Isola di San Cristoforo della Pace

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Giacomo Guardi (Venezia (1764 – 1835) - Isola di San Cristoforo della Pace

Chiesa e Monastero di San Cristoforo della Pace. Monastero di Monaci Agostiniani della Congregazione di Monte Ortone. Chiesa e monastero demoliti

Storia dell’isola, della chiesa e del monastero

Per decreto del Maggior Consiglio ottenne Bartolommeo Verde, abitante nella Parrocchia della Santissima Trinità, in libero dono nel giorno 14 di luglio dell’anno 1332, un lungo tratto di rilevata palude, situata tra Venezia, e l’Isola di San Michele di Murano, per dover in essa stabilire un molino a vento, che secondo l’uso di quei tempi servisse alle occorrenze della città. Adempì il buon uomo il proprio impegno; ma rovinato il fabbricato molino, deliberò di far servire l’elevato terreno ad uso di spirituale soccorso. Implorò dunque, ed impetrò nel giorno20 di giugno dell’anno 1353 dalla suprema autorità del benefico donatore del luogo, la facoltà di poter nel sito, ove esisteva il diroccato molino, ergere un pietoso ospizio sotto l’invocazione dei Santi Cristoforo, ed Onofrio a ricovero di quelle miserabili femmine, che impegnate nell’infame schiavitù del peccato cercavano di esser accolte in luogo sicuro di penitenza. Fu esaudita l’istanza, a condizione però, che dopo la morte del fondatore dovesse l’isola restare soggetta ai dogi di Venezia in perpetuo giuspatronato. Essendo perciò volato ai premi di sua pietà il Verde sotto il dogado di Marco Cornaro, questo principe ricevette il luogo sotto la giurisdizione sua, e dei suoi successori, eleggendovi un priore alla custodia, e cura dei poveri ivi ricoverati: il che proseguirono a fare i dogi, che lo susseguitarono, finché minorandosi lo zelo dei direttori, e le elemosine dei fedeli, i vide in pochi anni il pio ospizio privo d’abitatori, e, le di lui fabbriche vicine a rovinare; Sollecitò però il doge Francesco Foscari, che in un luogo consacrato da atti sì nobili di cristiana pietà non venisse a mancar totalmente il divino culto, si presentò l’occasione, che Giovanni Brunacci fiorentino, religioso dell’ordine di Santa Brigida, e priore del monastero di Santa Cecilia di Roma, cercava per sé e per la sua religione un luogo solitario per servire a Dio in Venezia. Ad esso pertanto con ducale diploma del giorno 21 di maggio dell’anno 1474 liberamente concesse l’isola tutta dei Santi Cristoforo ed Onofrio, perché restare dovesse in perpetuo possesso del di lui ordine, riservato però sempre ai dogi l’antico giuspatronato, che possedevano.

Breve fui la dimora dei religiosi brigidiani in quest’isola. Poiché avendo il pontefice ordinata una riforma del loro ordine, essi partirono dall’isola; perché il sopra lodato doge Foscari conosciuta l’integrità della vita, e l’odore dell’ottima fama di Fra Simone da Camerino, rettor generale dei frati Eremiti dell’Osservanza di Santa Maria di Monte Ortone, alla congregazione da questo santo uomo recentemente istituita unì, e donò l’isola, e fabbriche in essa poste, perché i frati di detta congregazione avessero in essa perpetuo domicilio, finché vivessero nell’osservanza della regola di Sant’Agostino. Fu segnato il diploma ducale nel giorno 25 di novembre dell’anno 1436. Da ciò si rileva esser stata la popolare tradizione, che asserisce, aver il Beato Simone ottenuta la concessione di quest’isola in ricompensa della pace stabilita tra la Repubblica, e il duca di Milano, Francesco Sforza, stante che questa pace, non restò segnata che nell’anno 1454 e vale a dire diciotto anni dopo la donazione dell’isola. Il merito di questa pace, felicemente maneggiata, e conclusa viene concordemente attribuita alla saviezza, e credito del Beato Simone camerinese da molti dei più accreditati storici sì veneti, che stranieri, e fra questi da Enea Silvio Piccolomini, poi Pio Papa II nella sua storia dell’Europa si esprime con questi sentimenti: Essendo stato per concorde volere dei principi eletto il pontefice Niccolò V per arbitro e conciliatore della pace d’Italia, mentre egli prolungandone la conclusione si va rendendo sospetto, Simonetto frate dell’ordine di Sant’Agostino uomo per l’innanzi d’oscuro, e totalmente ignoto nome, ma di una provata integrità di costume, conciliò i veneti con il duca Francesco, e accordate le convenzioni stabilisse il giorno, in cui dovessero pubblicarsi. Parve a tutti un miracolo, che un umile e sconosciuto religioso abbia potuto ridur in pace l’Italia.

Da così cospicua benemerenza di fra Simone ne derivarono alla congregazione illustri vantaggi. Poiché il senato veneto nell’anno stesso 1454 in cui fu conclusa la pace, diede grandiosi privilegi d’esenzioni ai monasteri tutti della congregazione, ed assegnò rilevante somma di denaro dal pubblico erario alla restaurazione delle decadenti fabbriche di San Cristoforo, che da quel tempo in poi per pubblico rescritto cominciò a denominarsi San Cristoforo della Pace, e nei nuovi muri del circondario furono incise le insegne della Repubblica veneziana, e del duca di Milano in marmo, ed unite con forte legatura di ferro in testimonianza dell’accordata perpetua pace.

Con tali soccorsi poté il buon vecchio rinnovare il monastero, e rifabbricare in più nobile forma la chiesa, che poi nell’ anno 1619 fu arricchita di copiose reliquie di santi a lei donate da Luca Stella, allora arcivescovo di Zara, e poi trasferito al vescovado di Padova.

Il maggior ornamento di questa chiesa però deve considerarsi l’intero corpo del Beato Grazia, converso in questo monastero, che si conserva onorevolmente in un altare a di lui onore dedicato. Di questo santo uomo glorificato da Dio in vita, e in morte con stupendi miracoli scrissero la vita diffusamente molti autori, della quale se ne esibisce un sincero compendio.

In un villaggio del territorio di Cattaro nacque nel giorno 27 di ottobre dell’anno 1438 il Beato Grazia da Benedetto e Buona pie ma povere persone, che secondo la bassa condizione di lor famiglia l’allevarono bensì con sentimenti di timore di Dio, ma senza veruna diligenza di coltura, o di studio. Per il sostentamento di sé e dei suoi genitori intraprese l’impiego di marinaio; ma come fino dalla sua prima età tutte le sue inclinazioni erano rivolte alla pietà, così da quel doppiamente pericoloso esercizio non ne trasse veruno difetto, e fra il libertinaggio di quella vita già pareva nato per il chiostro.

In tal occupazione di vita ebbe frequenti l’occasioni d’approdar in Venezia, e di ivi udire alcune delle fervorose prediche del Beato Simone da Camerino, il quale per zelo di rigorosa osservanza della regola da esso professata di Sant’Agostino, aveva recentemente istituita una nuova esemplare congregazione in Monte Ortone, territorio di Padova. Per gli efficaci discorsi del venerabile fondatore si arruolarono molti alla nascente compagnia, e fra questi Grazia nell’anno trentesimo dell’età sua, e di Cristo 1468, vestì l’abito di Sant’ Agostino nello stato di laico, o come si dice, di converso. La di lui vita dopo professata la regola, fu un continuato prodigio di penitenza; vestito sulla nuda carne di un ispido e lungo cilicio andava cinto i lombi di pesante catena di ferro armata di punte, che tormentavano fino i suoi brevissimi riposi presi da lui sopra delle assi, non avendo per capezzale che un sasso. Continui erano i suoi digiuni tollerati per tre giorni della settimana a duro pane e scarsa misura d’ acqua, ai quali ne, in altri giorni aggiungeva qualche erba, o frutto senza veruno condimento. Le sue vigilie importavano la maggior parte della notte impiegata da lui o, nella meditazione delle verità eterne, o nei più vili, e laboriosi ministeri, supplendo per impulso di carità alle fatiche destinate per gli altri. Ciò che però fra le gravi sue austerità gli serviva di delizia, era il servire ai sacerdoti nel sacrificio dell’altare, ove dall’esterna composizione del volto, e dagli occhi fissi devotamente nei divini misteri ben si poteva a sufficienza comprendere di quali dolcezze interiori fosse allora riempita la di lui anima.

Quest‘angelica, ed a lui gratissima occupazione egli però con allegra prontezza tralasciò tosto che dal comando dei suoi superiori venne destinato a più basse faccende del monastero, e con egual esattezza adempì i doveri dell’ubbidienza nell’abietto impiego della cucina addossatogli, quanto lo aveva fatto nel servigio dei sacri altari, e del divino sacrificio. Quanto fosse grata a Dio l’umile rassegnazione del suo servo lo fece vedere con un prodigio, allorché in Monte Ortone lavorando Grazia nell’orto, all’udire la campanella che dava segno dell’elevazione dell’ostia consacrata nella contigua chiesa, gettatosi a terra per adorarla vide all’improvviso spalancarsi tutte le muraglie, che dividevano l’orto dalla chiesa, ed adorò con piacere eguale alla meraviglia il Bambino Gesù tutto circondato di splendori fra le mani del sacerdote.

Era però la di lui vita un continuo esercizio di orazione, né le manuali fatiche avevano forza di distogliere la di lui mente da un continuo rapimento in Dio, il quale molto più si accresceva, allorché nell’ore notturne destinate al riposo egli tutto si immergeva nella contemplazione delle cose celesti. Onde Iddio per far conoscere di qual fuoco ardesse il cuor del suo servo, mentre orava, fece comparire nell’ore notturne prodigiose fiamme sopra la di lui cella, che atterrirono alla prima veduta i religiosi abitanti, finché ne scopersero con attenta indagazione la mirabile origine. A tal fervore di carità, con la quale amava Dio, corrispondeva la fraterna dilezione del prossimo, onde tralasciava anche l’orazione, e si dispensava dall’esatta rigidezza, con cui custodiva il silenzio, per assistere e confortare con soavi discorsi gli infermi religiosi, anzi che sottraeva a se stesso la miglior parte dello scarso suo cibo per alimentarne i poveri di Gesù Cristo.

Anche il merito di tal carità fu comprovato con un miracolo. Si fabbricavano di nuovo le muraglie del vecchio monastero di San Cristoforo, allorché la domestica cisterna del chiostro nei bollori dell’estate andò rendendosi a poco a poco esausta d’acqua, sicché conveniva e per l’apprestamento dei cibi, e per la continuazione del lavoro, far condur l’acqua da Venezia con grave incomodo, e con non minor dispendio del poverissimo monastero. Pieno però Grazia di viva fiducia in Dio, e di compassione alle necessità dei suoi confratelli, gettò nell’arido pozzo un vaso dell’acqua marina; indi con breve ma efficace orazione implorò a soccorso del presente bisogno la divina misericordia, di cui vide tosto i mirabili effetti, riempiendosi ad un tratto l’asciutta cisterna d’acqua dolcissima, che con continuata beneficenza si conserva inesausta, e salutare fino ai nostri giorni.

Quanto cara a Dio era la virtù del buon Grazia, altrettanto si rendeva ella insoffribile al demonio, che non tralasciò sforzo alcuno o per ritirarlo dall’austero modo di vivere, o per frastornarlo dall’orazione, finché riconoscendo inutile ogni suo tentativo nella disperazione di superarlo sfogò l’infernale sua rabbia duramente flagellandolo, e con violenza trascinandolo per tutto il monastero fino a lasciarlo semivivo, nel qual incontro gravemente essendo stato ferito in una coscia, andò quasi in contrassegno di sua vittoria zoppicando per tutto il rimanente della sua vita.

Quarant’anni durò il santo uomo nell’esatta osservanza della religione, finché consumato dalle sue austerità, e dalle sue fatiche cadde gravemente infermo. Malgrado la debolezza, a cui era ridotto, voleva il santo uomo continuare il severo costume di sua astinenza; ma per comando del superiore essendogli per cibo presentata la carne, mentre egli per obbedienza si dispone a gustarne, questa segnata dall’infermo con la croce divenne tosto putrida e verminosa. Ridotto poi agli estremi dopo aver ricevuto in atto di penitente prosteso a terra, e con, la cintura al collo il divino viatico, e poi la sacra unzione, fra le lagrime, e le orazioni dei suoi religiosi placidamente spirò nel giorno 9 di novembre dell’anno 1508 e dell’età sua settantesimo.

Furono i di lui funerali onorati da una prodigiosa stella comparsa sul di lui feretro, e da un innumerabile concorso di popolo, che l’acclamava per santo, e si può dire, che dal giorno di sua sepoltura principiasse il di lui culto. Contuttociò la moderazione dei religiosi lo volle deposto nella comun sepoltura, ma nella notte seguente apparso il beato defunto tutto risplendente di luce celeste al priore del convento, l’ammonì essere divino volere, che il di lui corpo riposto fosse in più decente maniera. Ubbidì al comando il priore, e nella seguente mattina tratto il venerabile corpo, da cui spirava odore di paradiso, dal sepolcro, in cui giaceva, fu collocato in onorevole sito, chiuso in una cassa di cipresso. Manifestò allora Iddio la santità del suo servo con gran numero di miracoli, e fece conoscere quanto la di lui morte fosse stata preziosa agli occhi suoi in tal maniera, che convenne pensare ad una più onorevole deposizione dell’ammirabile corpo. Fu questa eseguita a proprie spese da Antonio Trono, procurator di San Marco, il quale amicissimo del beato mentre viveva, ebbe la spirituale consolazione di vederlo per ben due volte dopo morte manifestamente apparso per visitarlo e recargli conforto. Per collocare dunque degnamente il corpo di Grazia, che tuttavia si conservava intatto ed incorrotto, fece innalzare il buon senatore sopra quattro colonne un sepolcro di marmo, fu cui si vede distesa in atto di chi dorme l’immagine scolpita del beato, ed ivi eretto un altare, incomincio la pubblica venerazione del popolo nel primo anno dopo il felice di lui transito. I molti miracoli, che Iddio per intercessione del Beato continuò ad operare, resero la di lui tomba ogni dì più gloriosa, ed il di lui culto dal giorno della decorosa collocazione del sacro corpo, che segui nell’anno 1509 andò costantemente continuando senza interruzione veruna, e tuttavia continua fino al presente. (1)

Visita della scuola (1733)

A mano sinistra la Visita di Santa Elisabetta è del figlio d’Andrea Vicentino. Sopra la porta che va in sacrestia vi è un quadro col Salvatore, la Vergine, i Santi Marco e Girolamo, ed un doge Priuli: opera di maniera del Tintoretto. Nella cappella alla destra dell’altare maggiore vi è una tavola in tre comparti nel, mezzo la Madonna, e San Cristoforo: opera di Giacomo Bassano, e va alla stampa, dice il Boschini, d’Egidio Sadeler, e dalle parti i Santi Stefano, Francesco, Girolamo, e Nicolò. Alla sinistra della cappella maggiore in mezzaluna la Madonna, Santa Veronica, ed altra santa; abbasso in tre paramenti nel mezzo San Giovambattista, alla destra San Geremia, alla sinistra San Francesco, cose tutte del Conegliano. Vi è dietro alla suddetta per andar verso la porta a mano sinistra la tavola dell’altare con fa Madonna sedente, con i Santi Giovambattista, e Giorgio e due vescovi con alcuni angeli, opera dei Vivarini. Segue un’altra tavola con i Santi Girolamo, Pietro e Paolo, opera de suddetti. Segue una altra tavola, con la Madonna sedente, e i Santi Girolamo, Giovambattista, Sebastiano, ed un vescovo, opera dei suddetti Virarini. A mano sinistra nell’uscire di chiesa la palla con i Santi Pietro, Paolo, e Girolamo è opera rara di Giovanni Bellino del 1505. (2)

Eventi più recenti

Andava questa chiesa celebre per una tavola di Bassano già data in luce da Egidio Sadeler, per un’altra preziosissima di Giovanni Bellino, e per altre opere dei Vivarini e di altri pittori. Esposti erano anche in essa due antichi stendardi donati da Francesco Sforza duca di Milano al sopraddetto fra Simeone. Ma nelle concentrazioni del 1807 i monaci di quest’isola riunitosi a quelli del convento di San Stefano di Venezia, e la chiesa, chiusa nel 1810, venne col monastero demolita, affine di ridurre l’isola in un cimitero per la città di Venezia. Nel 1807 c’erano i più lodevoli progetti di erigerlo a Sant’ Andrea della Certosa ovvero nell’isola di Santa Chiara; un decreto però di Napoleone destinò invece questa di San Cristoforo che per essere ristretta, fece ora nascere la necessità di congiungerla con una lingua di terra a quella di San Michele e ridurre così ad ampiezza conveniente il cimitero destinato per una popolazione di ben oltre 1oo.ooo anime. Secondo l’originario disegno di Antonio Selva, doveva questo cimitero avere una cappella coperta a cupola, ed essere cinto di portici, sotto le arcate dei quali erigere si dovessero vari monumenti. Il municipio però, aggravato da soverchie spese, dovette esser pago di una cinta i semplici mura e di una cappella ottagona nel lato che riguarda la città; il che, come fu compiuto, ricevette la solenne benedizione ai 28 giugno del 1813. (3)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ANTONIO MARIA ZANETTI. Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia ossia Rinnovazione delle Ricche Miniere di Marco Boschini (Pietro Bassaglia al segno di Salamandra – Venezia 1733)

(3) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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