Sebastiano Ziani. Doge XXXIX. Anni 1172-1178

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Sebastiano Ziani. Doge XXXIX. Anni 1172-1178

Prima di eleggere il principe nuovo, parve necessario provvedere a più regolare e ferma costituzione delle supreme magistrature dello Stato, e massime del doge; e frenare, in pari tempo, la licenza del popolo, che si manifestava frequentemente con tumulti ed atti violenti. Impresa era questa di grave momento, sicché occorsero da ben sei mesi prima di poterla mandare ad effetto. Finalmente si convenne di scegliere dodici elettori, due per sestiere, i quali, nominando ciascuno quaranta dei migliori cittadini, risultasse un Consiglio di quattrocentottanta individui, da rinnovarsi ogni anno il giorno di San Michele, per opera di nuovi elettori designati dallo stesso Consiglio. Al quale Consiglio spettava la distribuzione degli uffici, a maggioranza di suffragi, e preparare le leggi e gli oggetti da sottoporsi alla pubblica concione. Nelle cose poi di grave importanza, massime riguardanti l’esterna politica, si proseguì a convocare il Consiglio dei Pregadi, che disponga le materie da proporsi al Consiglio maggiore. In fine, a limitare più sempre il potere del doge, alti due suoi consiglieri, se ne aggiunsero altri quattro; e venne ancora a lui tolta la facoltà di stabilire nei trattati, coi principi e Stati esteri, condizioni speciali a favore di sé e del proprio commercio. Se ristretto si volle il potere del doge, si amò per altro che la di lui pompa esteriore venisse accresciuta, e resa più sacra e Intelata la sua persona. Si ordinò quindi che al suo comparire in pubblico avesse corteggio di nobili: ogni quattro anni gli giurasse il popolo fedeltà, per mezzo dei capi di contrada: alla sua elezione, fosse portato per la piazza su un rotondo sedile, chiamato poi pozzetto, spargendo danaro al popolo, giusta il costume degli Augusti orientali.

Se cotali mutamenti tornarono grati ai cittadini, non lo fu però quello che introdurre si volle circa l’elezione del doge. Ed era, che d’allora in poi undici elettori, scelti dal maggior Consiglio, si ridurrebbero nella Basilica di San Marco, ed ivi procedere alla scelta del nuovo doge, che riportar dovrebbe nove suffragi tra gli undici, ed esser quindi sottoposto all’approvazione del popolo. Lo scontento generale per questa nuova legge ruppe in fiero tumulto, e poco mancò non si venisse a spargere sangue fraterno; sicché fu duopo che alcuni maggiorenti, a calmare gli animi, s’infrapponessero, persuadendo il popolo, che il nuovo regolamento era diretto soltanto per introdurre miglior ordine nella elezione, la quale, facendosi pubblicamente nella Basilica, ed abbisognando dell’approvazione del popolo, lasciava a questo salvo il suo diritto. Fu stabilito quindi unanimamente, che il nuovo doge verrebbe presentato al pubblico, dicendo: E’ questo il vostro doge, se vi è grado. Tale conferma si ridusse in seguito ad una semplice forma, e venne anche questa ommessa del tutto, mano mano che la Repubblica diveniva aristocratica.

Con questa nuova regola fu primamente eletto doge, per il suffragio degli undici, Sebastiano Ziani uomo dotato di molte virtù, ricco di censo e caro al popolo: sicché quando fu presentato alla moltitudine, essa ad una voce lo applaudi, gridando: Viva il doge, e Dio voglia ch’ei ci procuri la pace: e tosto, preso da alcuni sugli omeri, fu recato intorno per la piazza; ed egli, a norna dello stabilito, gettò monete al popolo affollato. Una legge dappoi determinò la somma che il doge doveva largire in quella occasione, e fu dai cento ai cinquecento ducati.

Primo atto dello Ziani fu di punire Marco Casolo, assassino del suo predecessore; poi regolò sapientemente le finanze dello Stato, le quali, essendo in basso, e dovendo far fronte alle spese occorrenti a sostenere la lega lombarda, non potevano bastare; sicché dal Consiglio decider fece la sospensione dei pagamenti a saldo dei prestiti contratti coi cittadini.

Conosciuto poi che la pace era suprema necessità, spediva nuovi ambasciatori ad Emmanuele, alfine di conchiuderla. Ma essendo tornato vano ogni argomento, e nuovi messi per conseguirla, pensar si dovette a continuare la guerra; e per ciò fare più validamente, si fermò un trattato di alleanza con Guglielmo I, re di Sicilia. Poi, a fine di togliere all’impero orientale l’importante punto d’appoggio che aveva in Italia, la città di Ancona, allora assediata per terra dalle armi devote a Federico Barbarossa, fu spedita la flotta per stringerla anche dal lato del mare. Soccorsi però a tempo gli Anconetani da un esercito di Lombardi e di Romagnoli raccolto dalla contessa Bertinoro e dal Marcheselli, signor di Ferrara, e sopraggiunto il verno, dovettero i Veneziani ritirarsi, conchiudendo però, con quelli di Rimini, un trattato, per lo quale fu chiuso agli Anconetani per lungo tempo perfino l’uscita del porto loro.

Federico frattanto era sceso in Italia con nuovo esercito; e già, incendiata Susa, preso Asti, e posto in vano l’assedio ad Alessandria, si ritirava a Pavia, ove, a fine di guadagnar tempo, propose nuove condizioni di accomodamento alla Lega. Le quali tornate senza effetto, da che l’imperatore seppe che dalla Germania gli pervenivano nuove genti, giunte queste si pose alla lor testa, e, nei campi di Legnano, presentava battaglia ai confederati italiani. Non è a dire con quale e quanto ardore pugnarono Milanesi, Bresciani, Piacentini, Lodigiani, Novaresi, Vercellesi, che soli si trovarono congregati a fronte degli Alemanni. La storia registrò con splendida nota quel fatto, che forma una delle più care glorie d’Italia. Basta dire che l’imperatore fuggì in guisa, che corse voce, fra i suoi, che fosse rimasto sul campo, per cui l’imperatrice, a Como, assunto già aveva il lutto.

Tale sconfitta poneva in fondo ogni speranza di riscossa nell’animo di Federico; sicché se più volte, fino allora, con subdole arti aveva mostrato di curare la pace col pontefice Alessandro III, adesso, rimessi gli spiriti, si decise fermamente a trattarla; e, per ciò fare, scrisse al doge più volte impegnandolo a farsi mediatore, mettendo in suo arbitrio trattarla. A questo si unirono i re di Francia e d’Inghilterra, e sì che al fine ben preparate ed avviate le pratiche, Federico mandò gli arcivescovi Guglielmo di Magileburgo, Cristiano di Magonza e Pietro vescovo di Vorms ad Anagni, ove si trovava il pontefice; e fu conchiuso che l’imperatore riconoscerebbe Alessandro come papa legittimo, e quindi rinunzierebbe allo scisma; non darebbe molestia a coloro che lo avevano sostenuto, e in quanto alle controversie con la Lega sarebbero particolarmente discusse.

Ottenuta poi dal pontefice carta di guarentigia e salvocondotto da Federico, partiva da Anagni, ed imbarcatosi sulle galee del re siculo, destinate a riceverlo, sciolse dal porto; ma una fiera tempesta lo spinse sulle coste della Dalmazia a Zara, da cui poi si diresse a Venezia, per indi recarsi nella città destinata per tenere un congresso, onde stringere pace durevole fra il sacerdozio e l’impero. Difatti, pervenuto il pontefice a San Nicolò del Lido, fu il primo di alloggiato in quel monastero, e quindi, il giorno appresso, incontrato dal doge entrò a Venezia, recandosi ad alloggiare nel palazzo del patriarca di Grado. Intanto si propose Venezia stessa per luogo del meditato congresso, il quale si aprì verso la metà di maggio dell’anno 1177. Molte furono le discussioni che ebbero luogo, per appianare le quali Federico partiva dalla Pomposa, delizioso palazzo in cui faceva la sua dimora presso Ravenna, per indi recarsi a Chioggia; ma allor elie si seppe essere egli arrivato in quella città, poco distante da Venezia, ed a Venezia soggetta, sorse il desiderio in molti del congresso che non si lasciasse colà inonorato l’imperatore. Il quale, dopo avere alquanto esitato, alla fine approvò i capitoli sottoscritti dai suoi plenipotenziari; ed il pontefice, dopo di averlo fatto assolvere dalle censure, permise che venisse a Venezia. Sei galee veneziane quindi, il dì 23 luglio, si recarono a Chioggia a levarlo, lo condussero a San Nicolò del Lido, ove la Signoria, il dì appresso, unitamente al doge, al patriarca, al clero ed al popolo, si recarono a prenderlo, e lo condussero sulla piazza di San Marco.

Stava ad attenderlo, sulla porta della Basilica Marciana Alessandro III, assiso sopra magnifico trono, e adorno delle vesti pontificali, circondato da cardinali e da prelati, in mezzo al gremito popolo spettatore. Tosto che Federico si fu accostato al Pontefice, depose il manto imperiale ed ogni altro ornamento di sua maestà, ed inoltratosi al soglio del Vicario di Cristo, si prostese umiliato a baciargli i piedi. Il papa tosto lo alzò di terra, e gli diede sulla fronte il bacio di pace. Lo prese quindi amichevolmente per mano, lo guidò nel tempio presso l’ara massima, ove Federico prestò novellamente ubbidienza ed ossequio ad Alessandro, come a Sommo Pontefice. Il dì appresso, per desiderio dell’Augusto stesso, il papa celebrò nel tempio medesimo l’incruento sacrificio, e di sua mano fece partecipe il monarca del pane angelico, e ciò a sacramento di riconciliazione verace. Deposti ricchi doni da Federico sull’altare, si restituì al palazzo ducale, ove preso aveva alloggio, unitamente coi più distinti personaggi del suo seguito.

La ratificazione definitiva del trattato avvenne il primo giorno dell’agosto seguente; col quale prometteva e giurava l’imperatore, alle città confederate, una tregua di sei anni, durante la quale quelli della Lega non sarebbero molestati dagli imperiali; potrebbero girare e commerciare liberamente nelle terre dell’imperatore, come altresì gli aderenti di questo godrebbero di egual libertà nelle terre della Lega; nominerebbe dall’una parte e dall’altra ciascuna città due arbitri a decidere nelle controversie che potessero insorgere; che se gli arbitri non fossero da tanto a restituire l’ordine in qualche città contumace, non verrebbe perciò turbata la pace generale, ma solo contro quella città verrebbe pronunziato il bando. Oltre ad alcune altre cose si statuiva, che nell’indicato corso di sei anni quelli della Lega non sarebbero tenuti a giurare fedeltà all’ imperatore, né questi pronunzierebbe sentenza in cose concernenti la Lega stessa. Finalmente fu fatta tregua del pari col re di Sicilia per quindici anni.

Speciale trattato conchiudevano poi i Veneziani con Federico, il dì 16 settembre seguente, per il quale rinnovava e confermava l’imperatore tutti i patti dei suoi antecessori, tanto in riguardo ai confini, quanto circa alle selve, alle vigne e ad ogni altro possedimento nelle terre imperiali; garentivali da ogni insulto e molestia; proibiva severamente ai suoi sudditi di appropriarsi alcuna cosa spettante ai legni veneziani che tacessero naufragio; provvedeva alla retta amministrazione della giustizia: pagando i Veneziani il solito ripatico ed il quadragesimo, avrebbero facoltà di commerciare in tutti i domini dell’impero senza altro dazio o gravezza, e limitava i viaggi marittimi dei propri sudditi fino a Venezia soltanto e non più oltre: infine provvedeva alla sicurezza dei legati, concedeva ai Veneziani l’uso dei boschi e dei pascoli nei vicini territori.

Anche papa Alessandro era largo con la Repubblica di concessioni spirituali. Consacrò tre chiese; San Salvatore, Santa Maria della Carità, la cappella d’Ognissanti nel palazzo del patriarca di Grado, contigua alla chiesa di San Silvestro, a cui poscia fu unita: donò al doge la Rosa d’oro, da lui stesso benedetta nella Basilica di San Marco, e pose termine, finalmente, per un concordato, alle discordie che per vari secoli avevano turbata la pace fra i patriarchi di Aquileia e di Grado.

Partiva l’imperatore verso il fine di settembre, e quindi il papa alla metà del mese susseguente, ritornando ciascuno, con gran seguito, ai propri Stati.

Questo fatto è uno dei più gloriosi che vanti la storia veneziana, perché da esso risplende, più che da ogni altro, la potenza e la religione della Repubblica; e per ciò voleva essa che venisse figurato in dodici tele distinte nella Sala del Consiglio Maggiore, ed in un’altra tela decorante la Sala del Consiglio dei Dieci. Ed appunto, per maggiori particolarità riguardanti la storia narrata, e le favolette spacciate intorno alla stessa, sulla norma delle quali si espressero i dipinti ora detti, sono da leggersi le illustrazioni delle Tavole CIV e CXXVII fino alla CXXXVIIl di questa opera.

Si era anche conchiusa la pace con l’imperatore Emmanuele, il quale, considerando che la lega strettasi fra i Veneziani ed il re di Sicilia poteva recargli danno gravissimo, massime nella qualsiasi supremazia che intendeva avere in Italia, si inchinò a miti pensieri, e restituì i Veneziani nel possesso di tutti i privilegi, di che solevano godere gli stessi sudditi dell’impero, rilasciando tutti i beni confiscati, e concedendo loro, a compenso dei danni patiti, quindicimila ducati d’oro, giusta Niceta.

Le gravissime cure che domandavano tutti questi fatti, e l’oro in copia che doveva profondersi nel sostenerli, non impedirono che doge Ziani volgesse il pensiero al prosperamento del commercio, al ben essere delle cose interne, ed all’abbellimento della città. Conchiuse quindi trattati di alleanza e di commercio con Cremona (1173), con Verona e Pisa (1175): provvide a tutelare gli interessi del popolo ed alla pubblica igiene, instituendo vari magistrati (1174) all’uopo, come i tre ufficiali alla giustizia vecchia; tre alla giustizia nuova; tre alle biade; quattro al dazio del vino; tre alla ternaria vecchia, sopra gli olii; quattro alla beccheria: magistrati tutti che vennero in seguito ordinati stabilmente. Ad abbellimento poi della città ingrandì e selciar fece le piazze maggiore e minore di San Marco, demolendo la muraglia merlata che le cingeva tutte quante; eresse le fabbriche d’intorno alla piazza maggiore; restaurò e ingrandì il Palazzo ducale; diede l’ultimo compimento alla Basilica del Santo Patrono; innalzar fece, per opera di Nicolò Barattieri, le due immani colonne sulla piazzetta; e da questo stesso artefice fece costruire il primo ponte di Rialto in legno; cose tutte delle quali si è discorso più largamente nel Capo VI della Storia del Palazzo ducale, a cui rimettiamo il discreto lettore.

Pacificata la Repubblica, il doge, d’animo profondamente devoto, essendo già infermo, rinunziava alla ducale dignità, il dì 12 aprile 1178, e si ritirava nel monastero di San Giorgio Maggiore in isola, ove il dì appresso moriva, e veniva deposto nella chiesa stessa, nel sepolcro marmoreo, che ancor vivo erasi fatto apparecchiare.

Aveva, già prima della rinunzia al trono, stilato il suo testamento, nel quale dimostrò la sua pietà verso Dio e verso il prossimo. Imperocché lasciò le rendite delle case da lui fatte erigere dall’ingresso della Merceria fino alla chiesa di San Giuliano, per dare il pane ai poveri prigionieri; e le altre case, pur sue, da San Giuliano al ponte dei Baretteri, donò al monastero di San Giorgio Maggiore, con l’obbligo di tenere accesa una lampada dinanzi al sacro corpo di San Stefano; di dare, ogni martedì, un desinare a dodici poveri, ed apparecchiare ogni anno alla sua famiglia, il giorno di Santo Stefano, un desinare di fagioli, senza olio e scievoli (pesci di ogni specie di mugine); in fine lasciò la corte di San Giorgio, presso il campo Rusolo (Orseolo), alle sette Congregazioni dei sacerdoti allora esistenti; mentre le altre due, a compiere l’attuale numero di nove, cioè quelle di San Canziano e di San Salvatore, non furono istituite che negli anni 1253 e 1291.

Aveva di più lo Ziani, fino dal 1174, rinnovato dai fondamenti la chiesa di San Geremia, nella cui parrocchia abitava prima di salire al trono.

Il breve, che svolgesi dalla sinistra mano del suo ritratto, dice con qualche differenza dal Sanudo e dal Sansovino, e con errore manifesto nella ommissione della parola liber:

DVCATVM TITVLIS DOTAVI INCENTIBVS: ATQVE
PAPA MINIS LIBER FIT, FEDERICO, TVIS. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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