Chiesa e Monastero di San Zaccaria Profeta

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Chiesa di San Zaccaria - Castello

Chiesa e Monastero di San Zaccaria Profeta 

Storia della chiesa e del monastero

Molto avanti che dalla pietà dei dogi Angelo e Giustiniano Participazi fosse fondato il Monastero di San Zaccaria, ebbe principio la di lui chiesa, che riconosce il vescovo San Magno per fondatore. Sottrattosi il santo prelato con la miglior parte del suo gregge da Oderzo, città minacciata di sterminio da Rottario re dei Longobardi (come già altrove si è detto) si ricoverò nelle lagune, ove dopo aver fondate quattro chiese, fu da San Giovanni Battista in visione ammonito di dover erigerne altre due nei luoghi per ciò dimostrati, l’una delle quali col proprio suo nome di Precursore dedicata fosse, e l’altra col titolo del suo padre profeta San Zaccaria.

Favole perciò e sogni deve reputarsi tutto ciò, che da alcuni o troppo creduli, o men sinceri autori viene scritto della fondazione di questa chiesa, e monastero, i di cui principi falsamente si traggono sino dai tempi di papa Innocenzo primo; cosicché converrebbe dire di conseguenza, che l’erezione del monastero, e chiesa di San Zaccaria preceduto avesse di non pochi anni la fabbrica della chiesa di San Jacopo maggiore apostolo in Rialto, che concordemente vien decantata da tutti gli scrittori e cronologi veneti per la prima della città.

Fu dunque eretta la chiesa di San Zaccaria circa la metà del secolo VII, e fatta parrocchia dai circonvicini abitanti benché poi per togliere il disturbo alla quiete delle divine religiose, che la officiavano, fosse la cura dell’anime ridotta alla vicina chiesa di San Procolo, antico juspatronato del monastero: Si scrive da qualche cronologo, esser ciò seguito circa la metà del secolo IX, ma vi è ragion d’avvertire, che ciò più tosto succedesse dopo, il principio del secolo XII, giacché in un diploma del doge Ordelafo Faliero dell’anno 1107, si legge il nome di Domenico piovano di San Zaccaria. Tali furono i principi di quest’antichissima chiesa, alla quale Angelo Participazio il primo dei dogi, che sedessero in Rivalto, e Giustiniano suo figlio assunto collega nel principato, vi aggiunsero un monastero di monache, non solo per istinto della propria pietà, ma per soddisfare anco ai desideri di Leone l’Armeno imperator di Costantinopoli, quale avendo mandato in sacro dono ai dogi insieme con molte altre reliquie, il corpo di San Zaccaria padre del precursore, che riposava in Costantinopoli nella chiesa di San Jacopo minore apostolo, richiese, che a onore dello stesso santo profeta eretto fosse un monastero di monache, per la di cui fabbrica somministrare volle riguardevole, somma di soldo, come attestò in un suo diploma Giustinian Participazio doge, che ne perfezionò l’erezione, e lo dotò poi di moderate rendite, assegnando al mantenimento delle religiose le terre ed acque circonvicine.

Si accrebbe non molto dopo il decoro di questo monastero, e la venuta di papa Benedetto III che fuggendo la violenza e le insidie di Anatasio antipapa, si ricoverò in Venezia l’anno I del suo pontificato che fu di nostra salute l’anno 855. Accolto quivi dal doge e da ogni ordine di persone con somma riverenza ed applauso, si portò indi a visitare il Monastero di San Zaccaria, celebre per le sacre reliquie in esso collocate, invitatovi dalle preghiere della piissima abbadessa, Agnese Morosini, che diede al pontefice le più vive rimostranze di filiale affetto, e di rispettosa ubbidienza. Memore di ciò il pontefice Benedetto restituito alla sua sede di Roma mandò in dono alla devota abbadessa una gran parte dei corpi dei Santi Pancrazio martire e Sabina vergine, dei quali questa si vede registrata nel Romano Martirologio al giorno 29 di agosto, e quegli è venerato dalla chiesa universale con uffizio comune ai Santi martiri Nereo ed Achilleo, dei quali pure si gloria questa chiesa di conservare insigni reliquie. Fra questi santi però fu venerato con speciale culto il giovane martire Pancrazio, cosicché a di lui riguardo fu il monastero per molto tempo anche nei pubblici documenti nominato con doppio titolo, Monastero dei Santi Zaccaria e Pancrazio.

Non erano frattanto passati molti anni dalla sua fondazione, allorché il monastero o per la debolezza di sua struttura, o per qualche accidentale disgrazia minacciò non lontana rovina, cosicché convenne all’abbadessa Giovanna con grave spesa interamente rinnovarlo. Era questa religiosa signora figlia d’Orso Participazio doge, uomo d’esimia religione, che venuto a morte nell’anno 18 del suo governo volle eleggersi la sepoltura in questa chiesa, nel di cui atrio giaceva Pietro Tradonico suo antecessore proditoriamente ucciso nel ritorno, che faceva dalla chiesa medesima, dopo aver assistito agli uffici anniversari della consacrazione di essa l’anno 854, nel giorno XIII di settembre.

Crescendo frattanto in somma riputazione di santità ancor presso gli esteri il monastero, concorsero ad aumentarne le rendite riguardevoli personaggi, fra i quali Ingelfreddo conte di Verona, e Notkero pure di Verona vescovo assegnarono sul principio del X secolo al sacro e venerabile luogo (cosi essi lo dissero) delle fanciulle di San Zaccaria dilatate possessioni situate nel territorio di Monselice con ampissime donazioni, che furono poi confermate con imperiali diplomi da Ottone Primo, e da altri imperatori, che poi gli succedettero.

Più riguardevoli però furono i sacri tesori, dei quali venne arricchito il monastero nel secolo susseguente, allorché avendo i veneziani dai luoghi dell’oriente asportati preziosi corpi dei santi, alcuni d’essi ne depositarono in questa chiesa, come nel più devoto santuario della città. Celebre fra questi è San Tarasio eremita, il di cui venerabile cadavere tratto da un monastero del Promontorio Chilendro poco lungi da Costantinopoli, fu da un devoto sacerdote di Malamocco trasferito a Venezia sopra la nave veneta mercantile di Domenico Dandolo, nella di cui nobile posterità si numerano Enrico ed Andrea dogi di Venezia. E ben giovò al buon prete il lodevole furto, a cui fu da celeste voce eccitato. Poiché entrato in chiesa a pena dopo breve; ma efficace orazione levò la cortina di una contigua spelonca, in cui giace va il santo (riconosciuto per eremita da una pelle di fiera, che gli pendeva dalle spalle come mantello) che si sentì restituita al primiero vigore una mano per infermità pendente dal collo; onde reso più` coraggioso levò con tutta facilità il sacro corpo, e pel cammino di tre miglia lo portò felicemente alla nave, quantunque tempo innanzi alcuni forestieri penetrati nel luogo avendo tentato di rapir al sacro capo un sol dente, non potessero d’indi partire, se prima non ebbero rimessa la tolta reliquia al suo luogo. Approdata indi felicemente la nave in Venezia, fu il sacro deposito accolto con applauso e venerazione dei cittadini, e dal vescovo di Castello solennemente riposto in una cappella sotterranea nel Monastero di San Zaccaria, in cui, come attesta il Dandolo, duecento religiose all’ora servivano a Cristo.

Da Samo pure Isola dell’Oriente furono trasportati in Venezia gli interi corpi dei Santi Gregorio e Teodoro, ed il capo di San Leone, tre indivisi compagni, i quali dopo aver militato nell’esercito di Costanzo imperator Arriano, per conservarsi sicuri nella cattolica religione, che professavano, e più liberamente servir a Dio si ritirarono nella suddetta isola a condure vita eremitica in continuati esercizi di austerissima penitenza, e fervorosa orazione. Così santamente vissero, e finalmente chiusero tutti e tre unitamente orando i lor giorni con una morte preziosa avanti il Signore, che custodire per lungo spazio di anni i lor corpi, finché al tempo destinato fossero manifestati ed onorari. Trascorso dunque lungo tempo dalla beata lor morte, apparvero i santi eremiti a Michiele signore dell’isola, travagliato dal male di lebbra, e l’avvertirono, che se bramava vedersi restituito in salute levasse i loro corpi dall’indecente luogo, in cui giacevano. Ubbidiente Michiele al celeste volere scorse tosto per l’isola, e avvisato da un bifolco si portò ad un folto spineto, dietro cui in una chiesa mezzo rovinata vide giacer tre corpi, che tosto conobbe esser santi e dallo splendore, che li circondava, e all’odore soavissimo, che diffondevano. Si prostò tosto ai loro piedi Michiele, e più allegro per il ritrovato tesoro, che per la sanità, che si sentì tosto restituita, ordinò, che sul luogo fossero a loro onore eretti un monastero e una chiesa, in cui fossero venerati e sepolti. Terminati i sacri uffici, apparvero nuovamente i santi al signor dell’isola in quell’abito stesso, in cui vissero, e gli palesarono i loro nomi, ed il rigoroso tenore della santa loro vita, che a lume dei steri volle Michiele registrato fosse con diligenza insieme col giorno ella loro rivelazione, che fu il 24 di luglio. Giunti poi a quest’isola passaggieri veneziani trassero dall’antico monastero le sacre reliquie, ivi lasciando solo il corpo di San Leone senza capo, e comunque a Venezia le depositarono nel Monastero di San Zaccaria, in cui tuttavia sono venerate con sommo decoro, benché senza particolar uffizio.

Il corpo pure di San Lizerío spagnolo, martirizzato in Roma sotto l’imperatore Massimiano, fu in questa chiesa dai romani santuari trasportato, ed illustrato da Dio con frequenti miracoli. A così insigne e venerabili pegni aggiunger si devono le preziosissime reliquie del legno della Santa Croce, e della veste della santissima Vergine, trasmesse già insieme col corpo del profeta titolare ai dogi Participazi dall’imperatore Leone l’Armeno, di cui pure si asserisce essere dono il velo della vergine e martire Sant’Agata, cotanto prodigioso contro gli incendi. Una spina altresì della corona, che cinse il capo del Redentore, con alcuni capelli della Vergine di lui madre si conserva con speciale riverenza in questa chiesa, unitamente al corpo di San Bonifacio martire, e alle te e, che si dicono essere dei Santi martiri Stefano papa, Pietro Alessandrino vescovo, Claudio, Felice, e Sabina, e ad alcune ossa dei Santi Innocenti trucidati dal re Erode in Betlemme.

Quantunque però e con spirituali, e con mondane ricchezze fosse dalla divina liberalità ingrandito lo stato del monastero, non mancarono moleste vessazioni a turbar la pace delle pie religiose. Poiché i vescovi di Padova, e di Vicenza, e così pure gli abbati della Vangadizza, e di Santa Giustina di Padova, pretendendo appartenere loro molta parte dei beni offerti già al monastero dal conte Ingelfredo, promossero litigi; quantunque poi non molto dopo così i due vescovi, che l’abbate della Vangadizza, conosciute le ragioni del sacro luogo, desistettero dalle loro contese. Non così Giovanni abbate di Santa Giustina, il quale pretendendo jus nella chiesa dei Santi Tommaso e Zenone di Monselice, continuò con forza la controversia, in fine della quale uscì sentenza del duca Adalpeiro, e del conte Rambaldo, giudici imperiali, che decisero a favore del Monastero di San Zaccaria posto vicino alla corte del palazzo di Venezia. Da questa frase indicante la situazione del monastero, che frequente si legge in documenti antichissimi, vien rigettata la favolosa tradizione, che il Palazzo Ducale sia stato fabbricato nel Brolo, o sia Orto di questo monastero, idi cui confini si estendessero fino alla Chiesa di Santa Maria Capo di Broglio, ora detta dell’Ascensione.

Non si acquietarono però i monaci alla decisione dei giudici: onde rinvigoriti i litigi furono le monache nell’anno 1100 con nuovo giudizio dal conte Guarnerio legato imperiale, non solo confermate nel possesso della controversa chiesa, ma esentate pur anco da qualunque onoranza, o regalo preteso dal preside imperiale di Monselice.

Poste dunque in pacifico godimento d’ogni lor avere le religiose donne, videro o dopo aumentarsi le loro tenute dalle pie oblazioni di Giovanni prete di Monselice, e dei conti Uberto e Manfredo, che nell’anno 1107, donarono al Monastero dei Santi Zaccaria e Pancrazio di Venezia ampie tenute presso il Castello di Monselice, acciocché servissero (così si esprime nel documento) all’alimento delle vergini, e delle vedove, che in esso monastero ritirate servivano a Dio in regolare osservanza.

Opportuno fu il soccorso di tali donazioni al monastero, la di cui chiesa, come scrive nella sua Cronaca il doge Dandolo, due anni avanti, cioè nel 1105, era stata distrutta da un terribile incendio.

Insorsero indi di nuovo, scorsi appena quindici anni dalla sentenza del conte Guanerio, i monaci di Santa Giustina, e riprodotte avanti il marchese Fulcone d’Este le lor pretese, furono rigettati con nuova sentenza l’anno 1115, e ristabilite con definitivo decreto le monache nell’intero possesso dei loro beni, e giurisdizioni, e l’anno susseguente Enrico V Imperatore si portò a Venezia per venerar il corpo dell’evangelista San Marco, con amplissimo imperiale diploma ad esempio (come egli disse) dei suoi antecessori per amor di Dio, e dei Santi Zaccaria e Pancrazio confermò al monastero ogni suo podere situato entro i confini del dominio imperiale, cosicché acquetati i monaci rinunziarono per sempre a qualunque non ben fondata pretesa.

Né solamente gli imperatori, ma i romani pontefici ancora decorarono questo illustre monastero con speciosissimi privilegi. Perciò Eugenio III, lo accolse l’anno 1151, sotto la protezione della sede apostolica, ordinando che vi si conservasse inviolato l’Ordine Cluniacense di San Benedetto, già per l’avanti stabilitovi, e che i di lui beni immuni si rendessero da qualunque ingiusta molestia: lo che poi fu più e più volte confermato dagli apostolici suoi successori Adriano IV nel 1156, Alessandro III nel 1180, Lucio III nel 1183, Urbano III nel 1186, Urbano IV nel 1262 e Bonifacio IX nell’anno 1398.

Ai vantaggi del monastero si aggiunse, che avendo già dal vescovado di Padova ottenuto il rilascio delle decime di essi beni, né potendo goderne l’esenzione per lo smarrimento dell’autentico documento, Gerardo vescovo di Padova nell’anno 1169, con suo diploma ne rinnovò solennemente la donazione, confermata poi da Alessandro III nell’anno 1170. Si aggiunsero a queste pie donazioni alquante vigne nel distretto di Chioggia, ed altre nell’Isola di Sant’Erasmo, le prime donate nell’anno 1184 da Leonardo Michieli conte d’Ossero, e concesse le seconde nell’anno 1256 coll’assenso del vescovo di Torcello Gottifredo, ad Angeletta abbadessa di San Zaccaria dal capitolo della Chiesa Matrice di Santa Maria di Murano. La serie di tanti beni venne ne però di quando in quando interrotta da disturbi e litigi, dei quali il più molesto per turbar l’interna pace delle religiose fu quello promosso circa l’anno 1273 da alcuni frati laici dell’Ordine di San Benedetto, servitori del monastero. Era a quei tempi inveterata consuetudine fra i regolari, che vicini ai monasteri di monache abitassero religiosi dello stesso istituto, parte dei quali loro assistessero per l’amministrazione dei sacramenti, ed accudissero gli altri alla buona direzione delle lor rendite. Frequenti di ciò ne abbiamo gli esempi nei veneti.

Monasteri, i quali si apporteranno a suo luogo: e dalle venete Cronache rileviamo, essere stato il doge Tribuno Memmo costretto dal popolo, a vestire abito monastico nei recinti sacri di San Zaccaria, dove il sesto giorno del suo ritiro passato all’altra vita fu consegnato alla sepoltura. Dai laici dunque, che servivano ai temporali bisogni delle religiose, fu promosso grave litigio, la di cui decisione restò dal beato papa Gregorio X delegata prima al vescovo di Chioggia, in di con nuova bolla dello stesso pontefice rimessa all’arbitrio del priore veneto dei domenicani, e dell’arcidiacono, e dell’arciprete della chiesa cattedrale castellana.

Frattanto l’antica chiesa rinnovata dopo il famoso incendio dell’anno 1105, logorata dal corso degli anni si mostrava vicina a cadere: perloché pensando le monache a rifabbricarla e più ampia e più magnifica, raccolsero a tutto potere sceltissimi marmi, e nell’anno 1456 gettarono i fondamenti di quel nobilissimo tempio, che oggi si ammira, al di cui avanzamenti furono eccitati i fedeli dall’apostolica liberalità di Callisto III nell’anno 1456, di Pio II nel 1458, e d’Innocenzio VIII nel 1485, i quali con iterati diplomi rimisero la pena dei peccati a chiunque porto avesse con caritatevole mano sussidio al sacro intrapreso lavoro. Concorse altresì a promoverne celere l’erezione la pietà del Senato, che ricordevole d’aver ottenuto dal figliale affetto delle buone Religiose a soccorso della guerra di Lombardia generose offerte di soldo, assegnò in aiuto della Sacra fabbrica ducati mille, ed ordinò replicatamente ai suoi ministri in Roma, che ottenessero dal sommo pontefice nuove indulgenze a decoro, e favore di questo tempio, nel quale riposavano tanti corpi santi, e che per antica immemorabile consuetudine era annualmente nel giorno solenne di Pasqua visitato dal doge e dal senato.

Vari e discordi sono i pareri dei veneti scrittori circa l’istituzione di questa visita, che deve ogni anno eseguirsi nella più pomposa maniera: Alcuni di essi derivano fino dal dogado di Giustiniano Participazio fondatore del monastero: Altri dai tempi di papa Benedetto III che restituitosi alla sua sede di Roma mandò, come dicemmo, in dono all’abbadessa Morosini le sacre reliquie dei Santi Pancrazio e Sabina: perloché, dicono essi, fu stabilito con pubblico decreto, che il doge dovesse annualmente portarsi alla venerazione di essi santi. Altri finalmente la ritraggono, al principato di Sebastiano Ziani doge, nel quale fu decretata la solenne visita di gratitudine di aver le monache rilasciata parte del loro orto alla dilatazione del palazzo ed ampliazione della pubblica piazza supposizione, come si è già detto, riprovata dagli antichi autografi documenti, che ancor ci rimangono.

Nulla meno che la materiale fabbrica, restò dal lungo corso del tempo danneggiata la spirituale struttura del monastero sito universale a pressoché tutte le religioni. Cominciò ella ad introdursi nei chiostri nei deplorabili tempi del lungo scisma, e secondo il solito dell’umane cose talmente si andò ingrandendo nel passare degli anni, che verso il fine del secolo XV, poco più tenevano di regolare le monache di moltissimi monasteri fuorché l’abito, e il godimento dell’ecclesiastiche rendite. Accorse ad un così grave male con pastorale provvidenza il patriarca Antonio Contarini, e saggiamente considerando, che il Monastero di San Zaccaria, nobilissimo fra quelli della città, quando si restituisse allo splendore della regolare osservanza, da cui era decaduto, servirebbe d’utilissimo esempio agli altri, che ne erano anca più bisognosi, stabili pel di lui spirituale governo con suo salutare decreto molte utilissime prescrizioni, che furono ben tosto con figliale rassegnazione accolte, ed eseguite da Marina Marcello abbadessa, e dalla parte miglior delle monache, che desiderose di servir fedelmente al signore si sottomisero con prontezza alle saggie provvidenze del loro prelato. Alcune però troppo assuefatte al disordine, per poter riservare in esso, e deludere le sante intenzioni del patriarca, interposero dal di lui decreto un’appellazione alla sede apostolica; dal che ne derivava poi non solo scandalo, ma forse tentazione ed inciampo alle più virtuose. Reso consapevole del male presente, e del maggior pericolo il papa Leone X, con apostolica autorità confermò l’anno 1515, tutte le sante ordinazioni del patriarca Contarini; cosicché si vide rifiorir ben presto nel monastero un’esatta riforma, secondo l’antica sua disciplina. Per raffermare però vie più le buone monache nell’intrapresa osservanza, restituì lo stesso pontefice Leone X, nell’anno 1518 alla Chiesa di San Zaccaria le ampie indulgenze già dai suoi precessori concesse, e che a motivo della fabbrica di San Pietro di Roma erano state da Giulio II sospese.

Si terminò frattanto nell’anno 1515 il magnifico tempio, al di cui decoro concorse col dono di alquante marmoree colonne, e con l’erezione di una cappella il celebre vescovo di Brescia Domenico dei Domenici, e nel settimo giorno di maggio dell’anno 1543 fu da Giovanni Lucio vescovo di Sebenico consacrato solennemente a Dio sotto il titolo del profeta San Zaccaria.

Tale è la verità della fondazione di quest’illustre monastero, e del di lui sontuoso tempio, che così per l’interna struttura, come per l’esteriore prospetto, e per la vaghezza delle pitture, ma molto più la preziosità dei venerabili sacri tesori di reliquie, che in lui si custodiscono, e reso uno dei principali ornamenti della città. Molte altre cose di esso si scrivono e dal Sansovino, e da altri scrittori di minor conto, ma principalmente dal dottor Domenico Bozzoni in un suo libro nominato silenzio di San Zaccaria snodato: ma come queste vengono o per la maggior parte riprovare da autentici monumenti, o non derivano da accreditati scrittori, che le asseriscono, così si devono dagli amatori del vero quali mal sognate favole rigettarsi.(1)

Visita della chiesa (1839)

La chiesa che, secondo si è detto, sorse nel 1456 richiama ora soltanto le osservazioni nostre. Primieramente la sua esteriore facciata, tutta incrostata di marmo, non lascia parole bastanti a commendarla. Ripartita in più ordini e sormontata da un ricchissimo frontone, è poi verticalmente divisa in tre corpi che indicano la interna distribuzione delle tre navi, e seguendo le leggi dell’unità, fanno che la larghezza del corpo medio pareggi le due laterali. Questi tre corpi sono separati da un pilone al basso e da una coppia di colonne negli ordini superiori. Grandiose cornici coronano ciascun piano, e la bellissima porta è finita da un fastigio semicircolare, sulla cui sommità trionfa la statua del profeta Zaccaria lavorata dal Vittoria con molta perfezione.

Quali le annunziava il prospetto esteriore tali sono le tre navi onde l’interno della chiesa è diviso, cioè la nave media doppia in larghezza delle due laterali. Il lato lungo che separa la media dalle laterali navate è costituito da tre archi ed arriva fino all’altare maggiore il quale è accolto da un’abside di rara invenzione composto di cinque arcate, intorno al quale, siccome più sotto saremo per dire, gira un piano dove sono cinque cappelle aderenti alla parete.

Incominciamo però l’esame nostro particolare dalla porta maggiore. Tutto il lato di essa è occupato dall’organo le cui portello esprimenti internamente Davide trionfatore di Golia ed esternamente San Zaccaria da una parte e San Ruggero dall’altra, sono di Jacopo Palma.

Indi, dopo aver osservata sulla pila alla destra, la bella statuetta del Battista del Vittoria, se considerar vorremo il destro lato, un grazioso quadretto (forse di Giambattista Tiepolo) noi tosto vedremo, esprimente la fuga in Egitto. Felice trovato d’invenzione! Superiormente a quel quadro sta una pregevole urna sulla quale è distesa la figura di Marco Sanudo.

Jacopo Palma dipinse la pala del primo altare con Nostra Donna e vari Santi, e nel gran quadro, che è sopra l’altare medesimo, Antonio Zonca raffigurò la visita che il doge soleva fare a questa chiesa nel giorno di Pasqua. Nicolò Bambini fece tra il primo ed il secondo altare il quadro con la Visita dei Magi, mentre il secondo altare, riordinato ed ornato da Alessandro Vittoria, ha la pala di Jacopo Palma col santo titolare trasportato in cielo. Sopra questo secondo altare Giannantonio Fumiani dipinse la visita che l’imperatore Federico III fece a questo monastero, introdottovi dal doge.

Passato il secondo altare è bell’opera di Antonio Balestra il quadro con la Natività; indi per nobile e maestosa porta si giunge alla cappella di Sant’Atanasio che fu coro delle monache donde, vedute ivi alcune tele che pendono dalle pareti, potremo passare nel piccolo atrio che conduce ad un santuario contenente tre altari si ricchi d’intagli e di fregi in oro che forse sarà malagevole il trovare i somiglianti. Quel di mezzo offre i santi Marco ed Elisabetta nella parte anteriore, mentre la sua posteriore offre una gran tavola divisa in quattro ordini con figure dipinte e con iscrizioni le quali dichiarano quali reliquie un dì vi si contenessero. L’altare alla destra è diviso in doppio ordine di comparti ed in quello alla sinistra vi sono quattro santi. Le pitture di questi altari si fecero da Giovanni ed Antonio Vivarini a Murano; recentemente si restaurarono le pitture insieme a tutto il resto degli altari.

Tornando nell’atrio che ci ha condotti a questo altare vedremo una scala a chiocciola per la quale si discende nella sotto confessione. Questa nella estensione corrisponde alla fabbrica superiore del santuario descritto, al cui sostegno sorgono anzi due colonne esagone, due rotonde e due quadrate. È illuminato il luogo da quattro finestre, ed ha il pavimento di terrazzo. Tre mense di altare vi sono in fine, due di pietra ed una di legno, e sovra quella che sta alla destra si scorge un antichissimo quadro in tavola.

Ritornando ora in chiesa, sopra la porta che ci introdusse nella cappella di Sant’Atanasio, vedremo l’altro gran quadro di Giannantonio Fumiani esprimente la solennità della consacrazione di questa chiesa, e vicino alla porta stessa il quadro con la Purificazione di Nostra Donna di Alberto Calvetti.

Di qui ci è dato di contemplare prima il ben architettato altare maggiore ricco di scelti marmi, ed avente nelle quattro nicchie del tabernacolo altrettante tavolette di mano di Jacopo Palma, indi considereremo il pittoresco effetto dell’abside che accoglie l’altare medesimo: abside, il quale in sé ha innestata la venustà latina con la gotica leggerezza. Singolare è il trovato dei piedistalli ottagoni reggenti le colonne cosi da lasciare in forse, se anzi che piedistalli, non siano un prolungamento del fusto. Da qualunque parte si osservi quell’abside, l’intreccio delle linee offerto da esso ed il vario alternare dei suoi trafori producono si grate sensazioni ed un sì caro misto di venerando e di semplice che l’arte a più alta meta non potrebbe salire certamente.

Seguendo il giro all’intorno dell’abside stesso si troverà un quadro con la Cena degli apostoli ed altro quadro con la conversione di San Paolo. Ma sola merita le nostre osservazioni, nel terzo altare delle ricordate quattro cappelline al di dietro dell’altare maggiore, la vaghissima tavoletta di Giovanni Bellini con la Circoncisione e con San Giuseppe e Santa Catterina. Al lato sinistro di questa cappellina pende il pregevole deposito di Giovanni Cappello il quale insieme a suo fratello Filippo fece erigere il vicino altare, siccome il ricorda la epigrafe che si legge nella cornice della detta tavola belliniana.

Come si esca dal coro si vede subito fitto nel muro al lato sinistro della chiesa il nobile deposito dal valente scultore Alessandro Vittoria per sé stesso scolpito. Posano però le sue ceneri ivi presso, sotterra.

Succede la magnifica porta che guida alla sagrestia fatta edificare ai tempi del Sansovino per opera di certo Francesco Bonaldo procuratore della chiesa. Sopra la porta stessa Antonio Zanchi dipinse il gran quadro raffigurante la processione fatta intorno la piazza di San Marco per il trasporto di vari corpi santi nell’atto che dal sopraddetto interno santuario in cui stavano raccolti si disposero alla pubblica adorazione per i vari altari siccome stanno di presente. Quanta illusione in questa pittura!

Sull’altare che succede si vede la celebratissima pala di Giovanni Bellini con Nostra Donna ed altri santi, che, passata in Francia nel 1797, fu di nuovo quivi tradotta nel 1815. La grandiosità delle pieghe, la forza del colorito, l’avanti indietro danno a conoscere quest’opera per una delle più alte concezioni del Bellini, che, come altrove si è detto, nella matura vita seguì le orme dei discepoli Tiziano e Giorgione anziché ostinato seguire il vecchio secco stile e denigrare colla voce ai nuovi tentativi di quei sommi. Giorgionesca è veramente per il colorito questa tavola, né Raffaele l’avrebbe vinta per la parità del disegno.

Sopra questo altare Andrea Celesti espresse la visita fatta a questo monastero da Benedetto III l’anno 855.

Il quadro con le sponsalizie di Nostra Donna che sta tra questo e l’ultimo altare è infelice opera di Antonio Vassilachi, ma gran lode vuol darsi a Giuseppe Porta, detto il Salviati, per la tavola dell’ultimo altare dove nell’alto è il Salvatore, ed a basso i Santi Cosma e Damiano in atto di risanare un infermo. La movenza del Salvatore è pur piena d’illusione!

Sopra l’ultimo altare finalmente il ricordato Andrea Celesti significò il papa, l’imperatore ed il doge che ricevono il corpo di un santo. In questa chiesa tanto illustre, oltre il menzionato doge Pietro Tradonico, furono sepolti altri dogi; Orso Partecipazio ossia Badoaro morto nel 881; Pietro Tribuno nel 912; Tribuno Memmo nel 991; Pietro Orseolo II nel 1009; Domenico Flabanico nel 1042; Vital Michele I nel 1102; Vital Michele II nel 1173; ma nessuna delle loro tombe è giunta sino a noi. (2)

Eventi più recenti

Nella concentrazione di vari monasteri, fatta nel 1806, per opera del cessato regime Italico, furono concentrate in questo convento, dichiarato monastero di prima classe, le monache di Santa Croce e dei Santi Cosma e Damiano della Giudecca. Ma soppresso del tutto il monastero nel 1810, nel 1815 ridotto ad uso di uffici della Ragioneria Centrale.

Il monastero attualmente è sede del comando provinciale dell’Arma dei Carabinieri.

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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