Antonio Veniero. Doge LXII. Anni 1382-1400

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Antonio Veniero. Doge LXII. Anni 1382-1400

Sei giorni dopo la morte del Morosini gli elettori nominarono Antonio Veniero a succedergli, il quale si trovava allora capitano in Candia. Non appena egli colà ricevette la nuova della sua esaltazione al trono, spedì uno dei suoi al governatore di Candia stessa, pregandolo che a lui si recasse. Vi era tra loro alcuna ruggine, coltre ciò molta disparità di grado: onde il governatore si offese e rispose all’inviato, che se il capitano voleva parlargli sarebbe rimasto ad attenderlo. Rispedì Veniero il messo con ordine di annunziargli che invitavate a nome del capo della Repubblica. Si presentò allora il governatore; e mentre in tuono dimesso cercava scusarsi, Antonio lo interruppe ed abbracciandolo: Vi ho chiamato, gli disse, per ridonarvi la mia amicizia, di cui cercherò a mio potere occasione di darvene prove solenni. Quest’azione generosa onorò il nuovo doge, che sul trono non recava le proprie passioni, ma il solo amor della patria e dei suoi concittadini.

Si imbarcò poi il Veniero sopra una squadra di tre galee di Candia, e giunto sulle coste dell’Istria, trovò ivi dodici ambasciatori spediti ad incontrarlo, secondo l’uso. Sbarcò il 13 gennaio 1383 alla badia di San Nicolò del Lido, dove tutta la nobiltà lo attendeva. Salì sul bucentoro, entrò in Venezia lo stesso giorno, e nel seguente fu coronato. La peste era cessata, e la sua prima paterna sollecitudine si volse a ripopolare la città. 11 mezzo che gli parve più opportuno fu quello di dotare con pubblico danaro le donzelle orfane, e proposto da lui in Senato, venne con applauso approvato.

Intanto liberati si erano i Veneziani dal loro più fiero nemico, Lodovico re di Ungheria, il quale morto, e a lui succeduto Carlo III di Napoli, e quindi, ucciso questi, Sigismondo, marchese di Brandeburgo, la Repubblica spediva ambasciatore prima all’uno, poi all’altro, Pantaleone Barbo, sicché si giugneva a stringere perpetua amicizia con quel regnante.

Ma quella gioia fu turbata dal possedimento delle terre del Trivigiano, del Cenedese, del Feltrino e del Bellunese, ottenuto da Francesco Carrara, signore di Padova, mediante esborso di centomila ducati al duca Leopoldo d’Austria; il che ingrandiva l’animo ambizioso e intraprendente di quel formidabile vicino, e faceva sorgere nella Repubblica nuovi motivi di sospetto e di nimicizia contro Francesco, al quale non poteva perdonare la guerra di Chioggia.

11 Venier però attendeva a riparare i danni sofferti dalla Repubblica dalla guerra accennata, e rifabbricava la detta città di Chioggia quasi distrutta, ne riparava il castello e rimetteva il commercio abbattuto. Quindi rinnovava la solita tregua con l’imperatore di Costantinopoli (1383), stabiliva un doppio matrimonio di una sua figlia con un figliuolo di Francesco Crispo, e del figlio suo Nicolò con Petronilla Crispo, vedova di Giovanni duca dell’Arcipelago, per cui si apriva la via ai Veneziani di venire in possesso di alcune isole nell’Arcipelago stesso.

E già per i torbidi accaduti in Napoli, accadde che l’isola di Corfù venisse in potere della Repubblica nel settembre 1385, il cui atto l’ormale di dedizione é in data 20 maggio 1386: la cessione definitiva da parte di Ladislao re d’Ungheria veniva fatta però soltanto il dì 16 agosto 1402, verso lo esborso di trentamila ducati.

Le turbolenze del Friuli chiamarono i Veneziani a soccorrere gli Udinesi contro il patriarca d’Aquileia, sostenuto dal Carrarese, e gli diedero battaglia, fugandolo in disordine fino nel Trivigiano.

Ma impegnata erasi la lotta col Carrarese. Battuto una seconda volta dal provveditore in campo Pier Morosini, nelle terre di Savorguano, pensarono i Veneziani di unirsi in lega con Giovan Galeazzo, signor di Milano, ed il trattato fu conchiuso da Carlo Zeno, a nome della Repubblica, li 29 maggio 4388. Morto intanto il marchese Nicolò d’Este, il suo successore e fratello Alberto entrò pure nella lega per la promessa che gli sarebbe ceduto il castello d’ Este, e sarebbe ascritto alla nobiltà veneta, che gli fu concessa con decreto 20 giugno 1388. Messe in campo le due armate confederate, strinsero il Carrarese ad offrire proposizioni di pace, che non vennero accolte, e quindi Padova, Trevigi coi lor territori cederono, ed al vecchio Carrara fu assegnata per stanza Cremona, e quindi tratto nelle prigioni di Monza, ivi moriva; ed al giovane fu concesso dimorare con la moglie e due fratelli ad Asti, da dove poi fuggì per andare incontro ad una iliade di mali, che doveva poi finire, dopo di aver ricuperata Padova, all’ultimo suo eccidio. Frutto di queste vittorie fu il possesso del Trivigiano, che i Veneziani occuparono il dì 14 dicembre 1388, ricevendo la consegna di Trevigi Nicolò Zeno, Benedetto Soranzo e Michele Contarini.

Né meno fortunati furono i nostri oltre mare. Argo e Napoli di Romania venivano in loro possesso per cessione fattane da Maria, figlia di Guido de Engino e vedova di Pietro Cornaro, cedute per timore dei grandi progressi dei Turchi, che, già padroni di Adrianopoli, minacciavano d’invadere tutta la Grecia. La cessione di queste isole trasse anche quella di Alesso in Albania, e altri rilevanti vantaggi si ottennero in quel territorio, pauroso delle conquiste di Baiazette. Per reprimere 1’audacia del quale i nostri, con l’Augusto di Oriente, con Sigismondo re d’Ungheria e coi Genovesi formarono alleanza: tal che la flotta ligure con la veneta si unì, e, col piccol numero di legni rimasti all’imperatore di Costantinopoli, si portò all’imboccatura del Danubio. Ma, rotto l’esercito d’Ungheria, partì essa senza aver nulla operato, raccogliendo gli avanzi dei fuggitivi alleati.

La guerra insorta fra il duca di Milano, Firenze e Bologna, e quindi con Francesco Gonzaga, signore di Mantova, chiamarono poco poi i Veneziani ad assistere l’ultimo. In fatti, per i soccorsi a lui dati, principalmente con la flotta al ponte di Governolo, comandata dal valoroso Francesco Bembo, poté egli fermare onorevole pace.

Ma l’inquieto animo del Milanese moveva nuova pugna contro i Fiorentini, e la Repubblica ancora si interponeva a sedar le discordie, intimando a Galeazzo, per mezzo di Michele Steno e di Pietro Emo, di volgere miti pensieri, se non voleva averla nemica: per la qual cosa fu conchiusa pace generale, il di 21 marzo 1400.

In questo stato di pace lasciava la Repubblica il doge Antonio Venier, morendo il dì 23 novembre 1400; ottenendo sepoltura e splendido monumento nel tempio dei Santi Giovanni e Paolo.

La sua rigida osservanza alle leggi é passata in proverbio, ed ci rinnovellò gli antichi esempi della romana severità, condannando il proprio figliuolo. Era questo Luigi, da lui amato teneramente, il quale amoreggiava una gentildonna di casa Rocasi. Insorta fra gli amanti questione, Luigi, in compagnia di Marco Loredano, giovane sconsigliato al pari di lui, si portò di notte alla abitazione della dama, situata in parrocchia di Santa Ternita, e vi disegnò sulla porta la testa di un capro, ovveramente, come altri dicono, un mazzo di corna, aggiungendovi parole insultanti all’onore della moglie, della sorella e della suocera del gentiluomo. Sdegnato il marito, portò il mattino seguente i suoi lagni al tribunale degli avogadori, i quali condannarono i rei, oltre a cento ducati d’oro di pena, anche a due mesi di prigionia. Il doge approvò la sentenza e la volle senza riguardo eseguita. Ammalatosi quindi Luigi, supplicò di essere tratto dal carcere fino a che si fosse ristabilito. Ma il doge fu inesorabile, né si lasciò vincere dalle istanze di molti fra i nobili che si erano interposti per ottenergli la chiesta grazia. Luigi Venier morì in prigione, compianto dalla intera città e dal padre desolato, che sostenne tanto disastro con eroica costanza, lasciando ai posteri un terribile, ma utilissimo esempio di singolare giustizia.

Tra le cose che accaddero nella città, ducando il Veniero, notiamo primamente la venuta in Venezia, nel giugno 1388, di Alberto, marchese di Ferrara, al quale furono mandati ad incontrarlo dodici ambasciatori, e fu quindi ascritto alla nobiltà veneziana. Poi, nel marzo dell’anno seguente, venne il duca di Mantova, e si elessero quaranta nobili, dei quali dieci per giorno dovessero corteggiarlo durante la sua dimora. Anche nel settembre del 1397, visitava la capitale il figlio del duca di Borgogna, e si statuì di spendere cinquecento ducati per festeggiarlo; e, nel agosto dell’anno appresso, giungeva di passaggio per Terra santa, Alberto duca d’Austria, ed era incontrato dal doge col bucentoro.

A queste venute gioconde contrapponiamo le disgrazie, vale a dire, le pesti che desolarono tre volte Venezia, ducando il Veniero. La prima irruppe nel 1393; la seconda, nel 1397, incominciata nell’agosto e durata anche per molta parte dell’anno seguente, registrando varie cronache, perite da oltre 15.000 persone. Narra il Sanudo che fu presa parte, il dì 18 ottobre del detto anno, di dare, a un fra Benedetto dell’ordine dei predicatori, ducati trecento all’anno, il quale si offerse di sovvenire agli appestati, e di seppellirne i morti di quel male. La terza pestilenza, ancor più grave, accadde nel 1400, dalla quale morirono fino cinquecento al giorno, durata dal maggio al 12 agosto, sicché, dice una cronaca, citata dal Gallicciolli, che perirono sedicimila persone.

Molte fabbriche ancora si eressero di questi tempi. A citarle per ordine, ricorre prima la fondazione della chiesa di San Lodovico (Alvise), procurata dalla pietà della nobile matrona Antonia Veniero, nel 1388 si rifabbricò, nel 1389, per opera di Amadeo dei Bonguadagni, la chiesa di San Procolo. Si fondava, nel 1392, il monastero dei Gesuati, per lascito fatto da un Pietro Sassi. Nel 1393, secondo nota il Sanudo, fu costruito l’orologio di Rialto, che suonava 1e ore a comodo dei mercanti. L’anno appresso, si fabbricò la chiesa del Corpus Domini. Nel 1395, si riedificò la chiesa di San Tommaso. Nel seguente anno si fondava la chiesa ed il cenobio di San Sebastiano; e due anni appresso si eresse il campanile di San Giovanni Elemosinano, finito poi nel 1410; si restaurò la chiesa della Madonna dell’Orto, e si ammattonò, lo stesso anno, la pubblica pescheria di Rialto.

11 breve tenuto nella destra del ritratto di questo doge dice, con piccola diversità dal Sanudo :

CRETAE PRAEFECTVS DVX ELIGOR :
MEQVE AVCTORE VNICVS IN VINCVLIS DAMNATVR FILIVS:
ET SI TRISTE, SALVBRE TAMEN EXEMPLVM IVSTITIAE, POSTERITATI MANDANDVM. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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