Chiesa di San Rocco

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Chiesa di San Rocco - San Polo

Chiesa di San Rocco

Storia della chiesa

Dopo che nel concilio generale di Costanza convocato nell’anno 1414 fu con festiva pompa approvata la venerazione del glorioso San Rocco, e la di lui intercessione riconosciuta efficace presso Dio contro i pericoli del morbo contagioso, molte città dell’Italia con pubbliche dimostrazioni di religioso ossequio procurarono di meritarsi il di lui patrocinio, erigendogli altari, ed istituendo confraternite, che promuovessero il di lui culto. Una di queste fu fondata in Venezia nella Chiesa Parrocchiale di San Giuliano, ove radunatesi alcune devote persone eressero con licenza ottenuta nel giorno 18 di giugno dell’anno 1478 dal Consiglio di Dieci, una scuola di devozione sotto il titolo di San Rocco, alla quale potevano allora esser ascritte persone di qualunque sesso, e condizione.

Da sì tenui principi ebbe origine l’illustre Scuola di San Rocco, che annoverata poi fra le grandi della città, divenne per la magnificenza delle sue fabbriche, per la ricchezza dei suoi addobbi, per la rarità delle sue pitture, e soprattutto per la preziosità delle sue reliquie, uno dei principali ornamenti della città di Venezia. Fondata dunque la Scuola crebbe in pochi giorni a tal numero, che imperi-ò dal Consiglio di Dieci nel giorno 30 di novembre dello stesso anno facoltà di poter portarsi coll’accompagnamento di cento fratelli sotto l’adorabile insegna del crocifisso alle sue divozioni, ed alle sepolture dei confratelli coll’abito suo proprio, e con le discipline, in tal guisa però, che restando i fratelli col volto scoperto, quei soli potessero coprirsi la faccia col cappuccio, che nudi gli omeri si flagellavano a sangue per mitigar lo sdegno Divino irritato dai peccati del popolo; e così restò la scuola dichiarata del numero delle disciplinarie, che ora si chiamano Scuole Grandi.

Mentre dunque con esercizi così esemplari di cristiana penitenza si conciliava questa pia adunanza l’amore, e l’ammirazione della città, un’altra confraternita, che sotto il titolo di San Rocco era stata precedentemente fondata nella Chiesa di Santa Maria Gloriosa, detta dei Frari, ricercò, ed ottenne di uniri, e formare un solo corpo con quella istituita nella Chiesa di San Giuliano, a cui concesse nell’anno 1480 il Consiglio di Dieci licenza di poter trasferirsi, ed unirsi con quella che era ai frati minori, e ne confermò poi nell’anno susseguente le proprie costituzioni. Per quattro anni in circa stettero i devoti confratelli nella Chiesa dei Frati Minori; d’onde poi per gravissime cause risolsero di partirsi; e quantunque avessero già cominciato ad innalzare per loro uso una chiesa, pure ottennero nell’anno 1485 facoltà dal Patriarca Maffeo Gerardi d’atterrare il già fabbricato per costruire in luogo più opportuno altro sacro edificio alla necessità delle loro adunanze, e molto più per collocarvi il sacro corpo del protettor loro San Rocco, che in quei giorni era stato condotto a Venezia. Attesa questa licenza del Prelato, accolse il Consiglio di Dieci le suppliche dei confratelli, e permesso loro il trasferirsi ove lor fosse a grado, concesse pure il poter accrescer il numero dei cento stabiliti fratelli con altri cento, a condizione però, che non fossero prima aggregati ad alcuna delle quattro scuole, dette de Battuti, o sian Disciplianti.

Frattanto che si andava operando per il trasporto del luogo , fu premiata da Dio la divozione dei pii confratelli col più desiderabile dei tesoti, cioè con l’acquisto del venerabile corpo del titolare, e protettor loro San Rocco in tal maniera ottenuto.

Nel mese di agosto 1484. un monaco camaldolese di nome Mauro trovandosi per calunnie rinserrato in una delle carceri di Venezia, s’obbligò con voto di portarsi a visitare il corpo di San Rocco, che si ritrovava in una città detta Ughiera (Voghera) del distretto milanese, luogo allora posseduto dal conte Pietro dal Verme. Liberato adunque per divina grazia dalla sua prigione, si portò tosto alla piccola Chiesa di San Rocco, allora contigua alla Chiesa dei Frati Minori, per render grazie di sua liberazione al santo. Vide ivi fortunatamente il guardiano della scuola Tommaso Alberti, e gli significò di aver determinato di portarsi a visitare il corpo del santo, che riposava nel Castello di Ughiera. Mosso da interiore impeto il guardiano, animò il monaco a rapire furtivamente il sacro corpo; per cui partito nel giorno 12 di ottobre da Venezia, ed arrivato nel 20 susseguente ad Ughiera, si portò a dirittura ad un ospitale, chiamato di San Rocco, presso cui era un oratorio, nel di cui altare sotto forte custodia di due porte, e di una ben chiusa cassa riposava il corpo di San Rocco, e ne conservavano gelosamente le chiavi quattro diverse persone. Disperato dunque dell’impresa il buon monaco senza aver potuto né meno consolarsi con la veduta del sacro deposito, ritornò a Venezia. Ivi riveduto dal guardiano, e rimproverato di sua pusillanimità si determinò ad un nuovo viaggio per eseguire l’ideato progetto, e considerando che quantunque chiuso sotto fortissimi ripari era però il sacro corpo senza personali custodie, vie più si animò all’impresa.

Giunse dunque in Ughiera per la seconda volta nel giorno 24 di febbraio del susseguente anno 1485 ed ivi fermatosi due giorni finalmente in una notte, che più gli parve opportuna, salita chetamente una finestra, si calò in chiesa, e nell’ore più avanzate, quando tutti erano nel più forte del riposo, schiusa con grimaldello la prima portella di legno, ed indi schiodata con tenaglia la seconda di ferro, rapì la cassa, e per una porta da lui con falsa chiave aperta l’estrasse di chiesa. Tradottala poi ad un luogo ritirato e remoto, ne cavò il capo, e le altre sacre ossa, a riserva i due, che lasciò ivi nella stessa cassa involte in alcuni stracci di lino; dopo di che riportata la cassa a suo luogo, e riadattate alla meglio che poté le portelle, che la custodivano, chiusa anche la porta, si partì, ritirandosi in luogo nascosto e remoto, finché sull’alba del giorno si disserassero le porte del castello. Riposte poi in un sacco involte fra panni lini le sacre reliquie e con esse trapassata la Lombardia si ritornò allegro a Venezia, ove giunto rese tosto partecipe di sua venuta il guardiano fuori di sé per il giubilo, collocate prima come in deposito le venerabili reliquie nella Chiesa di San Geminiano (come ci attesta il Sabellico) corse a darne notizia al patriarca Maffeo Gerardi.

Prima però di permettere, che esposte fossero alla pubblica venerazione volle il prudente Prelato , che fosse formato rigoroso processo, onde risultasse la verità dall’asserzione dei giurati testimoni, che già venerato avevano in Ugheria il corpo del santo, e concordi deposero, riconoscer essi nelle sacre ossa trasportate a Venezia i contrassegni tutti già in esso notati , e massime nell’osso della gamba, e del femore una nera macchia, contrassegno del morbo pestilenziale, da cui era stato afflitto il santo vivendo.

Ne diede poi conto con sua lettera il prelato medesimo al Consiglio di Dieci, notificandogli che per collocar devotamente il santo corpo permesso aveva al guardiano della scuola l’abbattere l’incominciata chiesa non ancor consacrata, per edificarne altra in luogo creduto a ciò più opportuno.

Nello stesso anno dell’ottenuta licenza si trasferì la Scuola in un luogo spazioso, dove eretta era un’antica chiesa ad onore di Santa Susanna nella Parrocchia di San Samuele, ed ivi acquistate prima, e poi atterrare molte casette, alcune delle quali servivano ad uso infame di lupanare, destinarono d’innalzare la nuova magnifica chiesa, ottenuto avendo dalla pubblica pietà, che nelle vicine abitazioni dimorare più non potessero meretrici.

Ma perché la Divina Providenza destinato aveva, che quel sito già da tante impurità contaminato si consacrasse convertendolo in abitazione di purissime vergini, fece che i direttori della scuola mutato consiglio cedessero il luogo con le incominciate fabbriche per un monastero, che ivi sotto il titolo dei Santi Rocco e Margherita doveva istituirsi, e pensassero di portarsi a fermar lor dimora nell’antico Palazzo dei Patriarchi di Grado presso la Chiesa di San Silvestro già ottenuto a livello perpetuo dal mentovato patriarca Gerardi.

Là dunque con pomposa solennità di tutte le Scuole, che processionalmente l’accompagnarono, fu portato il corpo del santo dalla Chiesa di San Geminiano, e sontuosamente adattata a forma di cappella una porzione del palazzo stesso, fu in essa con decoro riposto.

Ivi avevano stabilito di perpetuamente fermarsi i devoti confratelli stanchi ormai di tante, e si dispendiose mutazioni; ma promossi avendo il piovano di San Silvestro contro la confraternita molesti litigi; credettero di dover ricomprar la loro quiete abbandonando il luogo benché risarcito, e reso adorno con gravi dispendi, e ritornare all’antica stazione nella parrocchia di San Pantaleone, ove avevano molti anni prima intrapresa la fabbrica di una nuova chiesa, che tanto più si rendeva loro necessaria dopo il fortunato acquisto del santo corpo.

Impetrarono dunque con nuova supplica nell’anno 1489 permissione dal Consiglio di Dieci di restituirsi al primo loro luogo appresso i Frati Minori, ed ivi far ristorare la chiesa sotto il titolo di San Rocco già nei precedenti tempi abbattuta approvando le convenzioni tra il guardiano e suoi compagni dall’una, procuratori dei Frati Minori, dall’altra parte già stabilite.

Con tal fervore si adoperarono i devoti uomini per l’erezione della nuova chiesa, che ridotta in pochi mesi a stato di potersi ufficiare con nuova pomposissima solennità di traslazione, a cui intervennero per pubblico assenso nel mese di marzo dell’anno 1490, le altre quattro Scuole dei Battuti, levarono dal Palazzo di San Silvestro il corpo del lor protettore San Rocco, ed onorevolmente nella nuova chiesa lo collocarono, la quale fu poi consacrata da Domenico Alerio vescovo di Chisamo nel giorno primo di gennaio dell’anno 1508.

Quantunque però i divini uffici, e le più solenni funzioni si celebrassero nella nuova chiesa, contuttociò e radunanze dei confratelli seguivano a convocarsi nel Palazzo Patriarcale; il che riuscendo troppo d’incomodo, fu deliberato di comprare dal capitolo della chiesa di San Pantaleone, che le possedeva, una fornace, e tre piccole case contigue alla nuova chiesa, per poter sul loro fondo innalzare un ospizio alla convocazione dei confratelli più comodo ed adattato. Stabilito dunque il prezzo di mille ducati d’oro, fu il contratto con autorità apostolica dai delegati commissari a tale effetto dal cardinal Penitenziere eletti approvato come utile, e confermato nel giorno 8 di agosto dell’anno 1516.

In esso sito dunque si disposero i principi di un ospizio, che sotto la direzione di Giulio Padre, e Santo Figlio Lombardi s’innalzò con tal magnificenza, che ridotto col divino aiuto a perfezione non cede in maestà a niuna delle fabbriche più suntuose di Venezia.

Non eguale però né in decoro né in consistenza fu la struttura della chiesa innalzata in ristrettezze di tempo, che però fino dai principi del secolo XVIII, dando manifesti segni di sua debolezza eccitò l’attenzione dei direttori della scuola a promuoverne la rinnovazione, principiata poi nell’anno 1725 e ridotta nel corso di qualche anno a perfezione riedificata in più adorna e maestosa maniera.

Riconosce la città di Venezia dall’intercessione di Maria Vergine Santissima, e dalla protezione di San Rocco l’essere stata dalla clemenza del divino Redentore liberata dalla fierissima peste, che l’afflisse nell’anno 1576. Per cui decretò il Senato di doversi ogni anno con pompa festiva nella solennità del santo visitare dal principe, e dallo stesso senato il venerabile di lui corpo, che in un’arca di scelti marmi riposa sull’altare maggiore della sua chiesa, ivi nell’anno 1570 onorevolmente collocato. (1)

Visita della chiesa (1839)

Si diede mano, come si disse, all’innalzamento di questa chiesa nel 1489, e nel 1508 fu solennemente consacrata. Protestarono i padri minori il giorno appresso contro quella consacrazione e contro la fabbrica del piccolo campanile; ma, dopo quaranta anni di continuo, litigio, ogni differenza fu tolta. Tuttavolta ad altro litigio furono esposti i confratelli con il pievano di San Tommaso a motivo della Santissima Eucaristia che custodire volevano in questa chiesa. Per altro, mediante, alcune restrizioni, tendenti a salvare i diritti parrocchiali di San Tommaso, l’eucaristia fu accordata.

Grande era in passato il culto che qui si rendeva a San Rocco principalmente nei tempi della pestilenza. In quelle occasioni funeste il patriarca Col suo clero vi si trasferiva, e dopo aver celebrata la messa, faceva aprire la cassa dove giacciono le ossa del santo titolare: ossa che rimanevano esposte con apparato magnifico fino all’ultima ora del giorno, in cui assistendo di nuovo il prelato si chiudeva l’urna. La funzione medesima durava per alcuni giorni, e, cessatala pestilenza, erano frequenti le processioni delle confraternite e delle arti, molte delle quali appendevano voti e lasciavano doni preziosi, all’ara del santo, Né solamente le parrocchie della capitale vi si recavano; ma i popoli delle città e delle terre dello stato, e gli esteri ancora si trasferivano in Venezia in pubblica forma a venerare il corpo del santo e vi lasciavano in dono i loro gonfaloni. Monumento difatti della confraternita di San Rocco di Bologna è quello del gonfalone da essa lasciato nel 1605, e da noi ricordato più sopra.

A perpetuare la memoria delle grazie ottenute per l’intercessione di San Rocco nei casi di pestilenza il giorno del santo titolare si recava il doge a questa chiesa con l’accompagnamento del senato, della signoria e degli ambasciatori. Le principali cariche della confraternita, chiamate la Banca, andavano ad accoglierlo. Il guardiano grande gli presentava un mazzetto di fiori e presso lui si collocava. Il sotto-guardiano ne presentava uno pure agli ambasciatori ed alla Signoria, mentre altri confratelli ne dispensavano a tutti gli altri del seguito. Entrato il doge in chiesa ed approssimato all’altar maggiore, il cappellano della confraternita aveva il privilegio di dire la messa, mentre in tutte le altre occasioni spettava al cappellano del doge il celebrarla. Terminata la messa i serventi portavano sopra grandissimi bacili d’argento candele in copia, che venivano ad ognuno distribuite cominciando dal doge. Di là passava la comitiva, col doge alla testa, in una delle sale della confraternita per adorare le reliquie, che in quel dì si espongono nell’Albergo. Il doge non si partiva dal luogo senza aver fatto un complimento al guardiano superiore incaricandolo di porgere alla, società tutta la approvazione del governo e le assicurazioni della speciale sua predilezione.

Minacciava questa chiesa di rovinare allorché determinò la confraternita di riedificarla dei fondamenti. Datane commissione a Giovanni Scalfarotto gli prescrisse per altro di conservare le tre cappelle superiori innalzate da Mastro Buono. II perché, con ottimo consiglio, lo Scalfarotti seguì la maniera semplice del detto Buono, sia nei pilastri come nei capitèlli; cosicché questo tempio, dice il Temanza, sembra murato in una sola epoca e da un solo artefice. La facciata si voleva erigere sul disegno di Giorgio Fossati, e ne erano già posti i basamenti ed i piedistalli delle grandi colonne, e stava apparecchialo altresì il rimanente, allorché nel 1658, per ordine degl’inquisitori l’opera fu sospesa, e per i raggiri dell’architetto Bernardo Maccaruzzi ne fu ad esso affidata l’esecuzione, distruggendo quanto si era eseguito col dispendio di 20.000 ducati. Costò quella facciata alla confraternita, oltre a 70.000 ducati e riuscì un’imitazione di quella della scuola vicina.

È formato l’interno di questo tempio di una sola navata di mediocre grandezza e di altezza corrispondente, con quattro porte laterali, oltre la principale. La tavola del primo altare alla destra dell’osservatore con San Francesco di Paola che ritorna in vita un bambino è di Sebastiano Rizzi. Sul pavimento dinanzi a questo altare è scolpito uno stemma con due chiavi ec. che fa supporre essere quivi tumulato Giovanni Dechialo ambasciatore di Francia, il quale, giunto in Venezia a fine di trasferirsi in Siria a visitare i luoghi santi, mentre frattanto portavasi in Padova per venerare le ceneri di Sant’Antonio fu assassinato in Oriago da una masnada di contadini.

Sopra il tribunale di penitenza, presso il detto primo altare, è di Jacopo Tintoretto il quadro della Probatica piscina opera sì sublime che la critica più severa non altro seppe trovarvi che un affollamento di figure. Del medesimo Tintoretto è il quadro superiore con San Rocco nella solitudine presso Piacenza cui il cane pietoso porta il consueto pane tolto dalla mensa del suo padrone Gottardo Palastrelli slgnore del luogo.

Nel secondo altare è una tavola, di maniera gentile più che robusta, dipinta in Roma da Francesco Trevisani e che presenta il Taumaturgo di Padova in atto di risanare quel giovanetto che si recise il piede dopo aver dato un calcio a sua madre. Molta è l’espressione di questa affettuosa pittura! Sull’altare della cappella vicina, una delle due laterali alla maggiore, si vede un quadro di Tiziano col Redentore trascinato al Calvario da un carnefice mezzo-ignudo. Si reputa lavoro di Andrea Schiavone la mezza-luna superiore coll’Eterno Padre.

Adornano le pareti laterali della contigua cappella maggiore quattro quadri del Tintoretto. In quello dei due primi situati, alla sinistra dell’altare è rappresentato San Rocco che nello spedale risana gli infermi. Tutto è immaginato quivi ed espresso con una verità che sorprende. San Rocco che muore confortato dall’apparizione di un angelo forma il soggetto dell’altro quadro. Bellissime e naturali sono le mosse; con magistero stupendo è maneggiato il chiaro-scuro; un’eccellenza è nelle parti degli ignudi e quindi a buon diritto si annovera quest’opera tra le migliori del Tintoretto. I due quadri superiori ai descritti, offrono San Rocco nella capanna visitato dagli uomini e dagli animali, ed il santo medesimo che, creduto un esploratore, viene da uno stuolo di soldati arrestato.

Colla sorveglianza di Mastro Buono si eresse il magnifico altare della detta maggiore Cappella ornato di scelti marmi. Accrescono decoro a quell’altare due statue che figurano i Santi Sebastiano e Pantaleone. Ai fianchi dell’ara sono opere del Pordenone i quattro puttini dipinti a fresco. La Trasfigurazione nella mezza vólta superiore, i quattro dottori della chiesa negli archi laterali, gli evangelisti nei pennacchi e le sacre istorie nel rocchetto della lanterna furono rifatti da Giuseppe Angeli sulle tracce dei freschi del Pordenone.

Lasciata la cappella successiva del Sacramento nello affacciarsi alla vicina porta, per cui si va in sacrestia, si scorge il monumento che stava nella vecchia chiesa colla statua pedestre del prode armigero Pellegrino Baselli-Grillo bergamasco morto in servizio dei Veneziani combattendo sotta l’Alviano nella guerra della Lega di Cambrai. Alla sinistra dello spettatore vi è San Sebastiano dipinto a fresco dal Pordenone, e tagliato dall’antico prospetto del tempio. In questa figura si scorge il magistero di quel pittore nel servirsi delle mezze tinte per dar colore alle carni senza l’aiuto di ombre caricate. Lavoro del Fontebasso è finalmente il santo titolare portato in cielo dagli angeli nel soffitto della sacrestia.

Ripigliando ora il giro della chiesa, la tavola del primo altare colla Vergine Annunziata è del cav. Francesco Solimene napoletano, ed il quadro vicino col Redentore che scaccia i profanatori dal tempio è di Giovanni Antonio Fumiani. Due portelli uniti d’antico armadio formano, con delle aggiunte, il quadro superiore a questo, nel quale il Pordenone sullo stile giorgionesco e con gran forza di colorito dipinse San Martino che fa parte del suo mantello con un mendico, e San Cristoforo con molti infermi in distanza che chiedono la guarigione.

La bella tavola dell’ultimo altare coll’invenzione della Croce fu dipinta dal Rizzi già fatto vecchio. Opera del Tintoretto è il quadro della parete vicina con San Rocco presentato dal cardinale Britannico al sommo Pontefice. Nella mezza luna superiore Giuseppe Angeli figurò la visita che il principe, accompagnato dalla signoria, dal senato e dagli ambasciatori faceva ogni anno a questa chiesa. Il quadro dall’altro canto, coll’Annunziazione del Tintoretto, formava la parte interna dei portelli dell’organo antico, e fu il detto Angeli che dipinse nella mezza luna superiore il riconoscimento del corpo di San Rocco fatto dal patriarca Matteo Girardi.

Fra gli intercolunni sotto all’organo sono annicchiate due graziose statue di fino marmo scolpite con molta diligenza da Giovanni Marchiori. Offrono: l’una Davide colla testa dell’atterrato gigante, e l’altra Santa Cecilia. (2)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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