Andrea Gritti. Doge LXXVII. Anni 1523-1538

0
3323

Andrea Gritti. Doge LXXVII. Anni 1523-1538

La Promissione ducale rivista in sede vacante, sempre più ristringeva il potere del nuovo doge, stabilendo, fra le altre cose, che i magistrati eletti non più si recassero a ringraziare il principe, ne questo avesse cariche ecclesiastiche nella sua famiglia. Dopo ciò, il dì 20 maggio 1523, Andrea Gritti veniva innalzato al trono ducale, non senza però che la pubblica opinione se gli mostrasse contraria, per la voce che avea di superbo.

Le trattative, già molto avanzate per conchiudere pace definitiva con l’imperatore e con l’arciduca, ebbero compimento il dì 29 luglio dell’anno citato: ma breve tempo scorreva, che nuovo rumore d’armi obbligava Venezia a militari provvedimenti, e l’avvolgeva nuovamente in quella politica, tra Francia e Germania, tenebrosa, fedifraga, non curante del bene dei popoli, e solo rivolta ad ingrandirsi in potenza, a sacrificio di giustizia e di onore, e a deprimento, come sempre, della misera Italia, perpetuo campo di pugne. Laonde scendevano a dilaniarla le armi di Francia invadendo lo stato di Milano, e la Repubblica, a tutela dei propri confini, spediva truppe in soccorso di Cremona assediata, per lo che i Franchi tentavano si collegasse seco loro contro l’impero, ma furono vane le pratiche, che amò ella piuttosto stare unita con Cesare.

Le genti del quale, discese pur esse in Lombardia, posero in fondo la fortuna di Francia; ma, alla sua volta, questa riprendeva il perdutole metteva quindi la Repubblica in grave pensiero; cotalché, all’invito di Cesare di unire le proprie colle forze di lei, temporeggiò; poi decise di stringer pace con Francia. Toccata in seguito, da questa ultima, sconfitta a Pavia, e rimasto perfino prigioniero re Francesco I, il senato, a por riparo alla temuta procella, spediva a Carlo V ambasciatori per gratularsi seco lui dell’ottenuta vittoria, e cercava intanto, copertamente, di tenersi stretto col Papa. Ma l’incostanza di Clemente VII, che volger lo faceva a Cesare; e questi, che, per le trattative di accomodamento incoate col re di Francia suo prigioniero, sicché destalo avevano gelosie e sospetti in tutti i principi italiani, facevano tentennare gli animi in guisa, che ora uno, ora un altro partito si abbracciava, per cui si videro leghe conchiuse e poco poi rotte; movimenti d’armi, quando con quello e quando con questo divisamento indiritte; infinché, conchiusasi lega tra il Papa, Venezia, Francia, Inghilterra ed altri principi, si armarono tutti a comune difesa contro di Cesare.

Le guerre combattutesi, e i diversi fatti accaduti in quel vortice fatale che desolò l’Italia; e quindi le battaglie, le sconfitte, le vittorie toccate e conseguite, quando dagli uni e quando dagli altri; F oppugnazione di Milano, la presa di Roma operata dagli imperiali; l’acquisto di Lodi; il ricuperamento delle sue città nella Romagna fatto dalla Repubblica; l’assedio inutile di Genova, fino alla pace segnata in Bologna il dì 23 dicembre 1529, fra l’imperatore, il Papa, il re dei Romani, la Repubblica di Venezia ed altri principi, per la qual pace riceveva colpo mortale la Repubblica di Firenze, si potranno leggere nella illustrazione della Tavola CV1, ove é inciso il dipinto che la figura, condotto da Marco Vecellio a decoro della sala del Consiglio dei Dieci.

Riassicurate per cotal modo la Repubblica le sue cose di terraferma, metteva ogni studio a rimarginare le piaghe interne, e a mantenere la quiete nell’ esterno; per cui al sultano, insospettito per il congresso di Bologna, spediva Tomaso Mocenigo ad assicurarlo delle pacifiche di lei intenzioni, presentandolo, in pari tempo, di ricchi doni, nelle feste che ivi si celebravano per la circoncisione del figlio suo. Sennonché la potenza del Turco, che diveniva ogni dì maggiore, i suoi progressi nell’Ungheria, i grandi preparamenti che faceva, ed il crescente ardire dei pirati africani, ponevano in necessità la Repubblica di armare; e quindi dava l’incarico a Girolamo Da Canale di raccoglier la flotta e provvedere alla sicurezza dei mari.

Né poteva la Repubblica, in mezzo a tanta complicazione di cose, conservare piena neutralità. Da un lato le invasioni dei Turchi in Transilvania, in Ungheria, nella Stiria; dall’altro le imprese marittime di Andrea Doria, che si era impadronito di Corone, di Patrasso e di altri luoghi, le tornava difficile schermirsi da qualche impegno guerresco. Nulladimeno sollecitata di entrare nella lega tra il Papa, l’imperatore, Milano, Genova, Siena, Ferrara e Lucca per la difesa d’Italia, si rifiutava in quanto avesse relazione alle cose ottomane, dichiarando, volersi attenere soltanto allo statuito nella pace di Bologna.

Ma per quanto fosse ferma la Repubblica nel suo proposito, accadde un fatto che per poco non la trascinò nella guerra che con tanta cura cercava evitare. Girolamo Da Canale, che guardava colla flotta alla sicurezza dei mari, come dicemmo, informato che una squadra di dodici galee erasi diretta verso i paraggi da lui vigilati, si tolse dal porto in cui per tempesta si era dovuto ritirare nelle vicinanze di Candia, ed avanzò ad incontrarla, supponendola appartenente ai corsari, quando era del Turco. Incagliata battaglia accanita, feroce, usciva da quella vittorioso il Da Canale, catturando cinque legni e due colandone a fondo. A prevenire le conseguenze funeste di tale errore, spediva il Senato Daniele Ludovici al sultano per chiederne scusa. Da altra parte a reprimere le correrie formidabili di Chaireddin Barbarossa, famoso capitano dei Turchi, che, insignoritosi di Algeri, fino dal tempo di Selim I, e poscia di Tunisi, usciva da quel suo nido a desolare Sicilia e Napoli, si mosse Carlo V, e con invitto valore prendeva Tunisi e fiaccava, per il momento, la potenza di quel barbaro. Ma le confusioni di Germania sconvolta dai protestanti, le guerre turchesche, la morte del duca di Milano Francesco Sforza, accaduta il 24 ottobre 1535, favorendo i disegni di Francesco I di Francia, il quale dar non si poteva pace di avere perduto l’Italia, operarono, che a conseguire il suo intento, eccitasse i Turchi a penetrare nell’Ungheria, e ad eseguire uno sbarco nel regno di Napoli; mentre il Barbarossa, già vinto da Cesare, e rialzatosi poi, opererebbe di concerto con la flotta francese.

Il Turco, cui l’alleanza con uno dei principali monarchi cristiani inspirava nuovi pensieri di guerra e di conquiste, inviava a Venezia un ambasciatore per invitarla ad enitrare nella lega progettata contro Carlo V. Cercò il Senato schermirsi, ed infrattanto raccomandava al capitano generale Girolamo Pesaro, succeduto al Da Canale, morto al Zante, di tenere bene unita la flotta, di evitare ogni scontro, e curare soltanto la custodia del Golfo, senza dar motivo alcuno di sospetto. Non lasciava perciò il sultano di recare molestia; e non avendo la Repubblica annuito alla sua domanda della lega, impose gabella sopra tutte le merci dei Veneziani in Soria, fece ritenere, sotto vari pretesti, i capitali di alcuni loro mercatanti a Costantinopoli; fu predata perfino, presso Cipro, una nave di Alessandro Contarini carica di ricche merci; e da ultimo messa in mare poderosissima flotta, sotto il comando del Barbarossa, cui dava appoggio numerosissimo esercito, tutte queste forze si diressero alla Vallona, e correndo fino alla costa di Napoli, davano il guasto alla Puglia. L’aggirarsi di tanti navigli turchi e veneziani nell’Adriatico doveva condurre a qualche spiacevole scontro; e benché il governo veneziano rimproverasse e punisse ogni fatto di tale natura, il sultano non cessava di muover lamento, e ogni cosa cogliendo a pretesto di guerra, la flotta turca comparve il 26 agosto 1537, nel canale di Corni. Sbarcavano quindi venticinquemila uomini, con trenta cannoni, i quali si diedero a devastare i contorni; e posi, stretto assedio alla fortezza, ne intimavano la resa, che venne negata dal provveditore Luigi Da Riva; per cui, sopraggiunte violenti tempeste e piogge dirotte, che impedivano il progresso dei lavori, a cui aggiunte le malattie micidiali, e il disagio delle cose più necessarie, i Turchi levarono il campo il 15 settembre, rimanendo così l’isola sciolta, volgendosi poi il Barbarossa, e correre i mari e desolare le coste d’Italia.

Ma se Corfù si salvò da ruina, non ebbero però la stessa sorte Scio, Patmo, Egina, Nio, Stampalia e Paros, le quali caddero l’una dopo l’altra in potere di quel barbaro. Fine, anch’essa venuta in mano dei Turchi, si rivendicava poco poi a libertà, mandando a chiedere un presidio veneziano a Candia, mantenendosi poi nel dominio della Repubblica; e Nasso, quantunque pattuisse un tributo di cinquemila ducati col Barbarossa medesimo, non poté tuttavia salvarsi dalle depredazioni turchesche.

Liberata Corfù dall’assedio, la flotta veneziana stette in forse dapprima se dovesse inseguire i nemici, che scoraggiati partivano da quell’isola ; ma prevalse il partito di volgere all’espugnazione di Scardona, nella Dalmazia, allora posseduta dai Turchi; ed ottenutala quindi, diede l’assalto ad Ostrovizza, che non riuscì. Per cui fu diretta ogni cura nel ben munire Corfù, a prevenire nuove offese.

A continuare con più nerbo la guerra col Turco, la Repubblica si maneggiava per recare ad effetto una pace o almeno una tregua fra V imperatore e il re di Francia. La tregua infatti fu conchiusa nel novembre 1537, ma duratura soli tre mesi, poi prolungata per altri tre; ed infine, superate molte difficoltà, si stringeva in Roma, il dì 18 febbraio 1538, una lega fra il Papa, l’imperatore, il re dei Romani e la Repubblica, onde combattere il Turco.

A prepararsi, alle pugne novelle Venezia grandi provvisioni allestiva di navi, uomini, armi e danaro. Ma, anche questa volta, come sempre, gli aiuti promessi, massime dall’imperatore, non vennero; che erasi egli rappacificato col re di Francia, al quale stava a petto rivalersi contro la Repubblica per non averlo assistito nelle sue strette; sicché all’uscire della flotta ottomana da Costantinopoli, nel giugno 1538, si trovò solo Venezia a fronte di tante forze. Quindi il Barbarossa, che dirigeva quella flotta, s’impadroniva di alcune isole dell’Arcipelago, e volgeva poi i suoi sforzi contro Candia, ma invano, difesa come era valorosamente da Giovanni Moro e da Andrea Gritti. Napoli di Romania anche, assalita dal sangiacco della Morea, resisté gagliardamente. Cadevano però in mano dei Turchi, nella Dalmazia, Nadino, Urano e Nona, e sì che incolse timore, non fossero le barbariche armi per invadere il Friuli; onde a prevenirle, si spedirono guastatori a rendere le vie impraticabili.

La flotta veneziana infrattanto, comandata da Vincenzo Cappello, avea finalmente ricevuto a Corfù un rinforzo dalle galee del Papa, capitanate dal patriarca d’Aquileia Marco Grimani, e poco poi si univano anche quelle di Spagna, rette da Ferrante Gonzaga, viceré di Napoli, il quale però, non volendo annuire alla proposta del Cappello e del Grimani, di recarsi, cioè, in Levante per tentare alcuna impresa contro i nemici, adducendo a scusa, voler attendere la venuta di altre navi comandate dal Doria, il Grimani, impaziente del lungo ozio, levatosi con trentasei galee, si recò ad assalire il castello di Prevesa, non riuscendo però al suo intento. Giugneva in quel mezzo il Doria, e si deliberava partire alla volta di Prevesa stessa, onde combattere il Barbarossa ivi stanziato. Si componeva la flotta alleata di centotrentasei galee, due galeoni e trenta navi armate, e saputo che il nemico era uscito con la sua dal canale dell’Arta, si volse ad incontrarlo. Il Cappello fu primo ad incagliar la battaglia; e già le navi turche cominciavano a dar vòlta, quando ad un tratto il Doria si ritrasse dalla pugna, e con le sue galee si ridusse a Capo Ducato nell’isola di Santa Maura. E poiché usciva di nuovo la flotta nemica, alle insinuazioni del Cappello per combatterla si piegava il Doria; sicché, dopo alquanto alternare di mosse, per ottenere il sopravvento, si attaccò la battaglia, la quale, per il nuovo ritrarsi del Doria stesso, tornò vana agli alleati, per non dire dannosa, avendo dovuto, col favore della notte sorgiunta, ritrarsi con molto disordine a Corfù. Dalla qual ritirata preso animo i Turchi, osarono presentarsi all’isola di Paxo, sfidando la flotta dei collegati a battaglia; ma invano, che la diffidenza in qualunque consiglio del Doria, tagliava i nervi, impediva ogni vigorosa risoluzione, onde il barbaro, dopo avere insultato così dappresso all’oste cristiana, temendo il mar burrascoso, si ritirò nel golfo di Larta.

Tale fu il risultamento di sì grande apparecchio di navi ed armi per combattere il comune nemico; del quale evento si accagionò da un lato il Doria, geloso dell’altrui gloria, dall’altro l’imperatore, che voleva guerra difensiva non offensiva. Quindi l’ultimo fatto accaduto l’anno 1538 fu la presa di Castelnuovo nella Dalmazia, poco dopo perduto: anno che si chiudeva con la morte del doge Andrea Gritti, succeduta il 28 dicembre. Ebbe egli pompa funebre nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, elogio da Bernardo Navagero, e tomba in San Francesco della Vigna.

Al suo tempo crearonsi li nuovi magistrati seguenti. Nel 1524 si elessero i tre Provveditori sopra banchi, per decidere le controversie, e per far eseguire le leggi emanate sopra i banchi e i cambisti; magistrato che durò fino all’istituzione del Banco-giro, avvenuta nel 1584. Il Collegio dei X Savi del corpo dei Senatori, fu eretto nel 1529, accresciuto poi di altri X nel 1509, al quale furono delegate le liti di privilegi e pretese esenzioni dai dazi, imposte o gravezze delle città, comuni e persone suddite fuori della capitale. Nel 1531, s’instituirono due Provveditori sopra-olii, ai quali, nel 1597, se ne aggiunse un terzo; dessi avevano l’uffizio di mantenere l’abbondanza dell’olio nella capitale, di regolarne il prezzo e quindi di dar fuori il calmiere a norma delle circostanze, e sorvegliare affinché non accadessero contrabbandi. Nel 1537 si instituì il magistrato dei tre Esecutori contro la Bestemmia, il cui incarico era quello di punire i bestemmiatori e coloro che mancavano di rispetto ai luoghi santi, di sorvegliare alle donne perdute, ai forestieri, agli Ebrei, ed in generale al costume; l’economia disciplinare e la quiete della città; in fine alla stampa dei libri. Oltre a questi magistrati si elessero, nel 1524, tre nobili per rivedere, correggere ed ordinare le leggi; e nel 152G si promulgò dal Consiglio dei X la prima legge proibente la stampa di qualsiasi libro senza espressa licenza.

Sebbene ducando il Gritti fu travagliata la Repubblica dalle guerre accennate, e da altri gravi disastri che più sotto registriamo, nondimeno molte fabbriche cospicue si eressero a lustro della religione e a decoro della città. Tali sono, il ponte di Rialto, rovinato nel 1525 e di nuovo costrutto in legno; il palazzo dei Camerlenghi, compiuto nel medesimo anno; la rifabbrica della chiesa di San Giovanni Elemosinano, nel 1527, e l’erezione di quella di Santa Maria dei Derelitti con l’annesso ospedale. Poi nel seguente anno si fondava, da San Gaetano Tiene, la chiesa ed il cenobio di San Nicola da Tolentino; e due anni dopo, si riordinava il tesoro di San Marco, ed si erigeva la cappella Emiliana, o meglio tempietto, presso San Michele in isola. Si rifaceva, nel 1531, la chiesa di San Felice; e tre anni appresso si poneva la prima pietra di quella rinnovata di San Francesco della Vigna; come nell’anno stesso si erigeva, per opera del Sansovino, la grandiosa fabbrica della scuola della Misericordia. Finalmente, nel 1535 e 1536, si decretava la fabbrica della Zecca e della pubblica Libreria.

I disastri, da ultimo, che afflissero, oltre le guerre, la capitale, furono, la peste e la carestia degli anni 1527 e 1528 che, a detta dei cronacisti, superarono la memoria dei viventi; peste che si rinnovò nel 1530: e li due incendi accaduti negli anni 1528 e 1533; nel primo dei quali arsero, in due tempi diversi, il monastero delle Grazie in isola, e i chiostri di San Stefano; ed il secondo che recò gravissimo danno all’arsenale.

Il breve che gira intorno al ritratto del Gritti dice:

IMPERIVM QVOD ARMATVS FORIS, SVMMIS MEIS PERICVLIS AMISSVM RESTITVERAM, DOMI
PRINCEPS, ET ACERRIMIS HOSTIBVS, ET FAME SAEPE OPPVGNATVM ITA CONSERVAVI, VT
NVLLA EX PARTE IMMINVTVM, MORIENS RELIQVERIM. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

SHARE

Lascia una risposta

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.