la devozione dei fedeli per 40 giorni, nel corso dei quali più d’una volta si portò a venerarle la signoria, e poi nel giorno 20 di settembre furono nuovamente rinchiuse.

Si andavano frattanto quei tempi rendendo assai molesti alla Repubblica, per la grave e pericolosa guerra dei genovesi, onde assegnato il monastero in gran parte ad usi militari, ne partirono i monaci, e per qualche tempo vi abitarono con disagio Antonio Corsaro ed i pii suoi compagni, dai quali ebbe poi origine la congregazione dei Canonici secolari di San Giorgio in Alga. Composte poi le differenze tra le due repubbliche, e ridonata la pace ritornarono i monaci all’antica lor sede, di cui ripararono i danni apportati dalle stazioni militari.

Assai più giusta fu la cagione per cui nuovamente aprissi nell’anno 1449 il sepolcro dei Santi, da cui si vedevano uscire prodigiosamente limpidissime gocce di acqua. Era allora abbate del monastero Bortolammeo III; di questo nome, di nascita veronese, e collettore apostolico delle decime, (nel qual ufficio era stato preceduto da due abbati di questo monastero, ambi di nome Raimondo, il secondo dei quali morì nell’anno 1389 vescovo di Padova) il quale testimonio di vista del miracoloso liquore, che dal solo sepolcro dei santi (asciutti restando tutti gli altri marmi dell’altare e della chiesa) trasudava, ordinò che si raccogliesse in panni lini, ed in un ampio vaso di vetro, che nel più rigido dell’inverno, benché posto in luogo freddissimo, mai restò congelato. Fu seguitato questo prodigio da molte miracolose guarigioni; per cui credendosi con ragione di dover sodisfare all’universale devozione, non solo del veneziano, ma anco dei finitimi popoli; si unirono ad aprir il sepolcro San Lorenzo Giustiniano vescovo di Castello, Fantin Dandolo vescovo di Padova, e il sopra lodato abbate Bortolammeo nel giorno 13 dell’anno 1449. Era diviso, come di sopra fu detto, il sepolcro in tre nicchi, ognuno dei quali conteneva in separata cassetta uno dei santi corpi, all’indagazione dei quali ritornò nell’ottavo giorno dopo l’aprimento il vescovo San Lorenzo: levato un picciolo cancello di ferro, posto sopra le reliquie del grande San Niccolò, vi ritrovò un piccolo vaso di liquore, condensato a forma d’unguento, e sotto il capo del santo un marmo nero inciso di greche parole, che esprimevano: Reliquie di San Niccolò Mansueto stillanti liquore. Alla venerazione dei sacri corpi, dai quali usciva incessantemente odore soavissimo di paradiso si portò poi con festosa pompa il doge Francesco Foscari, accompagnato da tutto il senato, e celebrò in tale occasione coll’intervento di tutto il veneto clero solenne messa il vescovo San Lorenzo.

Dopo ciò con vigoroso decreto emanato nel giorno primo di settembre dell’anno stesso, comandò il senato, che i sacri corpi, i quali riposavano nelle due illustri chiese di San Niccolò del Lido, e di San Giorgio maggiore, fossero diligentemente chiusi nelle loro urne di marmo, sicché mai più in avvenire avessero ad esser riaperti.

Si assicurò col solenne scoprimento dei venerandi corpi, e coi frequenti miracoli, che succedettero, il decoro del monastero, nel render evidente il possesso, che godeva dei sacri tesori, (pensò il buon abbate ad altro beneficio assai riguardevole, tenente a migliorare ed assicurare la disciplina monastica, non poco rilassata in quei chiostri. Aveva in quei giorni intrapresa la riforma dell’ordine benedettino in Italia il piissimo abbate di Santa Giustina di Padova Lodovico Barbo, fondando la famosa congregazione detta da] Monastero di Padova Congregazione di Santa Giustina; onde ammirandone l’esemplarità ed i santi istituti l’abbate Bortolammeo, che già con benefica mano aveva risarcire ed ampliate le fabbriche del suo monastero, deliberò santamente d’unirlo alla nascente congregazione. Avuto dunque un concorde assenso dai suoi monaci, ottenne con la religiosa interposizione del senato dal pontefice Niccolò V, il permesso della desiderata unione, e con lettere apostoliche segnate nel giorno 3 di agosto dell’anno 1451 ne fu demandata l’esecuzione al santo vescovo di Castello Lorenzo Giustiniani. Questo santo prelato, che poco prima era stato dichiarato patriarca di Venezia, si portò personalmente al monastero del Lido, ricevette prima la spontanea cessione, che di esso ne fece l’abbate Bortolammeo, e poi con l’autorità di delegato apostolico unì l’illustre monastero stesso, (di cui ne aveva confermati i privilegi nell’anno 1447 lo stesso pontefice Niccolò V) alla congregazione di Santa Giustina, a nome della quale ne presero dappoi nell’anno 1454, il possesso gli abbati e priori a ciò destinati dal presidente generale, dopo il qual tempo governarono il monastero gli abbati eletti di triennio in triennio dalla congregazione. Fra questi Rafael di Verona, costituito abbate nell’anno 1623 vedendo, che la chiesa assai pregiudicata dal tempo, mostrava contrassegni di non lontano pericolo, pensò a rinnovarla, disegnatane i fondamenti nell’anno 1676 vi pose insieme con la prima pietra benedetta una medaglia, la quale incisa si vede con altre al fine della prefazione. Si avanzava intanto per la pietà dei monaci il acro edificio, situato in luogo separato dalla vecchia chiesa; per cui fu creduto opportuno di dover trasferire in luogo decente e sicuro del monastero i sacri corpi, finché terminata fosse (come si sperava in breve) la fabbrica del sontuoso tempio. Ottenutane dunque la pubblica permissione, furono le tre sacre custodie, in cui si contenevano le venerande ossa dei santi, levate nel giorno 11 di maggio dell’anno 1628, dall’antico sepolcro, e con devota processione depositate in un altare posto entro il monastero, dove allora ufficiavano i monaci.

Ridotta poi a compimento perfetto la nuova magnifica chiesa nell’anno 1634, deliberò l’abbate Girolamo Spinelli padovano di trasferirvi i sacri corpi, per riporli nel decoroso sepolcro a ciò preparato nella cappella maggiore. Fu destinata alla pomposa funzione la solennità dell’Ascensione del Signore, nel qual giorno, con devoto e onorevole accompagnamento, tratte dall’altare interno le cassette cautamente sigillate, e riconosciuta l’identità delle sacre ossa, e principalmente di quelle di San Niccolò il grande, candide più dell’altre, e più infrante per essere state a forza staccate dalla gran massa di bitume, in cui le aveva fatte involgere l’imperatore Basilio.

Riconosciuta dunque con la più accurata indagazione la verità dell’esistenza, furono nuovamente chiuse le sacre reliquie in cassette foderate di piombo, con autentica memoria delle loro traslazioni chiusa nelle cassette medesime. Fu ordinata poi solenne processione, con la pompa devota della quale furono da sei abbati, ed otto riguardevoli monaci del sacro ordine Benedettino, portati in chiesa i venerabili corpi accolti, e venerati dal doge Francesco Erizo, e dalla signoria, e poi collocati nel sepolcro di marmo sontuosamente eretto, riponendo nel mezzo quello di San Niccolò il grande, dalla parte dell’evangelo quello del martire San Teodoro, e dalla parte dell’epistola l’altro di San Niccolò zio e antecessore di San Niccolò il grande. Oltre questi preziosi pegni, che formano di questa chiesa un’illustre santuario, vi si conservano pure altre riguardevoli reliquie, che sono: Una gamba, ed un piede incorrotti dell’ammirabile penitente Santa Maria Egiziaca. Un osso intero di San Procopio martire. Un osso di San Placido monaco e martire. Alcune ossa dei santi Innocenti di Betlemme, e moltissime ossa dei santi martiri tratte da cimiteri cristiani di Roma.

Si vede sulla facciata esteriore della chiesa il deposito del benemerito principale suo fondatore Domenico Contarini doge, il di cui corpo fu seppellito nell’antica ora distrutta chiesa. (1)

Visita della chiesa (1839)

Sembra per altro impossibile, entrando in questa chiesa, che il semplice suo stile sia opera del 1600: così ha poco che accusi il frastagliare di questo secolo. Sette altari ha dessa. La tavola del primo alla destra appartiene alla quinta epoca storica dalla nostra pittura. E come con cinque epoche, alle quali dedicheremo un apposito capitolo, intendiamo dimostrare non aver mai retrocesso le arti durante la civiltà cristiana, ma con occulto avanzamento aver anzi progredito a spese soltanto di alcuna perdita, così notiamo questa tavola, fatta nel 1760, qual testimonio che Domenico Maggiotto di lei autore, insieme con gli altri coetanei, aspirava all’avanti indietro, alla disposizione armonica ed alla espressione: caratteristiche di quella quinta epoca in confronto delle passate. Bella appunto per tali condizioni è la tavola medesima rappresentante i santi Mauro, Placido e Benedetto, in uno alle Sante Gertrude e Scolastica, accinti ad operare un miracolo sopra un infermo ed un fanciullo agonizzante. Graziosa ne è la distribuzione, il disegno e anche accurato; il colorito è però freddo: tiene del francesismo: ecco la perdita dell’epoca intanto che acquistava le altre doti di espressione e di armonia. L’avvedimento di quel raggio celeste, che spicca dal cielo e trascorre sino a San Benedetto, col fine d’illuminare il campo e far più vistose le vesti nere dei monaci, è uno degli artifizi propri di questa quinta, epoca a maggior risalto dell’arte, senza la lesione della verità.

La tavola del secondo altare con San Marco evangelista si cominciò da Pietro Damiani e si terminò da Marco Vecellio. Nel terzo altare vi è un crocefisso in pietra che si vuole opera di Angiolo Marinali, l’autore stesso degli evangelisti posti nelle quattro nicchie laterali alla cappella maggiore e dei quattro dottori esistenti nelle quattro nicchie laterali alla porta. E opera quel crocefisso di chi fece le altre otto statue? Sebbene non senta la gentilezza conveniente a Gesù, pure gran sentimento vi è in quella statua: c’è una tale ricerca di espressione, vi sono ben poche ma cosi scelte le pieghe, nel mentre che tutto è goffo nelle statue anzidette, che noi mal sapremmo indurci a credere poterle contraddizioni, in cui sovente cadono gli autori, produrre effetti così disparati.

Passando da questa cappella alla sagrestia per giungere alla cappella maggiore, ci verrà offerta nel coro un’altra eccezione del secolo XVII. In quei sedili sta intagliata la vita di San Nicolò il grande: opera di tanta correzione e di sì buon gusto, che di più non si potrebbe avere nel secolo più castigato e più puro. L’ignoto autore divise quella vita nel modo seguente: nell’intaglio la nascita di San Nicolò; nel 2 il battesimo; nel 3 l’educazione; nel 4 il primo saggio della sua carità; nel 5 l’ordinazione al sacerdozio; nel 6 il momento in cui San Nicolò gettando per una finestra tre borse, salva tre fanciulle pericolanti, donde ne provenne quel simbolo delle tre palle con che si suole effigiare un tal santo; nel 7 si vede quando pellegrinando per la Palestina veniva ospitalmente accolto in un chiostro; nel 8 e sorpreso nel suo pellegrinaggio da una burrasca; nel 9 si rappresenta allora che, compiuto il pellegrinaggio, va ad assumere la reggenza del monastero di Sion, edificato da suo zio San Nicolò; nel 10 si vedono i canonici di Mira raccolti per eleggere un nuovo vescovo; nel 11 San Nicolò suo malgrado viene eletto vescovo come quello che primo si rinvenne dal popolo col nome di Nicolò; nel 12 è sculta la rassegnazione di San Nicolò alla volontà celeste; nel 13, e conferito a lui il vescovato. Nel mezzo poi, cioè nell’intaglio 14, si scopre San Nicolò coi principali della città di Mira contrastare ai soldati, mandati dall’imperatore Licinio, l’introduzione della idolatria in quella città nel 15 lo si vede alloggiare i pellegrini; nel 16 è imprigionato; nel 17 viene esiliato; nel 18 il popolo festeggia il suo ritorno dall’esilio; nel 19 fa atterrare gli idoli innalzati in Mira durante il suo esilio; nel 20 salva dalla morte tre innocenti prossimi a venir giustiziati; nel 21 compera in una carestia del frumento da un negoziante a pro del travagliato suo paese; nel 22 si vedono Orso, Erpilione e Nepoziano, legati da Costantino per sedare le ribellioni della Frigia, ed a lui calunniati, essere al cospetto di Costantino medesimo desideroso di conoscerne la innocenza manifestata gli in sogno da San Nicolò; nel 25 si espone la morte del santo; nel 24 il suo funerale; nel 25 si accenna San Nicolò che libera uno da Bari schiavo presso un bei barbaresco; nel 26 si dimostra il demonio sotto figura di femmina che dà ad alcuni pellegrini diretti alla visita del sepolcro di San Nicolò un vaso come contenente dell’olio da essere arso innanzi quel sepolcro; ma pieno invece di un liquore infernale che fece lor provare orrida burrasca. Spaventati, tornavano indietro se San Nicolò, loro apparso da uno schifo, non gli avesse rincorati esponendo la fallacia diabolica; nel 27 finalmente è palesato San Nicolò che difende la casa di un vandalo eretico derubata dei ladri. Minacciati costoro dalla presenza di San Nicolò, fatta visibile, cadono genuflessi ai suoi piedi, depongono il denaro involato, per cui all’indomani, conscio l’eretico di tale miracolo, si accosta alle cattoliche credenze.

Considerata questa bella produzione, giriamo un istante gli occhi per contemplare tutto il coro internamente. Ricordiamoci la povertà e la solitudine del Lido in cui siamo, risaliamo ai giorni in cui non scarso numero di solitari abbandonava gli agi domestici per vivere in si beata tranquillità, studiava, salmeggiava quivi ignorato dalla terra, moriva in fine in una pace che da stolte reminiscenze non era punto turbata. Qual cuore non si stringe! Qual occhio rimane asciutto a tali pensieri! Pure avanziamo un passo; inoltriamoci a mirare di prospetto l’altare maggiore intarsiato di finissimi marmi, disegnato a vari arabeschi (secondo il gusto del secolo) dal cav. Cosimo Fanzago ed eseguito in Napoli nel 1634 da Giannandrea Lazzari e Giambattista Galli. Quale finezza di lavoro! quanta ricchezza!

Dall’altar maggiore passando all‘altra parte della chiesa si vede sopra la porta dell‘andito, che mette nella prima cappella, una epigrafe avanzo di rilevante sepolcro distrutto nella riedificazione della primitiva chiesa. Posta in memoria di quel Salinguerra Torello, che, mentre aspirava al dominio di Ferrara, fu tradotto prigioniero a Venezia, essa dice cosi: Sepulcrum magnifici Domini Salinguerrae Pini de Ferraria qui obiit die XXV. julii MCCXLIIII. Ed era già nel 1210, quando il crudele Ezzelino scorrendo furibondo per la Lombardia, e minacciando oppressione e morte a quante città fossero aderenti alla lega del papa e del march. Azzo d’Este, suoi nemici, che questo Salinguerra, suocero di quel tiranno, si era impadronito di Ferrara. Ben la repubblica veneta conosceva quale pericolo stesse da presso al suo commercio ed alle sue industrie colla vicinanza di sì insolito e feroce dominio. Cosicché, unite le sue forze a quelle del papa e del marchese d’Este, corse ad assediare Ferrara.

Lungo fu l’assedio; ma, per i rinforzi condotti dallo stesso doge Jacopo Tiepolo, cadde quella città in potere degli alleati, ed il nonagenario suo nuovo signore Salinguerra, fu tradotto a Venezia, ove ben presto finì il viver suo.

Letta che si abbia l’epigrafe poco più rimane ad osservare in questa seconda parte della chiesa. La madonna esistente nella prima cappella (opera forse dell’autore delle statue mentovate); la tavola dell’altare che sussegue dipinta da Alvise Scaramuccia Perugino, rappresentante la conversione di San Paolo, e quella dell‘ultimo altare con l’Ascensione del Signore di Pietro Vecchia, fatta nel 1655, in uno al semicircolo sopra la porta, in cui Girolamo Pellegrini dipinse a fresco Venezia prostrata dinanzi al vescovo San Nicolò, non offrono alcuna cosa degna di meditazione. E ciò che non è sommo nelle arti è poco; la medesima istoria loro, composta dei gran tentativi al paro che dei gran traviamenti, non dessi dedurre che dalle opere più segnalate dei capi-scuola. Tutte quelle dei pedissequi, prive o di originali bellezze o di originali difetti, si confondono insieme, né, in tanta moltitudine di produzioni, vogliono al certo venir meditate. (2)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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