Andrea Contarini. Doge LX. Anni 1368-1382

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Andrea Contarini. Doge LX. Anni 1368-1382

Fatte nuove correzioni ed aggiunte alla Promissione ducale, fra cui stabilito che il doge avesse una veste lavorata in oro, tutti i voti degli elettori si unirono, il dì 21 gennaio 1368, nel chiamare al trono Andrea Contarini. Ma egli, che già rispinto aveva per ben due volte quel grado supremo, e si era allora ritirato nel territorio di Padova, in mezzo ai suoi campi, per non incorrere la terza volta nel medesimo caso, allorché vennero a lui dodici senatori a recargli la nuova del suo esaltamento, rispondeva loro: non accettare a qualsiasi costo la dignità. Invano si adoperarono a smuoverlo da tanta fermezza gli amici e i parenti; egli persisté con meravigliosa costanza nel suo proposito.

Senonché il Senato finalmente, tenendosi, per tale risoluzione di Andrea, offeso nella sua dignità, gli spediva un avvogadore ad intimargli di sottomettersi alla volontà della Repubblica, e a dichiarargli, che persistendo nel niego, sarebbe riputato reo di disobbedienza, e ne sarebbe stato punito colla confisca dei suoi beni. Tale minaccia ottenne quanto non avevano potuto conseguire le preci e le esortazioni dei suoi; piegandosi egli da ultimo ed accettando la ducea. Perciò, partitosi dalle sue terre, giunse in patria il dì 27 del medesimo mese, ove fu ricevuto con grandissime dimostrazioni di giubilo.

Poco però stette Venezia in quella pace, in cui lasciata l’aveva il doge defunto, che a turbarla sorse improvvisamente a ribellione Trieste, la quale, fin dal tempo di Enrico Dandolo, venuta sotto l’impero della Repubblica, mal soffriva quel giogo; sicché, tolto a pretesto l’arresto fatto di una lor barca con merci di contrabbando, assalirono la galea veneziana che predata l’aveva, ne uccisero il capitano e parte dell’equipaggio, ricuperando la barca perduta. Pentitisi poscia della colpa commessa, domandarono venia, e la ottenevano sotto certi patti, fra i quali, di ricevere il vessillo di San Marco ed innalzarlo sul palazzo della città nei giorni solenni. Ma allorché si venne al ricevimento di quel vessillo, formalmente si opposero quei cittadini, dicendo voler correr piuttosto la sorte dell’armi.

La Repubblica quindi assoldò truppe terrestri, e spedì Domenico Michieli con la flotta ad assediare Trieste. Tale assedio però si prolungava con alterna vicenda di piccole sconfitte e di vittorie; ma quando furono ivi spediti nuovi comandanti e nuove armi, i Triestini invocarono aiuto da Leopoldo duca d’Austria, al quale promettevano sudditanza. Mandava in fatto il duca sue genti alla volta di Trieste, ed il senato provvedeva tosto alla difesa del Trivigiano e del Cenedese.

Invano si adoperò l’imperator Carlo IV a metter pace, ché l’Austriaco dava vane parole ed intanto si preparava alle pugne. Calato finalmente le milizie straniere, ed incontrato Taddeo Giustiniani, il quale, al loro avvicinarsi, fatto aveva scendere a terra l’equipaggio delle sue galee, tale rotta toccò agli Austriaci, che, abbandonati i Triestini alla loro sorte, tornarono alle proprie terre. Perduta con ciò ogni speranza, discese nuovamente Trieste agli accordi: perciò, il dì 28 novembre 1369, fu convenuto che la città sarebbe consegnata a Paolo Loredano, governatore generale dell’Istria, e statuiti nuovi patti di dedizione, fu nominato Domenico Michieli capitano di quella città, e, a tenerne in freno gli abitanti, si diede mano alla erezione del castello di San Giusto.

Conchiusesi anche la pace coi duchi austriaci, non senza però gravi difficoltà, il dì 20 ottobre 1370, in Lubiana; per la quale cedevano e trasferivano, verso il compenso di settantacinquemila ducati, alla Repubblica, tutte le ragioni ed azioni che aver potessero nella città, castella, terre, luoghi e giurisdizioni pertinenti a Trieste.

Non doveva però Venezia goder pace durante il fortunoso ducato del Contarini. Difatti, Francesco da Carrara, signore di Padova, mal potendo sottostare ai patti dell’ultima convenzione statuita con la Repubblica, colse la opportunità, nella quale impegnati i Veneziani, prima nelle guerre contro gli Ungheri, poi a domare la ribellione di Candia, e finalmente stretti dalla guerra di Trieste, colse, si diceva, occasione per erigere due fortezze, una a Castellaro, l’altra ad Oriago, stabilendo in quest’ultima un mercato settimanale franco di gabelle; ed aveva poi fatto tagliare argini e fossi vicini al Brenta, meditando di costruire anche una salina, ad onta dei patti statuiti; onde la Repubblica domandava a lui ragione: ed egli a rincontro sosteneva, essere suo il terreno ove praticato aveva quelle novità; desiderare però mantenere la pace con la Repubblica.

A por termine alle controversie invano s’intromisero il cardinale legato di Bologna, l’arcivescovo di Ravenna, il marchese d’Este, i Comuni di Firenze e di Pisa, e perfino lo stesso Lodovico, re d’Ungheria, invocato dal Carrarese per soccorsi; poiché la giunta incaricata di decidere le questioni non venne a conclusione veruna; sicché, scorsi li due mesi fissati alla tregua, fu da ultimo dichiarata la guerra.

A farsi forte il Carrarese domandò aiuto a parecchi principi stranieri, e più degli altri quello invocò nuovamente del re d’Ungheria; il quale, rompendo, per gelosia di dominio, i patti giurati, promise al da Carrara il suo braccio. Difatti, pubblicava egli un manifesto, col quale dichiarò guerra alla Repubblica; manifesto giunto al Carrarese il dì 26 febbraio 1373.

Intanto il Carrarese stesso, non si fidando abbastanza delle sue forze, pensò valersi delle astuzie e del tradimento. Quindi trasse al suo partito alcuni nobili veneziani; divisava la morte di alcuni altri, che sapeva a lui contrari; e perciò spediva a Venezia sicari, anche per avvelenare i pozzi, o sì veramente per appiccar fuoco; ma scoperti, vennero dannati, provvedendosi quindi di guardie e d’altri rimedi per rendere incolume la città da ogni tranello.

Assoldavano i Veneziani da prima, come capitano delle genti da terra, Rinieri del Guasco, e ordinarono le loro truppe a Mestre, sotto i provveditori Andrea Zeno e Domenico Michieli; poi per le discordie nate fra questi e quello, e per la rotta toccata a Narvesa dai nostri, condussero ai loro stipendi Francesco degli Ordelafi, e quindi Giberto da Correggio, e fortificarono e ben munirono le terre del Trivigiano e dell’Istria, essendo questa minacciata dalle armi ungariche scese in aiuto del Carrarese.

Essendo poi le nuove trattative incoate, per ridursi alla pace, riuscite a nulla, continuò più accanita la guerra. E già il re d’Ungheria aveva spedito in Italia suo nipote, Stefano voivoda di Transilvania, in sostituzione di Benedetto Ungaro, da prima mandato come rettore dell’esercito; e quindi, pervenuto a Cittadella, ove ricevé nuovo rinforzo di genti guidate dal vescovo di Strigonia, unito alle genti del Carrarese, presentò ai nostri battaglia, il dì 14 maggio 1373, la quale, dopo alterna vicenda, fu vinta dai Padovani e dagli Ungheri uniti, con molta strage dei Veneziani; secondo più divisatamente racconta lo storico Gattaro.

Pervenuta la nuova a Venezia, non é a dire di quale e quanta amaritudine tornasse ai cittadini, massime per la perdita di tanta gente valorosa, parte caduta in campo, e parte rimasta cattiva. Se non che si pensava tosto a riparare al danno col raccogliere nuove genti e nuove armi. Narra anzi lo storico citato, avere i nostri dedotto cinquemila Turchi in loro aiuto, i quali, armati d’arco e di scimitarra, erano terribilissimi anche alla vista. Il Sanudo dice in quella vece, che erano arcieri venuti di Candia, che si appellavano Mortari. Questi adunque si recarono ad aumentare le forze rette dal Correggio e da Pietro Fontana e Leonardo Dandolo provveditori, come dice il Sanudo; il primo dei quali si trovava chiuso nella bastita a Lova, non sì però che non avesse allora fatta una sortita e tagliato gli argini a Borgoforte, in modo che le acque dell’Adige allagato avevano più ville del Padovano.

La venuta di quelle genti pose speranza in cuore al Correggio di vendicare l’onore perduto. Pertanto, sì esso che il Fontana, peroravano le raccolte milizie; prometteva loro argomento di soldo e premio, se avevano animo di entrare a forza nella Pieve di Sacco, e prendere ed abbruciare la bastia del Carrarese. Univa quindi tutta l’oste il dì 29 giugno 1373, ed incominciò a scavare una fossa, e formare un bastione, che per il sito tornava dannoso al Pievato, e funesto certamente a tutto il distretto.

Risolse allora il Carrara di abbattere quelle opere ad ogni costo, e quindi usciva pur egli in campo il di primo luglio, con animo di tentare una seconda battaglia. Chiamò il voivoda, ed ordinò le sue genti in tre schiere. Della prima assunse il comando il voivoda stesso, della seconda ne ebbe l’imperio il Carrara, l’ultima ressero i migliori cavalieri patavini.

Il da Correggio ed i provveditori invece disposero le loro milizie in due falangi; nella prima delle quali posero i cavalieri, e nell’altra i fanti, coi quali ultimi mescolarono oltre mille balestrieri ed oltre quattromila arcieri Turchi o Candioti, e retro a questi fecero seguire la gente d’armi coi vessilli. Il voivoda iratamente corse a percuotere quelle genti, molti di loro stendendo sul campo; ma la moltitudine dei Candioti feriva nei cavalli e negli uomini con numero immenso di dardi, attalché, narra lo storico Gattaro, l’aria ne era oscurata. La battaglia fu durissima, e il voivoda operò grandi prove di valore: ma da ultimo, non potendo gli Ungheri sostenere il saettamelo dei Candioti, si sgominarono, si ruppero, e la rotta loro trasse seco quella anche dell’intero esercito padovano. Immenso fu il numero dei morti e quel dei prigioni, fra i quali ultimi si annoverarono lo stesso voivoda, Rizzardo conte di Sanbonifazio e vari altri distinti.

La nuova di questa splendida vittoria fu ricevuta in Venezia con gioia smodata, e fu decretato per tutti gli anni avvenire il primo luglio giorno solenne, già memorabile per altre due segnalate vittorie conseguite in passato.

Questa rotta decisiva poneva il Carrarese alla necessità di domandar pace alla Repubblica. Perciò pregava il pontefice Gregorio XI d’interporsi colla sua autorità; e questi spediva a Padova Tomaso da Frignano, patriarca di Grado, per tenere le pratiche opportune. Desideravano, dall’altra parte, anche i Veneziani di venire a pacificamento col Carrarese, ma destreggiavano in guisa da indurre Francesco a chiedere primo gli stessi lor desideri. Non fu difficile quindi che il patriarca inducesse il Carrarese a discendere agli accordi; e perciò, avuta da lui una lettera chiedente pace, si portò a Venezia, ed in breve poté egli raccostare insieme le offerte dell’uno, le pretendenze degli altri, ed acconciò le discrepanze. Due ambasciatori del Cararrese, Agostino da Forlì e Paganino da Sala, spediti a Venezia, ritornarono a Padova col patriarca di Grado, recando le condizioni della pace, per verità alquanto dure, ma che in quegli stremi accettar si dovettero dal consiglio adunato dal Carrarese. Fra le quali condizioni erano queste: pagherebbe il Carrarese a Venezia quarantamila ducati a compenso delle spese, e altri duecentocinquantamila in quindici anni: andrebbe in persona, o manderebbe il figlio a chieder perdono al doge: consegnerebbe varie terre e fortezze, accennate, alla Repubblica: non potrebbe fabbricar nuovi forti a sette miglia dalle acque che vanno alle palafitte di Venezia e di Chioggia: demolirebbe quelli fatti: si adoprerebbe a pacificare Venezia col re d’Ungheria.

Per adempimento di tali patti mandava il Carrarese, con altri nobili, il proprio figliuolo Francesco detto il Novello; e perché fosse accompagnato da un uomo famoso, caro anche ai Veneziani, pregava il Petrarca di farsi al di lui figlio compagno. Giunsero quindi a Venezia il dì 27 settembre 1373, fra le più amiche accoglienze. Si deputò alla udienza il secondo giorno di ottobre, e doveva il Petrarca profferirvi un discorso, che rispondesse alla dignità dell’assemblea ed alla importanza dell’argomento. Ma quando fu nel cospetto del Senato, gli sembrò di vedere, come dice egli medesimo, un consesso non di uomini, si bene di Dei, e smarrì la favella. Solamente la dimane, rinfrancata la lena ed apparecchiato lo spirito, ruppe in parole che gli valsero gli applausi di quella adunanza, da lui paventata.

Ricondotta la pace in riguardo al Carrarese, rimaneva stabilirla coi duchi d’Austria; ma le pratiche non riuscirono a nulla; anzi, rotte queste, il duca Leopoldo penetrava, nel marzo 1376, con tremila cavalli nel Trevigiano commettendovi gravi guasti. La Repubblica allora ordinava la riedificazione dei forti a Marghera, mandava milizie a Treviso, ed altri molti provvedimenti disponeva, spedendo anche ambasciatori al Carrarese, al marchese d’Este, agli Scaligeri, al Visconti, onde avere soccorso; ma poco, oltre alle promesse, otteneva.

Treviso intanto assalita, era valorosamente difesa da Pietro Emo; e Marino Soranzo si avanzava fin sotto Feltre, e prendeva la chiusa di Quer, usando, per la prima volta, di una specie di cannone, detto lombardella. Assoldava poi la Repubblica Jacopo dei Cavalli; e la guerra quindi procedeva con alterna vicenda; finché, per mediazione del re d’Ungeria, fu conchiusa una tregua, il dì 3 novembre 1376, ed a questa seguì la pace; per la quale fu restituita ai Veneziani la rocchetta di San Vittore e della Chiusa.

Ma queste furono guerre di poco momento a petto di quella che stava per rompere Genova, gelosa e rivale mai sempre della gloria e della potenza della veneziana Repubblica. Le cagioni antiche e nuove che la mossero ora alle armi, narrammo diffusamente nella illustrazione della Tavola CXLVII. Nondimeno qui brevemente le riepilogheremo, onde non rompere il filo ordinato della storia.

Morto Pier Lusignano, re di Cipro, e salito al trono il figlio suo, di egual nome, volle esso coronarsi in Famagosta siccome re di Gerusalemme. Invitati a quella cerimonia i ministri delle nazioni tutte, nacque discordia per la primazia del luogo fra il ministro di Genova e quel di Venezia. Pretendeva il primo preceder l’altro al corteo, e, non assentendolo questi, il genovese accende la disputa, induce confusione e disordine; ma i Cipri, tolta a proteggere la causa del veneziano, acquetano per quell’istante il tumulto. Ma poi si rinnovò in mezzo alle mense, e, invece di lieti evviva e di libamenti giocondi, i Genovesi innalzano grida, e da queste discendono alla battaglia, ai pugnali, alle ferite, e turbano, ospiti incomodi, tanta festa solenne. Senonché la reggia commossa di nuovo a favore dei Veneziani, e insegue e caccia i tumultuanti fin fuori dell’isola, dalla quale trasportano ogni lor cosa.

Seppe Genova il fatto, e nella ebbrezza dell’ira sua giurò a Venezia vendetta. Quindi stringeva lega col Carrarese, col re d’Ungheria, col patriarca d’Aquileia, e con Gherardo da Camino, conte di Ceneda. Per la qual cosa dalla sua parte Venezia si stringeva col duca di Milano Bernabò Visconti e col re di Cipro; i quali però, nelle aspre guerre che seguirono, poco o nulla le diedero aiuto.

Allestiva quindi tostamente la Repubblica una flotta di quattordici galee, e ne dava il comando supremo a Vittore Pisani, il quale scioglieva dal porto nell’aprile dell’anno 1378. Scorreva da prima Vittore la spiaggia ligure; predava le navi nemiche; prendeva Cattaro e Schenico; dava assalto a Traù; assediava ivi la classe di Genova; né poteva conseguire l’intento. Si riparava a Pola assottigliato, principalmente per il malore che introdotto si era nelle sue milizie. Riceveva colà un rinforzo di undici galee e l’ordine di scortare le navi onerarie, che in Puglia si recavano alla provvista di grani. Lungo il golfo si abbatté nel nemico, e fu inevitabile l’attacco. Al primo scontro rimase ferito; ma non smarrisce d’animo, e si pugna ferocemente, da obbligare Luciano Doria coi suoi a ritirarsi, inseguito fino a Zara.

Se non che il nemico tornava alla pugna, e sotto Pola, ove era ritornato Vittore, giungeva. Muniva il Pisani il porto e stava parato alle difese; ma ardendo nel petto dei suoi il desiderio di pugna, vide egli il pericolo, e radunò consesso di guerra. Nel quale, prevalendo sulla sua, l’opinione generale degli altri, fermò, quantunque repugnante, di venire alle mani. E venne in fatti lì tosto. Già le due squadre affrontate si sono, già si batton con pari valore, già cade estinto il supremo comandante dei Liguri, già i Veneti inseguono vincenti i nemici. Quand’ecco sbucar improvvisa dalla baia una squadra nascosta, la quale piomba impetuosamente su quella di Vittore, l’assalta di fronte, la rompe nei fianchi e converte la sperata vittoria in lutto e ruina. Quindici galee, ventiquattro patrizi, molte milizie e marinai furono il frutto della fortuna dei Liguri. Salvatosi il Pisani con le reliquie della sua squadra a Parenzo, dava notizia alla patria della toccata sconfitta.

La fatale nuova sparse in Venezia desolazione e terrore; e diede argomento ai nemici del Pisani di accagionarlo di colpa, accusandolo d’imprudente e pusillo animo; per cui si richiamò a render conto, avvinto fra i ceppi.

Vi giunse egli, e ad onta che il popolo fremesse nel vedere quel valoroso braccio stretto in catene, pure, venuto innanzi al Senato e gli Avvogadori, era dannato quel prezioso capo alla morte. Il Senato però tramutava l’ingiusta sentenza in un anno di carcere, in cinque anni di esclusione da ogni pubblico uffizio e nel pagamento di grave emenda.

Ciò non di manco mormorava il popolo, e le milizie minacciavano non voler altro capitano. Il Senato però, forte era nella sua risoluzione, né porgeva orecchio ai clamori, e pensava solo al riparo del sovrastante pericolo: ma il pericolo giungeva; e già dalla torre marciana si scorgevano le liguri antenne inseguenti una nave oneraria, prenderla, spogliarla, e quindi incendiarla. Poi baldanzosi spingono le prore, attaccano l’isola di Pelestrina, se ne impadroniscono, la mettono in fiamme. Procedono poscia in vèr Chioggia, discendono; e qui con il ferro, là con le fiaccole spargono desolazione e terrore.

Il Senato allora allestì una flotta, raccolse artigiani, chiamò il popolo alla difesa. Ma il popolo negò di prestar obbedienza al supremo comandante Taddeo Giustiniani, dicendo, non voler dare il sangue alla patria se non guidato da Vittore Pisani; questo essere il solo atto a salvarlo dalla imminente rovina; questo aver l’amor suo; questo volere. Allora ruppe la moltitudine in voci alte e terribili: si cavasse Vittore di prigione, si desse loro a capitano, con esso voler combattere. Si turbarono i padri, e dopo lungo consiglio decisero, che si togliesse l’innocente dai ceppi. Si conversero allora le irate voci in giulive; il popolo accorse al ducale Palazzo ad incontrarlo; ma egli non volle uscire che il dì appresso, nel quale riceveva fra le acclamazioni del popolo il gonfalone di capitano generale.

Assunto il comando, si diede il Pisani con ogni sforzo a sollevare le abbattute speranze, provvedendo alla migliore difesa delle patrie lagune minacciate dai Liguri, che già occupavano Chioggia. Ma il pericolo era imminente e gravissimo, e tanto, che credé utile il Senato di richiamar dall’Oriente l’invitto Carlo Zeno, e procurare la pace. Frattanto però che lo Zeno si apprestava a volare in difesa della patria pericolante, e che al tutto tornavano vuote le pratiche promosse per stabilire un accordo, più e più sempre aumentavano i mali: e già i Liguri occupato avevano Malamocco, che giace sul lido del mare non lontano che sole cinque miglia dalla capitale.

Se non che irritati erano gli animi dei Veneziani per le orgogliose ripulse di Pietro Doria, il quale, lungi dall’accogliere le proposizioni di pace, espresso aveva, che solo a quelle avrebbe inchinato l’orecchio, allorquando egli di sua mano posto avesse la briglia ai quattro cavalli di bronzo eretti sull’arco esterno maggiore della marciana basilica. Per la qual cosa statuirono di compiere ogni sforzo e i sacrifici più cruenti per trionfare di tanta animosità e salvare la patria. Si travagliava però assai nella città, sia per il caro dei viveri, e sia per lo continuo approssimarsi dei legni nemici nell’uno o nell’altro canale della laguna. Il passaggio dei quali tutti era impedito o da legni affondati, o veramente da confitti pali; ed il Pisani scorreva qui e qua a difendere quelle chiostre. Si statuiva intanto di armare trentaquattro galee, e si allestivano infatti in brevi giorni, venendo preposti al comando di esse i senatori più valorosi.

Il dì 14 settembre 1379 però, secondo narra il Sanudo, corse un grido nella piazza di San Marco: I nemici si partono. E subitamente quella voce volando perveniva nel cortile del Palazzo ducale, e uditala il doge, disse: E forza ora che tutti montiamo in galea, poiché Dio sarà per noi, essendo la giustizia dal lato nostro. Ciò detto di buon animo, quantunque grave d’anni, scese il Contarini nella piazza col gonfalone ducale, a confortare il popolo abbattuto, ad eccitarlo in difesa della patria pericolante; né guardando alla senile sua età, a proferirsi egli stesso siccome capitano, volendo dare solenne esempio ai cittadini di seguirlo tutti alla magnanima impresa. Non era però tuttavia allestita la flotta, ma frattanto scorreva il doge le circostanti lagune a guardarle e a difenderle dalle nemiche sorprese, e per sopperire alle gravi spese, il Senato stimolava i cittadini, con la promessa di futuri premi, a recare quanti aiuti potevano, sia colla borsa, che con la persona. Difatti, si vide a torme concorrere il popolo ad offrire sull’altar della patria vita e sostanze. I soli prestiti salirono alla somma rilevantissima, per quei tempi e in quelle circostanze di lire 6.294.040, secondo la nota preziosa conservataci da una cronaca, in cui si riscontrano, per ogni contrada, i nomi di tutti i censiti che in quella occasione fecero prestiti.

Né questi furono i soli soccorsi. Le donne veneziane anch’esse si recarono a gara nel dare al pubblico erario smaniglie, gemme ed altri preziosi ornamenti, e tanto che il Senato, in più tarda stagione, volle che questo fatto magnanimo fosse dipinto nel soppalco dell’aula maggiore del Palazzo ducale, che da noi compreso in questa opera veder si potrà inciso alla Tavola CLX. Allestita finalmente la flotta, il dì 21 dicembre 1371, arringato il popolo, saliva il doge nella galea di Luca Contarini, e partiva onde stringere in Chioggia ed oppugnare il nemico.

Ivi giunto il Contarini, ed unitosi a Vittore Pisani, contennero tosto gli avversari che osavano spesso uscire baldanzosi dal forte di Brondolo. Se non che le diuturne fatiche indussero stanchezza, e quindi malcontento nelle ciurme, sicché, fattosi consiglio, si statuiva, dopo assai discussioni, di ritornare con l’armata a Venezia.

Erano in tali agitazioni terribili i Veneziani, quando sul romper dell’alba del primo gennaio dell’anno 1380, scopersero nell’alto mare venir verso Chioggia alquante vele, ed erano quelle appunto della sospirata flotta guidata da Carlo Zeno, composta di diciotto ben munite galee. Una burrasca accaduta però il dì appresso recava assai danno alla classe di Carlo; e ciò porse occasione ai Genovesi di tentare l’assalto del castello di Lova. Ma lo Zeno con tre galee, vinta l’ira dei flutti, vinse poi e sgominò l’oste avversa.

Se non che la stagione contraria alle opere marittime, pochi dì dopo, suscitò nuova tempesta. Per la quale, spezzatesi le funi che tenevano la galea dello Zeno, trasportata fu dessa dai marosi a battere nei fondamenti della rocca di Brondolo, tenuta dai Genovesi. I quali, temendo l’assalto, accorsero alla difesa, e tante armi scagliarono sulla galea malarrivata, che alfine una freccia giunse a conficcarsi attraverso alla gola di Carlo, il quale non di manco continuò a percorrere alacremente la coperta della sua galea, dando ordini per condurla fuor di pericolo.

Ma questa nuova ferita, aggiunta alle altre ricevute e non per anco saldate, gli tolse modo di poter continuare più a lungo nella sua intrepidezza. Egli cadde nel mezzo della galea, e dall’apertura di una boccaporta precipitò, a capo innanzi, in fondo alla stiva. Giunto quasi agli estremi momenti di vita, si voleva tradurlo a Venezia, ma egli alle preghiere del doge e dei suoi cari non piegò l’indomito animo, dicendo che se doveva perire, amava perire nella sua propria galea, meglio estimando morire appo i suoi compagni di guerra, di quello sia cercar guarigione fra le mura domestiche.

Si riebbe però dalle ferite ben presto, e tornava animoso alle pugne, le quali comandava siccome capitano, abile come era anche nelle battaglie sui campi. Recatosi a Pelestrina, rianimò le milizie scorate, ed acquetò le tumultuanti. Poi, ritornato a Chioggia, dispose la sua armata in tre corpi, tenendo egli quello del centro, e si volse ad attaccar la battaglia, cogliendo vittoria splendidissima, contando i nemici tremila estinti, oltre Pietro Doria loro capitano supremo. Poi li cacciava dal forte di Brondolo, intanto che Vittore Pisani fugava la classe nuovamente spedita da Genova a rinforzo; per cui cadde l’animo del rimanente presidio di Chioggia, menomato già dalle continue diserzioni e dalla fame crescente. Venuto meno pur anche il disegno concetto di un tradimento, pensò alfine di rendersi. Quindi mandava al doge un Tito Cibo con altri deputati, supplicando avesse pietà a lor condizione, non chiedere né oro, né armi, né altro; domandar solo vita e libertà. Contarini rispose: accordar vita, non libertà; essere questa la risoluzione del Senato, mite, se si consideri al crudo odio dimostrato da Genova contro Venezia. Ricusarono in prima gli inviati; stretto poi il presidio da fame, acconsentiva; aprendo le porte di Chioggia, il dì 22, o, come altri dicono, il 24 giugno 1380. Lo Zeno entrava con un drappello dei suoi, dava il sacco con ordine, divideva le spoglie.

Il presidio, composto di 4170 Liguri e di 168 Padovani, fu tratto a Venezia cattivo. Frutto della vittoria furono ventuna, o, giusta altri, diciassette galee. Lasciato Saracino Dandolo al comando della piazza riavuta, pensò il Senato di dare al ritorno del doge un aspetto trionfale. E lo ebbe infatti, siccome narrammo nella illustrazione della Tav. CXLII, la quale reca inciso il dipinto di Paolo Veronese, che rappresenta appunto quel trionfo, e che in età più tarda si volle decorasse la Sala del Maggior Consiglio.

Non era però cessato il pericolo. Poiché Matteo Maruffo, che comandava la flotta di Genova, e che non aveva potuto recare soccorso a Chioggia, impedito dal valore e dalla vigilanza dello Zeno e del Pisani, veniva da Zara in Golfo, ed accresciuto di forze dalle galee guidate da Gaspare Spinola, con l’aiuto anche delle milizie terrestri del patriarca di Aquileia, acquistava Trieste, Arbe, Pola, Capodistria, e nuovamente si avanzava verso la capitale. Dava ordine allora il Senato a Vittore Pisani di uscire a combatterlo; ed egli, con quarantotto galee, volava subitamente a ricuperare Capodistria e a devastare le coste della Dalmazia, volgendosi qui e qua in cerca della classe nemica per oppugnarla; e finalmente, recandosi sotto Cattaro, questa assaliva e conquistava. Intorno alla quale ultima impresa si veda l’illustrazione della Tavola CLXXVI, ove é inciso il dipinto di Andrea Vicentino, che la rappresenta.

Si portava poi il Pisani in Puglia con l’intendimento di sorprendere dodici galee genovesi colà stanziate; le quali, avvisate a tempo, si allontanarono da quei paraggi, ed il Pisani, inseguendole, impegnò un combattimento, in cui egli rimase ferito, senza poter impedire che trovassero i nemici salvezza nella fuga. Da quelle ferite moriva quindi l’eroe in Manfredonia il dì 13 agosto 1380.

Carlo Zeno, che lo surrogava nel comando generale, partito dalla Puglia, incendiava Zara, sommetteva Veglia e ritornava in patria vittorioso.

Le cose però della guerra combattutasi nella prossima terraferma peggioravano. Poiché il Carrarese stringeva più sempre Treviso; Castelfranco e Noale si erano date al nemico, ed in sua fede tentennava Serravalle; sicché la Repubblica, scorgendo di non poter salvare quei suoi possedimenti, affinché non cadessero in mano del Carrarese aborrito, li cedeva al duca Leopoldo d’Austria, il quale prendeva possesso di Treviso il 2 maggio 1381.

Frattanto alla novella stagione di questo medesimo anno, Carlo Zeno entrava in mare, si recava a Modone affine di proteggere i navigli di commercio; volteggiava quindi per l’Adriatico in cerca della flotta nemica, che evitò la battaglia; poi si dirigeva verso la riviera di Genova, ma cólto da fiera burrasca, si riparava a Livorno. I vari scontri, che accaddero in seguito, non conducevano a veruno risultamento decisivo; perciò ne venne che si trovarono non domate ma stanche ambedue le parti.

Allora Amedeo conte di Savoia offerse la sua mediazione, che fu accolta. Per tanto convennero a Torino gli inviati di Venezia e di Genova, quelli del re d’Ungheria, di Francesco da Carrara, del patriarca di Aquileia; ed anche i comuni di Firenze e di Ancona mandarono i propri oratori. Dopo alquante difficoltà, fu conchiusa la pace, col trattato 8 agosto 1381.

Pervenuta la nuova a Venezia, dopo rese solenni grazie al Signore, si radunava, il dì 4 settembre seguente, il gran consiglio, per dare esecuzione al decreto, statuitosi già fino dal dicembre dell’anno precedente, col quale si prometteva, che, al cessar della guerra, sarebbero ascritti alla nobiltà veneziana trenta fra coloro che più avessero aiutato la patria. Difatti dei sessanta proposti ai voti ne rimasero trenta, i cui nomi si leggono in parecchi documenti, ed oltre a questi si concesse il medesimo onore a Jacopo Cavalli, che aveva fedelmente servito siccome capitano dell’armi terrestri.

Poco godé della pace doge Andrea che, domato dagli anni e dal malore che incolto lo aveva, moriva il dì 5 giugno 1382, in mezzo al compianto generale dei cittadini; ed ottenuti splendidi onori funebri ed elogio, veniva tumulato, entro una cassa di eletto marmo, nel chiostro di santo Stefano.

Al suo tempo accaddero vari fatti nell’interno della capitale. Nel 1373 fu per la prima volta accordato agli ebrei di fermarsi per cinque anni a Venezia. Nel 1370, secondo il Sanudo, qui venne l’imperatore Carlo IV con la moglie, e nel 1377 veniva pure Valentina Visconti, moglie del re di Cipro. Si fondava, intorno il 1375, il cenobio del Corpus Domini, ed si incendiava il monastero delle Vergini, nel 1368. Si decretava ai dì 14 gennaio 1370, che gli stendardi della piazza fossero costrutti più nobilmente, e si scavava, per la prima volta, nel 1380, il canal grande. Oltre la guerra poi, desolava Venezia la peste durata dal marzo all’ottobre del 1382, dalla quale perirono da circa 19.000 persone.

Il breve tenuto nella manca mano dal ritratto di questo doge dice, con alcuna diversità dal Sanudo:

ME NVLLA TACEBIT AETAS, CVM LANVENSES
PROFLIGAVERIM CLODIAMQVE RECEPERIM,
ET A MAXIMIS PERICVLIS PATRIAM LIBERAVERIM. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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