Ponte de le Tette sul Rio de San Cassan

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Ponte de le Tette sul Rio de San Cassan - Santa Croce/San Polo

Ponte de le Tette sul Rio de San Cassan. Fondamenta de la Stua – Fondamenta de le Tette (Santa Croce/San Polo)

Ponte in pietra; struttura in mattoni e pietre, bande in mattoni intonacati. (1)

Nella parrocchia di San Cassiano, percorsa tutta la Calle dei Boteri, attroversata la Calle de le Carampane e il rio terà omonimo, si giunge al Ponte de le Tette, oggi un piccolo ponte in pietra, già di legno, a cavaliere del Rio de San Cassan, sestiere de San Polo, e la Calle de l’Agnella, sestiere di Santa Croce. Il ponte, sebbene piccolo, ha una storia che risale al Quattrocento, da qualche cronaca narrata ma da molte taciuta, poiché a quel ponte si lega una triste ricordanza dei costumi di allora, che sebbene fossero quelli della maggior parte dell’Italia, pure non erano meno riprovevoli.

Fin dal 1226 il governo di San Marco riconosceva come le meritrici fossero “omnino necessarie in terra ista“, del tutto necessarie in questa terra, ordinando tuttavia che non potessero abitare in case private di cittadini veneziani e fossero confinate a San Matteo di Rialto, in un luogo denominato Castelletto.

Era loro concesso durante il giorno di aggirarsi nei pressi di Rialto, specialmente verso San Cassano, e potevano anche frequentare le osterie all’insegna “dil Mellone, di l’anzolo et dil Saracino“, tre osterie che stavano nel Campo de le Becarie e nelle calli adiacenti, ma verso sera, “come comezava a sonar la prima campana de santo Marco“, tutte dovevano ritirarsi entro il Castelletto, propinquo alla chiesa di San Matteo.

Protestavano i preti di San Matteo per quella non desiderata vicinanza, e la Signoria verso la fine del Trecento assegnava alle meritrici un nuovo quartiere nella contrada delle Carampane a San Cassiano, lontana da qualsiasi chiesa.

Tale contrada aveva preso il nome da Ca’ Rampani, famiglia venuta da Ravenna alla metà del decimo secolo, e tra le prime famiglie patrizie che adotassero in Rialto, estinta però nel 1349 in Nicolò Rampani, avogador di Comun, che lasciava alla Repubblica le sue molte case possedute nella sudetta contrada.

Qui le meritrici, chiamate in quel tempo anche “mamole“, abitarano per qualche secolo “et fo posto al governo di casa di costoro una matrona, over padrona di casa di tolleranza, qual teneva cassa del denaro, et divideva ogni mese a tanto per testa il guadagno“.

Molte furono le leggi a difesa e contro queste povere infelici, ed è curioso un decreto emesso dal Maggior Consiglio in data 10 gennaio 1438 che ordinava: “li Ofiziali di Rialto non possono ricever presenti de ruose, fiori, erbe auliose, ever alcuna altra cosa da le mamole di Carampane, et al zorno de Nadal quel publico logo stia serado, come el stà la vizilia, et per simile da Pasqua“.

Ma i guadagni non erano lauti, ed era ben lontano il lusso delle “honeste cortigiane” che un secolo dopo Vettor Crapaccio ritraeva sul poggiolo di un palazzo, sfarzosamente abbigliate tra i cani, le colombe, i fiori, la frutta; quadro che oggi si ammira nel nostro Museo Correr nella sala dei dipinti.

A diminuire i già scarsi guadagni si aggiunse verso la fine del Quattrocento un vizio innominabile, “abominandum vitium“, che nella corruzione del costume si era grandemente diffuso in Venezia. Quel vizio era la rovina delle abitatrici delle Carampane, e ben lo diceva il patriarca Antonio Contarini presentando alla Signoria una supplica delle stesse con la quale lo si pregava di farsi strenuo patrocinaturo, non potendo esse più vivere poiché “niuno va da loro” a cagione dei peccati contro natura. E sebbene la Repubblica quei peccati punisse con estrema severità, impiccando e bruciando poi il cadavere, condannando al carcere perpetuo, al supplizo della “cheba” in vita o annegando i colpevoli nel canal dei Marani, pure non cessava il vizio infame, così da vedere per le vie uomini in “habito femmineo” e donne di mal affare che, per meglio adescare, prendevano l’aspetto e gli abiti maschili, nascondevano metà della faccia e tagliavano i capelli “a fungo“.

Terribili esempi punitvi erano già stati dati: nel 1459 Giovanni Ierachi, “grecum sodomitam” era stato impiccato a bruciato; nel settembre del 1480, accusato con serio fondamento dell’ignobile delitto, Antonio Loredan, ambasciatore a Roma, fu condannato in contumacia a bando perpetuo; nel 1492 il patrizio Bernardino Correrqual volse forzar per sodomitio Hieronimo Foscari” vene decapitato fra le colonne della Piazzetta e il suo cadavere bruciato; alcuni anni più tardi il prete Francesco Fabrizio per simile delitto ebbe la stessa pena; ma la foga del vizio non restava anzi cominciava ad infiltrarsi anche nel popolo che fino allora ne era rimasto immune.

Fu, a quanto dice una vecchia cronaca anonima, sier Lorenzo Venier che escogitò una nuova e strana idea, e come avogador di Comun fece chiamare tutte le matrone “di la contrà di Carampane” e ordinò ad esse che le “mamole” dovessero d’estate stare alla finestra e d’inverno nel portico a pianterra illuminato, col seno tutto scoperto per allettare i passanti e distoglierli da perverse passioni.

E così fu fatto e nei maggiori postriboli, vicini al piccolo ponte a cavaliere del Rio de San Cassan, fu uno spettacolo curioso e originale che durò qualche anno, ma che battezzò per sempre il ponte della mostra singolare che accanto ad esso si teneva.

Il rimedio però non valse molto. Il popolo nei primi giorni corse a vedere e a curiosare, si facevano commenti e si scambiavano parole grasse, ma qual tale vizio, “abominandum vitium“, non diminuì che alla fine del Cinquecento, lasciando però anche nei secoli dopo qualche caso sporadico nel patriziato nostro, triste ricordo di un ben triste pervertimento. (2)

(1) ConoscereVenezia

(2) Giovanni Malgarotto. IL GAZZETTINO, 4 maggio 1931

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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