La famiglia e il palazzo Labia, in contrada di San Geremia, nel Sestiere di Cannaregio

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Palazzo Labia, verso il Canale de Cannaregio. Sestiere di Cannaregio

La famiglia e il palazzo Labia, in contrada di San Geremia, nel Sestiere di Cannaregio

I Labia di San Geremia, oriundi spagnoli della Catalogna, erano venuti a Venezia verso il 1630 e furono ascritti più tardi al patriziato nella persona di un Giovanni Francesco che aveva offerto alla Repubblica la enorme somma di trecentomila ducati per la famosa guerra di Candia.

Famiglia di mercanti straordinariamente ricca, aveva fatto costruire nella chiesa di San Nicolò da Tolentino, comunamente detta dei Tolentini, l’altare dei Tre Magi, ai conventi della Croce a Santa Chiara e a quello di Santa Lucia aveva regalato reliquie, quadri e ducati e, comperato un terreno vacuo vicino alla chiesa di San Geremia, faceva costruire un palazzo che costò più di un milione di ducati, circa quattro milioni di lire italiane (1929).

La poderosa mole ha due facciate principali, quella che guarda l’imboccatura del canale di Cannaregio e l’altra prospiciente il campo San Geremia: la prima in pietra d’Istria, il cui fregio delle aquile coronate prende ispirazione dallo stemma della famiglia, è opera di Andrea Cominelli, l’altra, sul campo, è dell’architetto Alessandro Tremignon, proto all’Arsenale. La ricchezza dell’entrata, l’imponenza delle scale, la vastità dei cortili annuncia il fasto di questa dimora patrizia veneziana, sebbene sorta nell’epoca triste della decadenza, mentre nelle ampie sale Giambattista Tiepolo dipingeva i suoi mirabili freschi, tutta luce e colore in cui si ammira, anche oggi, la inesauribile freschezza e la grandezza decorativa del gesto tiepolesco.

Oggi il palazzo è ridotto a modeste abitazioni private, non più lussuose suppellettili, i ricchi cortinaggi di seta e di velluto, le colossali credenziere dai piatti di oro e d’argento, tutto è stato disperso e rimane solo di tanta passata grandezza il grande salone centrale che Tiepolo immaginò, inquadrò e dipinse nella piena maturità del suo potente ingegno. E sono due grandiosi affreschi da un lato “Il convito di Cleopatra“, da un lato “Il suo imbarco“, due concezioni poderose in cui nel primo la regalità e la bellezza della regina egiziana s’impongono ad Antonio, il rude conquistatore romano; d’intorno paggi, soldati, servi, convitati, fra i quali a sinistra nella figura di mezzo in piedi, il pittore ritrasse se stesso; nel secondo Cleopatra, vestita in uno splendido costume del cinquecento, è condotta a mano da Antonio che la invita a salire sulla galera mentre fanno corteo legionari, mercanti e paggi. Nel mezzo del soffitto, il Tiepolo, con audace scorcio, dipinse “Pegaso su cui cavalca la poesia” e dall’alto la dea dell’Amore tra una fantastica ridda di putti svolazzanti in una gloria di aria, di luce, e di colore. Gli affreschi e i quadri del Tiepolo che ornavano le altre stanze scomparvero tutti e solo si poté salvare la piccola pala dell’oratorio del palazzo, “la santa Famiglia che appare a san Gaetano” conservata oggi nelle nostre Gallerie.

La famiglia Labia era tra le più ricche di Venezia, aveva ottantamila ducati di rendita annuale, somma enorme per quei tempi, ma alle sue ricchezze accoppiava una sfrenata bramosia di lusso. E’ proverbiale il detto di Anzolo Labia che nel 1742 dopo un lauto banchetto offerto a quaranta patrizi fece boriosamente gettare in canale le stoviglie, i piatti e le posate d’oro e d’argento esclamando: “Le abia o non le abia sarò sempre Labia!“. Si crede però che nel canale fossero state messe in precedenza alcune reti per il recupero di quel tesoro. Antonio Labia invece, aveva cinque gondole, per sé solo, e quando usciva per il Canal Grande nella gondola prescelta, le altre dovevano seguirlo superbamente addobbate.

Era celebre per la sua bellezza nei primi anni del Settecento Anna Maria Labia maritata al procuratore Lunardo Pesaro. Federico IV, re di Danimarca e di Norvegia, nella sua visita a Venezia avvenuta nel 1709, commise a Rosalba Carriera i ritratti in miniatura sull’avorio di dodici gentildonne veneziane fra le più belle e più celebri. Delle dodici donne non se ne conoscono che otto, ma primeggia su queste Maria Labia, tanto ammirata dal De Brosses nelle sue “Lettere sull’Italia“.

Alla caduta della Repubblica la famiglia Labia era quasi rovinata; non vivevano che tre fratelli, di cui uno solo ammogliato, e dopo tanto sfarzo, tanto lusso, tanta ricchezza l’avvenire si presentava triste, e si cominciò allora a vendere quadri, mobili, ori, diamanti e infine il palazzo. (1)

(1) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 24 luglio 1929

Dall’alto in basso, da sinistra a destra: Chiave di volta, affresco “Pegaso su cui cavalca la poesia”, sala da ballo, aquila, facciata verso il Campo San Geremia, facciata verso il Canal de Cannaregio, affresco “Il convito di Cleopatra“, sala da ballo, facciata verso il Campo San Geremia, facciata verso il Canal de Cannaregio, affresco “L’imbarco di Cleopatra“.

FOTO: Alfonso Bussolin e da www.wga.hu. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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