Palazzo Fontana a San Felice

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Palazzo Fontana a San Felice. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzo Fontana a San Felice

Il Sansovino non ricorda questo palazzo, né poteva ricordarlo, quand’anche non si fosse limitato nella menzione ad alcuni tra gli edifici di tal genere, perché giunse con la sua Venezia soltanto al 1580. Ne fece parola bensì il Martinioni, che colle sue rettifiche ed aggiunte toccava il 1663, ed egli lo qualifica grande e di bella forma. È accusato già il seicento dall’architettura, evidentemente della scuola sansovinesca, sì negli ordini del prospetto e negli esterni caratteri delle finestre e dei poggioli, come nella interiore struttura e nel comparto dei piani. Lo stile non è però in tutte le parti commendevole, principalmente nella distribuzione dei fori, dei veroni, nelle proporzioni architettoniche e nei modini. Ricco è d’altronde l’ingresso, sorretto da colonne, taluna di bel marmo greco antico: le gradinate risaltano belle e comode, ampie le sale di ambedue i piani e in ottimo lume, i balconi, cinti da colonne e poggioli di marmo. Questi si vedono anche sopra il cortile, dove giocano due manufatti, coi cannoni di piombo, che conducono l’acqua fino all’ultimo piano, e derivano da una sola cisterna, opera di prezzo incalcolabile, altresì per il dispendio, importato dalla perenne manutenzione. La sala fu tramezzata in tempi, posteriori, prossimi ai nostri. I soppalchi sono disposti al modo sansovinesco in tutte le parecchie stanze di comodo: quelle negli angoli sul canal grande, vagamente illuminate, anno magica postura; altra è ornata di un cornicione, di lavoro assai vago. Dall’alto di un davanzale si godono scene pittoresche. Le pareti furono addobbate di arazzi e cuoi d’oro; le porte, oggi quasi tutte rimosse, erano di radice di noce, con figure di bronzo.

Giovita Fontana, ricco mercante di Piacenza, superstite unico alla sua casa, alla metà del secolo XVI, mutato cielo a talento, precisamente nel 1549, fermò stanza sulle Lagune, ove iniziava il traffico, che divenne esteso e floridissimo, e fondò la posterità numerosa che ormai sussiste da tre secoli. Egli comperava un’urna per la famiglia nella chiesa allora claustrale di San Salvatore, dove tutte le arche erano di mercanti. Ciò nel 1606, verso l’obbligo di pagare un ducato al capitolo di quei Padri. Nella detta arca sita dinanzi la sagrestia, in cui si legge non altro che il nome Giovita Fontana, e che ha impresso lo stemma, si inumarono ben quaranta congiunti: ultima a discendervi fu Isabella, della casa dei Busenello di San Silvestro, che sta per estinguersi nell’unico superstite Marc’Antonio. Il figlio Giovanni faceva gettare le fondamenta di questo palazzo rimpetto a quello descritto di Catterina Corner Regina di Cipro, ed è contraddistinto da due aguglie sul tetto, che quali sono, non furono disegnate così nei palazzi del Coronelli, che nel canal grande del Quadri. Pare, per l’esame di qualche autografo dell’archivio domestico, che si lavorasse lunga pezza per l’ampliazione del palazzo: forse vi ostarono le controversie, a quei tempi frequenti, quando si trattava dell’arduo acquisto di fondi. Infatti Andrea, fratello del fondatore, nel suo testamento 23 giugno 1640, disponendo del palazzo si esprime, che allora poteva dirsi la Dio mercé ridotto a segno di perfezione. Giova avvertire ad una differenza di epoca che apparirebbe dagli ornati del blasone, scolpito in marmo sopra la porta d’ingresso. Esso ritiene bensì la fontana nello scudo, come si scorge sull’arca, ma invece dei leoni rampanti, à figure di altra specie nei lati. Forse si metteva in opera un frammento di marmo antico, in cui era improntato un altro blasone, lavoro del trecento. La configurazione dell’edificio accenna a duplice fine, ad una famiglia cioè, di mercanti, essendo vari gli ammezzati e i magazzini, e nei due piani nobili ad una classe di individui, dediti anche ad uffici e mandati pubblici, come furono i Fontana nel loro Ordine, al servigio della Repubblica. Per il testamento di Giovanni questo palazzo era condizionato a fideicomisso perpetuo, né avrebbe potuto alienarsi, perché la coscienza del testatore mirava, come ne fa onorata protesta, al gran scopo, per il bene dei posteri, della conservazione e dell’aumento della sostanza, da lui con tanti sudori accumulata. Ma chi poteva farsi profeta d’inconcepibile soqquadro, per inaudite sciagure dei tempi? I testamenti a stampa di Giovanni e di Andrea del fu Giovita, coi rogiti Piccini, provano infatti la grande ricchezza della casa, per i legati e le argenterie a consanguinei ed amorevoli, impresse collo stemma di famiglia. In processo di tempo, i discendenti si tolsero ai traffichi, e si accostarono ai ministeri della Repubblica, cogliendo onori nella palestra civile, ecclesiastica e militare. Pietro, figlio di Giovanni, si nominava da Enrico di Lorena, duca di Guisa, Pari di Francia tra gli ufficiali e ministri di guerra: fu poi Governatore della vecchia Caserta, presso Napoli. Egli allogava quattro figlie nelle case patrizie Gritti, Pasqualigo, Bondumier, Miani con dote di centomila ducati per cadauna. Di una di queste doti, quella affluita in casa Miani, una parte si legava a di nostri dall’ultimo erede alla Fraterna di San Giacomo dall’Orio. È noto già, che la casa di San Girolamo, che ultimamente fu a San Vitale scoperta, figura nelle Redecime come proprietà di Pasqualina Fontana, quale moglie di Jacopo Miani. La famiglia Bondumier, venuta tra noi colla conquista di Acri in Soria, ove godeva pingui facoltà, e compresa fra le patrizie alla Serrata del gran Consiglio, è ora estinta. Per tanto amore quindi al veneto patriziato, il Fontana meritava un decreto onorifico dal Senato, per dispacciò 6 ottobre 1689 dell’eccelso Consiglio dei Dieci. Ciò fu anteriormente all’inscrizione di più individui all’Ordine della Cancelleria Ducale, ed all’aggregazione della famiglia al Consiglio magnifico di Padova. Un altro Giovanni si distinse segretario e ministro residente alle corti, allora minori, di Parigi e di Londra, poi quale segretario degli Inquisitori di Stato; il fratello Antonio era segretario di ambasciata. Altro figlio di Pietro, Michielangelo, fioriva abate generale dei Canonici regolari di San Salvatore, quasi abati mitrati, dal 1642 al 1646; onde si scorge una lacuna nell’elenco dei Priori di Flaminio Corner, che sembra di quel nome e di quella notizia difettasse. Illustre è stato quell’Ordine religioso, e ci diede il patriarca Contarini, il cardinale Tournon, il Giotto, il Baldi, il de Grazia; lo istituiva Bonfiglio Zusto; si approvava da Innocenzo II e da Alessandro III; il qual ultimo, alla sua venuta in Venezia, insigniva gli abati della mitra e del pastorale, quando consacrava il tempio ne 1177. Un Jacopo saliva al grado di generale dei chierici regolari Somaschi, fondazione di San Girolamo Miani. Un Alessandro colse onore fra i dotti figli del Lojola, dopo l’epoca del famoso interdetto di Paolo V. Anche nell’Ordine dei Cappuccini entrava in questi giorni un Aleduse al secolo, sotto il nome di Jacopo Maria da Padova, nel Convento del Redentore. Nipote a Pietro si ricorda Melchiorre marito di Adrianna Padavin, della quale si conservai in famiglia il ritratto, parente a Giovanni Battista Cancelliere grande della Repubblica, già discepolo di Jacopo Foscarini nella scienza politica, e amico di Fra Paolo Sarpi.

Negli ultimi tempi accrebbe lustro alla casa il cavaliere Giovanni Andrea, segretario del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori di Stato al cadere della Dominante. Veniva egli propriamente acclamato per l’alta fama a cui giunse, a ministro residente presso Vittorio Amedeo III Re di Sardegna nel 1784, quando la Repubblica volle riannodare le relazioni diplomatiche interrotte con quella regia corte Italiana. Altra missione zelava, e con maggior merito, per le gravi scissure politiche, che allora funestavano l’Italia, come ministro residente presso l’altra corte reale di Napoli nel 1787. Si riportano dal Tentori, nella Raccolta di Atti e Documenti inediti, quei suoi avveduti dispacci al Tribunale degli Inquisitori, che sarebbero stati di giovamento alla cosa pubblica, se non venivano, al pari di tutti gli altri degli ambasciatori, sottratti alla cognizione del Senato, e deposti nella filza malaugurata delle comunicate non lette. Luminosa fu la carriera, percorsa da questo Ministro, che al molto senno accoppiava aggraziati modi e dignità di persona, e avrebbe egli raggiunto il carico supremo di Cancelliere grande, che si dava sempre ad un dovizioso se lo chiedeva, ove si fosse segnalato nel ministero, nel qual ufficio suppliva sovente per malattie dell’ultimo Cancelliere Grande. La detta carica si istituiva nel XII secolo, fuori dell’ordine patrizio, ma con onorificenze eminenti. Era il Cancelliere Grande il capo dei Segretari, il Guardasigilli, il Capo Notaio di cancelleria della Corte Ducale: aveva il titolo di eccellenza e di cavaliere, la veste di porpora, e il privilegio della comparsa distinta in tutte le funzioni di Stato. Istituzione sapiente, che dava levatura in massima all’Ordine dei ministri benemeriti, e li premiava in particolare col farli presiedere a quella magistratura, da cui mossero i primi passi, recando così insieme l’utilità al servigio di tutelare e dirigere bene il Corpo, ad essi commesso, per avere percorsa tutta la loro stessa carriera.

Ma il 12 maggio 1797 qual infausta meteora insorto, disseccava per sempre ogni più splendida fonte di lucro e di onore, e chiudeva la carriera ereditaria dell’Ordine segretariale ai contemporanei e discendenti. Sciolti i fideicoinissi da un decreto di Napoleone, si alienava questo palazzo, che non poteva d’altronde neppure permutarsi, o darsi in pagamento di doti.

Si appigionava al Procuratore Venier; indi all’Ottolini; poi a Giovanni Reck che lo acquistava. Da lui passava al sig.de Breganze, poi al negoziante Jacopo Ventura. Ora lo possiede questa Ditta Bancaria Jacob Levi. Prima dei signori anzidetti, si accomodava ai Rezzonico, onde nel primo piano vedeva la luce il pontefice di questo nome, che fu Clemente XIII. Per tale unica e ben fortuita circostanza, il Coronelli, non guardando più in là, credette di giudicare, che fosse proprietà del papa, e nei suoi palazzi dandone il disegno, vi soprapponeva a dirittura lo stemma e il cognome Rezzonico. Cosi la prima locazione trasse in errore le Guide, e per lunga pezza si tenne come palazzo dei Rezzonico, e la locazione ultima lo fece supporre quasi fondato dai Reck, venuti curiosamente in voce soltanto per quel acquisto. Eppure il nome dei proprietari Fontana si leggeva anche allora nelle aggiunte alla Venezia del Sansovino. Ora di questa casa, stretta in parentela colle famiglie dei Segretari Lio, Imberti, Redetti, Caotorta e Berlendis, sussistono due rami; uno dal lato di Alessandro, estinto nel 1816, segretario del Magistrato di Sanità marittima, dotto uomo, di cui sta la biografia fra quelle degli illustri del secolo XVIII, per cura del Tipaldo; l’altro, dal lato di Giovanni, defunto nel 1846, segretario generale dell’antica Congregazione di Carità, e tenuto in stima dall’illustre Francesco Mengotti. Figli superstiti del primo sono Giovanni Giacomo consigliere di questo Tribunale d’ Appello, e Isabella, vedova del professore Bortolammeo Ponzilacqua, che l’arte calligrafica levò quasi a grado di scienza. Figlio dell’altro era Marc’Antonio, educato ai begli studi, tenero cultore della poesia, mancato a ventiquattro anni nel 1847, un anno dopo che sedeva professore supplente nell’istituto regio Ginnasio di San Giovanni Laterano. Altro figlio è lo scrittore di questi cenni. (1)

Successivamente venne acquistato dai Levi e poi dai Sullam, che sono gli attuali proprietari. (2)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

(2) https://it.wikipedia.org/wiki/Palazzo_Fontana_Rezzonico

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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