Basilica di San Pietro Apostolo vulgo San Piero di Castello

0
3319
Basilica di San Pietro Apostolo vulgo San Piero di Castello

Basilica di San Pietro Apostolo vulgo San Piero di Castello

Storia della chiesa

Benché tra sé siano discordi i cronologi veneti nello stabilire il vero sito dell’antico Olivolo, alcuni ponendolo ove è l’isola di Sant’Elena, altri nell’isola in faccia detta della Certosa; pure la più probabile opinione è, che il Castello di Olivolo anticamente sorgesse nel luogo, ove ora si vede fabbricatala Cattedrale di San Pietro col Palazzo dei Patriarchi, cioè nell’isola ora chiamata di Quintavalle. A questo luogo creduto di intera sicurezza si rifugiarono i padovani, e li altri popoli dell’antica terrestre Venezia, i quali fuggendo dal furore di Attila re degli Unni, dopo aver occupate molte isolette nelle paludi adriatiche, si ridussero anche a questa situata in vicinanza del porto.

In essa ritrovarono i vestigi di antichissime mura, e compresero, esser questo il luogo abitato già dai Troiani condotti da Antenore dopo l’eccidio di Troia, i quali al loro approdare in Italia quivi fabbricarono un Castello, chiamato prima Troia, poi Olivolo, interpretato luogo pieno: cose tutte appoggiate alla tradizione del popolo. In questa isoletta dunque fermò il suo domicilio una non piccola parte dei popoli fuggiaschi: ed alcuni nobili tribuni allora Simachali, poi Cavotorta chiamati, vi eressero una chiesa sotto il titolo dei Santi martiri Sergio e Bacco, la quale stette sotto l’immediata giurisdizione dei patriarchi Gradensi, insieme con tutte le altre della Venezia marittima, fino a che una nuova incursione dei barbari diede occasione di fondarsi un vescovato in Olivolo. Ciò avvenne alla metà del secolo VII, allorché Rotario re Arriano dei Longobardi, giurato nemico non meno del nome romano, che della cattolica religione, scorrendo furioso per tutto il tratto della terrestre Venezia, colmò di stragi e rovine le città, e piantò in esse arriani vescovati, dopo averne fugati i legittimi pastori. Prevenendo però molti di questi le furie del barbaro re, ricoverandosi nelle lagune adriatiche, rifugio sperimentato sicuro in simili incontri, e quivi trasportando con la miglior parte del loro gregge anche le sedi vescovili, vi piantarono i vescovadi della Venezia marittima soggetti al patriarcato gradense.

Fra questi San Magno vescovo dell’antico Opitergio; sapendo venire, minaccioso alla sovversione di sua città l’adirato Rotario, prevenne il di lui furore, e con gran porzione del suo popolo costruì sui lidi dell’Adriatico la città di Eraclea, e con l’autorità apostolica vi piantò il seggio vescovile. Fondata tradizione e comunemente ricevuta però ci istruisce, che prima di passare alla fondazione di Eraclea, si fermasse egli per non breve tempo nell’isola di Rialto, dove, per spirituale conforto ed assistenza dei popoli ivi concorsi, fondasse per divina rivelazione otto chiese: la prima delle quali dedicata fu al principe degli apostoli San Pietro, il quale apparso al santo prelato, mentre orava rapito in spirito, gli ingiunse di fabbricare a di lui onore una chiesa in quell’angolo della Città nascente, ove avesse veduto una mandria di buoi, e di pecore pascolare unitamente. Questa fu la prodigiosa origine della chiesa di San Pietro, che poi o rinnovata, o restaurata da Orso Partecipazio IV, vescovo olivolense divenne la cattedrale della nuova città, e sede dei vescovi olivolensi.

Nello stesso tempo, che il beato Magno da Oderzo, fuggi anche per timore dei Longobardi Tricidio vescovo da Padova, e con l’autorità di Giovanni papa IV, fondò in Malamocco un nuovo vescovado, sotto di cui stettero soggette le chiese tutte di Rialto, e di quell’altre circonvicine isolette, alle quali si erano rifugiati cittadini di Padova. Ma accresciuta in pochi anni di frequente popolazione non solo l’isola di Rialto, ma quelle pure di Gemini, Luprio, e Dorsoduro pensarono ad eleggersi un vescovo, e né impetrarono l’opportuna facoltà da papa Adriano, ed il consenso da Giovanni patriarca di Grado.

Elenco dei Vescovi e dei Patriarchi di Venezia

Questa è la serie dei prelati, che con diversi nomi di vescovo olivolense, vescovo castellano, e patriarca di Venezia governarono per il corso di circa undici secoli la veneta chiesa, e risedettero prima, nell’antica cattedrale dei Santi Sergio e Bacco, poi nella nuova chiesa di San Pietro, celebre per la sua origine, e col correre dei tempi sempre accresciuta di nuovi spirituali ornamenti, di copiose indulgenze, e di sacre reliquie: le più illustri fra le quali, e le più riguardevoli sono i soprammenzionati corpi dei Santi Martiri Sergio e Bacco, ed il venerabile corpo del santissimo patriarca Lorenzo Giustiniani. Aggiungere a queste li devono li corpi dei Santi Lucilla Vergine e Martire, Marcellino e Giulio Martiri, tratti dalle Catacombe Romane, e la mano del santo vescovo di Cartagine Cipriano martire, già venerata, come si crede, nella chiesa abbaziale a lui dedicata in Murano. Giace anche in essa chiesa cattedrale sepolto Antonio Pizzamano vescovo di Feltre, uomo di santissima vita, e che dal celebre abbate Ughello, e da altri scrittori viene decorato col titolo di Beato. Morì questi in Venezia l’anno 1512, e il di lui corpo sotterrato nella patriarcale, fu dopo l’ottavo anno di sua deposizione ritrovato incorrotto, ed illustrato da Dio con manifesti miracoli.

Conservasi pure decorosamente situata un’antica cattedra di marmo, che per tradizione si dice essere quella, in cui sedette l’apostolo San Pietro, allorché piantò in Antiochia la sede del suo pontificato. Fu donata questa nobile reliquia di cristiana antichità da Michele imperatore d’Oriente, figlio di Teofilo, al doge Pietro Tradonico circa la metà dal secolo nono, e l’essere stata tratta dalla città d’Antiochia diede motivo all’equivoco, che fosse ella la cattedra di San Pietro. Dalle parole però che nel mezzo dello schienale sono incise, ed esprimono Antiochia città di Dio con lettere Arabiche, chiaramente si desume non essere stato esso marmo lavorato avanti il secolo settimo, si perché la città d’Antiochia non fu chiamata Città di Dio, se non nell’anno 528 come attestano Teofane e Cedreno Storici Greci, come perché la lingua Arabica non si usò mai in Antiochia, se non dopo l’anno 637 in cui gli arabi la occuparono nell’anno 28 d’Eraclio imperatore d’Oriente. (1)

Visita della chiesa (1815)

La mole considerabile di questo tempio, l’ampiezza del suo presbiterio, i monumenti di patriarchi, onde va insignito, lo danno a conoscere qual chiesa cattedrale. E lo fu infatti sino all’ anno 1807, in cui la patriarcale sede venne trasferita alla già ducale chiesa di San Marco. Il frontispizio, tutto di marmo d’Istria, lo si alzò l’anno 1596 con modello di Francesco Smeraldi, detto Fracà, a spese del cardinale e patriarca Lorenzo Priuli; e la chiesa a crociera, con tribuna nel mezzo, si è rinnovata l’anno 1621 dalla munificenza del patriarca Giovanni Tiepolo con modello di Giovanni Grapiglia, seguaci entrambi della maniera Palladiana, quanto il concedevano loro giorni.

Chi entra in chiesa al suo lato destro vede tra le due porte un quadro con la Cena del Redentore, opera di Antonio Aliense. Barbaramente lo si è fatto seguire il vario girare del muro. Sulla porta laterale, la figura di marmo, distesa sopra un’urna, della più goffa maniera, lavorata nel secolo XIV, è di Filippo Correr, fratello di papa Gregorio XII, che prima era stato vescovo di Venezia.

Il primo grandioso altare fu qui trasferito dalla chiesa, che si diceva del Corpus Domini. Il Crocifisso in marmo, il qual era nella chiesa delle Vergini, il Verci lo avrebbe detto di Orazio Marinali, ma nel trattenne il leggere, che doveva essere lavoro di Giacomo Spada. Sarebbe a desiderarsi che vi si adattasse stabilmente una piccola tavola, che vidi qua messa in occasione di solennità, opera assai pregiabile e pel suo merito reale e per la sua conservazione, degna di qualunque dei primi maestri della nostra scuola, e di leggieri da attribuirsi a Marco Basaiti. Nel mezzo vi sta seduto l’appostolo San Pietro che benedice i Santi Jacopo e Antonio abate, che gli stanno alla sinistra: altri due santi gli stanno alla parte destra.

Nel secondo altare la tavola con il Padre Eterno in gloria è delle buone fatture del Tizianello.

Passato questo altare, sorge sopra quattro gradini una sedia antichissima di marmo, detta volgarmente la Cattedra di San Pietro. In un pezzo di marmo incastrato nel muro si legge così: D. O. M. Cathedram hanc Antiochiae sedit D. Petrus annos VII Michael Orientis imperator Theophili filius Petro I Gradonico Venet. Duci Don. An, MCCCX. Marco Gradenigo, eletto patriarca l’anno 1725, fece porvi quella iscrizione; e si vuole che gliela dettasse fra Rinaldo Cavalotti domenicano. Ma il buon frate, che tanto sapeva di antichità, quanto di grammatica latina, non avvertì, che passò oltre a cinque secoli dall’imperatore Michele Balbo al doge Pier Gradenigo. Nella schiena di questa cattedra vi ha dei caratteri arabo-cufici, che esercitarono l’ingegno e la penna di vari letterati dell’Europa. Chi è vago di erudirsi pienamente della controversia, legga i due libretti di Olao Gherardo Tychsen. È intitolato l’uno: Interpretatio Inscriptionis Cuficae in marmorea templi patriarchalis S. Petri Cathedra qua S. Apostolus Petrus Antiochiae sedisse traditur, editio secunda emendatior (Rostochii 1788 in 4 ); l’altro Appendix ad Interpretationem etc. ( ibid. 1790 in 4). Il Tychsen, da cui non discorda il ch. professore della Università di Padova Simeone Assemani, riflettuto avendo che essa contiene due versetti del Corano, credette che si sia un Cippo di qualche principe dei Mori; dissentendo così dal ch. prelato Giuseppe Assemani, che la aveva creduta una cattedra Antiochena, secondo sua interpretazione riportata con il disegno da Flaminio Corner. ll Galliccioli, trattandone a lungo nelle Venete Memorie, stette con il Tychsen quanto alla spiegazione delle parole, ma si sforzò di mostrare essere quella una cattedra episcopale veramente di Antiochia, detta di San Pietro, poiché San Pietro tenne alcun tempo colà suo vescovado, e alla quale potevano ben adattarsi quei versetti. Or si sia comunque la cosa, certo è che solo un uomo del vulgo potrà bersi essere quella la cattedra di San Pietro. Ma giacché il popolo mal saprebbe lasciare di prestarle venerazione, e giacché dai canonici si aveva in costume di accenderle d’innanzi nel giorno ventidue del febbraio alcun lume di candele, così l’anno 1811 fu buon consiglio l’adattarvi almeno una croce di metallo dorato.

Nell’altro altare è una delle estreme fatture di Paolo Caliari, detto. il Veronese, la tavola con i Santi Pietro, Paolo e Giovanni Evangelista, ed un angelo nell’alto, la quale riparata farebbe assai buon guadagno.

La tavola dell’altare seguente con Nostra Donna ornata di una gloria d’angeli, e i Santi Francesco di Assisi ed Elena imperatrice, accompagnata da due paggi, e San Matteo al basso che vi fa la migliore comparsa, è lavoro di Francesco Ruschi. In essa si vogliono lodare particolarmente i bei panni, per opinione del Zanetti. Su questo altare l’anno 1806 si pose il Corpo di Sant’Elena trasferito dall’isola, che ne avevano i monaci Olivetani.

Clemente Moli è quegli che ha scolpiti in marmo nei fianchi al di fuori di questo altare i busti dei coniugi Francesco Morosini ed Elena Cappello, che avevano fatto dipingere nella tavola i santi del loro nome.

Nella cappella presso la maggiore il quadro con l’Adorazione dei Magi alla sinistra è una delle opere migliori di Pietro Richi, ora non poco annerita, e il quadro con il Castigo dei Serpenti alla destra si dipinse da Pietro Liberi con bizzarra fantasia.

L’altar maggiore, dov’è collocato il corpo del primo patriarca San Lorenzo Giustiniani, fu scolpito dal nominato or ora Clemente Moli l’anno 1649 con disegno di Baldassare Longhena. Otto angeli di varia età ne sostentano la grande Urna, sopra la quale vi è la statua del Santo fra due angeli, e che sta circondata da quattro altre statue di marmo dei Santi Pietro, Paolo, Marco e Giovanni Battista. Nel gradino sopra la mensa vi sono le tre virtù teologali, la Fede, la Carità nel mezzo, e la Speranza, in rame dorato, divise da quattro puttini dei più goffi che si possano osservare.

Pregiato lavoro antico è dietro questo altare, in una breve nicchia, la piccola effigie al naturale in marmo, che rappresenta lo stesso santo patriarca.

L’organo è lavoro di Pietro Nachini, il quale vi pose questa epigrafe: Opus ducent. septuag. sext. R. D. Petri Nachini Dalm. A. D. MDCCLIV.

Dei quattro quadri laterali, ove San Lorenzo Giustiniani comunica una monaca; passa all’altra vita; celebra la Messa apparendogli il Bambino; libera un ossesso, è degno di qualche osservazione il secondo.

Gregorio Lazzarini l’anno i691 ha eseguito il gran quadro alla parte destra di questa cappella. Rappresenta il santo, che scortato dai suoi religiosi con fratelli, e osservato dalla Carità nell’alto, scende da magnifica scala. Vi si vede grande prospettiva del palazzo con colonne d’ordine dorico sopra d’alto basamento; e vi è colà raccolta gran turba di poverelli, che lo attende. Vien questo quadro, dei maggiori che si facciano, giudicato la miglior opera della scuola Veneziana da quel tempo in poi. Certo è che nella composizione si ravvisa la più varia e graziosa fantasia, eleganti ne sono i contorni, ben aggruppate e disposte le masse, diversi i volti e le mosse. Né pur vi manca la forza del colorito, nel che non valeva sempre questo pittore; quantunque il quadro non lasci in qualche tratto d’essere annerito. Ha cominciato la tela a staccarsi dalla cornice: guai se tarda il rimedio!

In altro quadro, della stessa grandezza, e in faccia a questo, Antonio Bellucci espresse il voto del doge col senato al medesimo santo, che intercedendo dileguò la pestilenza. Vi dipinse e l’urna indicata, onde il fa uscire, e il modello dell’antica chiesa. Non vuol negarsi, che pur questo quadro non abbia suo pregio, specialmente nel bel gruppo alla destra, lodevole anche per la ben rispondentevi architettura: ma nessuno sarà così cieco di preferirlo all’altro del Lazzarini, siccome ha fatto il p. Federici nelle Memorie Trevigiane ec.

La cupola a fresco con San Lorenzo in gloria è una delle opere da alcuno mal pregiate di Girolamo Pellegrini, che nel vòlto vi ebbe dipinto anche il Sacramento fra un coro di angeli.

Lasciata l’altra cappella, ove nulla è a vedersi, (giacché degni non sono di considerazione i due quadri nelle pareti laterali con la Invenzione della Croce e la Risurrezione dei morti, e gli altri due ai lati dell’altare, l’uno con Nostra Donna a piè della Croce e la Maddalena, e l’altro con San Giovanni Evangelista, opere del conte Giovanni Solimau, fatte l’anno 1744, che vi è notato, sopra la porta laterale è posto un piccolo deposito di marmo al patriarca Alvise Sagredo, morto l’anno 1742, e di cui vi ha in mezzo busto l’effigie.

La cappella che segue, a spese del cardinale e patriarca Francesco Vendramino si rizzò con disegno di Baldassare Longhena. La tavola con Nostra Donna nell’alto e le Anime purganti al basso è opera ben degna di Luca Giordano. Gli intagli in marmo si eseguirono da Michele Unghero, il quale lasciò nello sedile di un. cardinale il proprio nome. Da una parte si vede scolpita la cerimonia di papa Paolo V, che dà il cappello di cardinale al nominato patriarca, e le quattro statue simbolicamente vi rappresentano, a mio vedere, l’Ingegno, l’Astronomia, la Poesia e la Generosità: come dall’altra parte le quattro statue vi rappresentano la Fermezza, la Verità, la Teologia e l’Agricoltura, e il basso rilievo offre una croce sostenuta dagli angeli con al basso una morte avente una iscrizione da non riportarsi né per la cosa, che vi dice, né per il modo, in che la vi sta poeticamente espressa.

Nell’altra cappella, che vorrebbe più degna custodia, il mosaico dell’altare di tutti i Santi con il cartone di Jacopo Tintoretto fu lavorato da Arminio Zuccato l’anno 1570, come vi è notato.

Nella parete destra sta appeso un quadro in tela, il quale offre San Giorgio, che sopra spiritoso cavallo libera da un dragone una regina minacciata. Porta la epigrafe Marco Basaiti MDXX; e siccome in quest’anno il pittore si trovava giunto a tarda età, così vuol dirsi che era tornato alle prime debolezze. Tanto è vero che la vecchiaia suole confinare con la puerizia!

L’altare, che segue, venne qui recentemente trasferito dalla già chiesa del Corpus Domini. La statua di Nostra Donna Concetta è di Giammaria Morlaiter, qui trasportata dalla scuola della Carità. Vi era dapprima sull’altare una tavola di Girolamo Forabosco. Offriva Nostra Donna con i Santi Marco, Cipriano vescovo, e Girolamo. Nella figura del santo vescovo stava espresso Federico Corner, che morì patriarca l’anno 1644, Qui non avria detto il Boschini, essere il pittore uscito fuora del bosco.

Dopo il fonte battesimale si trova nel primo altare una tavola con il Martirio di San Giovanni Evangelista, opera di Alessandro Varottari, chiamato il Padovanino. Ebbe però un tristissimo restauro da Michele Schiavone, che vi palesò il suo mal atto nel distico seguente”: Saeva Varottari quod pinxit perdidit actas Sclavonus Michael quod rapit illa dedit.

La tavola dell’ultimo altare presenta nell’alto Nostra Donna trasportata in cielo dagli angeli, e al basso i Santi Ignazio Lojola, Francesco Saverio e Carlo Borromeo. La giunta alla base mostra, che non erasi fatta per questo sito, e meritava di essere lasciata dov’era sconosciuta.

Il quadro fra le due porte con gli Ebrei che mangiano l’agnello pasquale, è opera cominciata da Pietro Malombra, e finita da Antonio Aliense, la qual pure fu costretta a seguitare il giro della muraglia.

Sopra la porta maggiore vi è un gran quadro, ove da triste ignoto pennello del secolo scorso si offerse San Lorenzo Giustiniani.

La gran torre, tutta incrostata di marmo, in due ordini divisa, e travagliata con ogni diligenza e con ornamenti di buon gusto, si è cominciata l’anno 1463, e fu compiuta l’anno MCCCCLXXIIII, che si legge sopra la porta. Si eseguì con la quarta parte del le decime dei morti, di consenso di papa Paolo II. La cupola si rifece l’anno 1670 sotto il patriarca Gian-Francesco Morosini. L’orologio vi fu rifatto l’anno 1735 da Bartolommeo Ferracina. Non può leggersi l’iscrizione della maggiore antica campana, che si vuole benedetta da San Lorenzo Giustiniani. Quanto alle altre, in una si legge: Anno MDCLXII opus Dominici Joannis Cioti; nella seconda: Anno MDCII opus Joannis Baptistae De Tonis Venetus; e nell’ultima: Opus Joannes Andreas de Castellis prid. non. Jul. anno MDCCXLI.

Il vicino palazzo, che era dei patriarchi, cominciato nel secolo XIII, le tante volte nei secoli seguenti alterato nella sua forma, ora appartiene al Corpo militare della Marina. (2)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) GIANNANTONIO MOSCHINI. Guida per la città di Venezia all’amico delle belle arti. (Tipografia Alvisopoli. Venezia 1815)

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

Lascia una risposta

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.