Chiesa e Monastero di Santa Maria della Misericordia o Santa Maria Valverde

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Chiesa di Santa Maria della Misericordia - Cannaregio

Chiesa di Santa Maria della Misericordia o Santa Maria Valverde. Monastero di monaci Agostiniani. Monastero demolito

Storia della chiesa

In un sito; che per essere coperto di terreno assai erboso si denominava la val verde, fu fondata una chiesa sotto il titolo di Santa Maria della Misericordia, o da Cesare dei Giuli, detto anche Andreardi, unico fondatore secondo l’opinione del Sansovino, o pure dalle due famiglie dei Giuli e Moro, le quali concorsero unitamente (come scrivono altri cronologi) all’erezione del sacro edificio.

In qual tempo fosse consegnata questa chiesa ad una famiglia religiosa, e quale istituto professasse, ora ci è ignoto, quantunque sia verosimile, che quei regolari fossero dell’Ordine di Sant’Agostino, prima che con ridursi in un corpo prendesse la forma di perfetta religione. Da pubblici documenti si rileva il nome di fra Almerico custode della Casa della Misericordia nell’anno 1282 e nei registri della Scuola Grande della Misericordia all’anno 1308 si legge scritto fra Pietro Civrano priore del luogo di Santa Maria di Valverde Madre di Misericordia, sotto il di cui governo si istituì la pia Confraternita della Misericordia, ora eretta in Scuola Grande, come pure all’anno 1310. Fra Pietro Donare priore della Misericordia, il quale di consenso dei suoi Frati, che in numero di due soli abitavano nel luogo, concesse alla confraternita suddetta un sito preciso, ove fondare l’ospizio. Morì poi nel giorno 1 di maggio dell’anno 1348, nel quale essendogli sostituito nel priorato Bartolomeo Donato, perirono per la peste, che infieriva in Venezia, i religiosi, che abitavano nel luogo della Misericordia, restando solo il priore, che continuò a vivere sino al giorno 25 di luglio dell’anno 1369.

Dieci giorni però prima di morire aveva egli ceduta la sua dignità a Luca Moro, che si legge entrato come priore nell’amministrazione del luogo nel giorno 15 dello stesso mese, e poi nel giorno 30 del susseguente ottobre ammise alla visita dell’ospitale il piissimo patriarca di Grado commissario apostolico, a ciò delegato dall’autorità suprema del pontefice Urbano V. Protestò però in tale occasione il priore di riceverlo in riverenza del pontefice come delegato apostolico, non però in qualità di patriarca gradese, per non derogare in veruno conto né alle proprie, né alle prerogative della famiglia Moro. Si rileva dal documento della visita atta allora dal patriarca, che la nobile famiglia Moro era fondatrice, e padrona dello stesso ospedale.

Accettò il buon patriarca umanamente le giuste protese del priore, ed assicurandolo di dover adempire il solo uffizio di commissario apostolico, intraprese la visita, e con sua sentenza stabilì, che la famiglia Moro fu la prima fondatrice della chiesa, e dell’ospedale, ed aumentatrice delle rendite di essi luoghi; e perciò ad essa appartenere il giuspatronato, cui egli con l’autorità a se concessa assegnava a Giacomo Moro figlio, alla discendenza di Marin Moro della Parrocchia di San Simeone Profeta, dichiarato prima fondatore e padrone della chiesa e ospitale predetti.

Il nominare però Marin Moro, che visse nei principi del secolo XIV, come primo fondatore e padrone, riferire si deve a qualche grandiosa restaurazione e rinnovazione della chiesa, e sorse anche all’istituzione dell’Ospitale, la di cui prima menzione, che si legga nei documenti, fu fatta nel testamento di Giovanni d’Avanzo nell’anno 1324.

Comunque sia del titolo della fondazione, continuò poi sempre pacificamente nella famiglia Moro la giurisdizione di presentare il priore, il quale anche qualche fiata fu assunto da altre famiglie. Uno di questi fu Giacomo Negri sotto il governo del quale nell’anno 1454 Cristoforo Moro, che fu poi Doge di Venezia, essendo Ambasciatore allora appresso il sommo pontefice Nicolò V, ottenne dall’apostolica autorità, che il priorato, l’ospedale, e i poveri, e ministri d’esso fossero dichiarati esenti da qualunque soggezione alla Chiesa Parrocchiale di San Marziale, e loro fossero amministrati gli ecclesiastici sacramenti da un sacerdote scelto dallo stesso priore.

Altro priore scelto da estranee famiglie fu Girolamo Savina, egualmente pio che dotto soggetto, in riflesso dei di cui meriti Clemente VIII con indulto apostolico segnato del giorno 27 di maggio dell’anno 1600 concesse che i priori della Misericordia tanto nei sinodi diocesani, nei quali ottengono il secondo poso dopo il patriarca, quanto nei concili provinciali, potessero vestire il rocchetto e l’abito di notai apostolici, e nella propria Chiesa della Misericordia in ogni solennità usare la mitra e le altre insegne pontificali, e concedere al popolo in essa chiesa adunato la solenne benedizione. Preziosa nella faccia di Dio fu la morte di questo illustre uomo. Poiché essendo stato per ingiustissima causa avvelenato da uno scellerato sacerdote nel sacro calice, la di lui più viva premura nella gravità del male, e fra le angustie della vicina morte fu, che al sacrilego suo omicida fosse condonata la colpa; per la qual cosa non cessò mai sino all’ultimo fiato di fervorosamente pregar Iddio, e gli uomini. Morì (come riferisce la di lui iscrizione sepolcrale posta in questa chiesa) nel giorno 9 di giugno dell’anno 1611 in età d’anni cinquanta.

La facciata di marmo, con cui è adornata nell’esterno questa chiesa, fu eretta per comando di Gasparo Moro filosofo insigne, il quale morì nell’anno 1650. L’ospitale poi, nel quale vivono raccolte alcune povere femmine, è situato contiguo alla chiesa da esse riconosciuta per loro parrocchia. (1)

Visita della chiesa (1839)

La rustica antica facciata di questo tempio fu nel 1659 coperta con marmo d’Istria sul disegno di Clemente Moli, del quale sono pure le due statue, eccedenti il naturale, ed esprimenti la Costanza e la Misericordia ai lati della porta, e la statua di Nostra Signora nell’alto, non che quelle dei due angeli accanto alla lapide che occulta le ceneri di Gaspare Moro, insigne filosofo morto nel 1671, il busto del quale in bianco marmo vi sta sovrapposto.

Ma quando nel 6 luglio del 1828 assunse il prelodato Pianton l’abaziale infula dalle mani del veneto patriarca Jacopo Monica, era sfornita la porta della chiesa non solo d’atrio e di bossola, ma d’ogni interno ornamento. La cappella a destra, cui metteva una sproporzionata grande arcata di cotto, era presso a ruinare, e guasti pendevano da una delle pareti i due dipinti del Bonifacio: il Battista e San Matteo Evangelista. Ridipinta e malconcia si mostrava pure dal logoro altare la Santa Cristina con i Santi Pietro e Paolo, opera un dì pregiata di Domenico Mazza. Dal piccolo altare di pietra istriana, che sta dopo l’accennata cappella, pendeva una tavola rappresentante Nostra Signora ed il Bambino, lavoro non pregevole sulla greca maniera, mentre il maggior altare nel coro, cui non metteva veruno gradino sovra il piano della chiesa, era separato soltanto da quattro panche, e consisteva in una piccola semplice mensa isolata di marmo bianco intarsiato di rosso, con di contro sulla maestra muraglia un basso rilievo in pietra d’Istria che senza veruno ornato all’intorno rappresentava la Beata Vergine della Misericordia ed alcuni devoti, lavoro infelice del basso tempo.

Sopra la ferma sedia abaziale stava una meschinissima cantoria fornita di piccolo rovinato organo, volgare opera del 1621, nel altro poteva apprezzarsi in essa cantoria se non se il parapetto intagliato a gotico disegno, rovinato però da una grossa imbiancatura di calce. Nell’altare di legno e pietra cotta, che tuttora esiste, e da cui si mostrava, prima del 1827, il prezioso dipinto di G. B Cima di Conegliano esprimente l’Angelo e Tobia, era sostituita una non pregevole copia della Presentazione di Nostra Signora del Bassano, e dopo l’esistente monumento, eretto a Jacopo Moro capitano di mare e terra, morto nel 1577, si vedeva un logoro altare di pietra d’Istria di nessuna eleganza, avente a pala l’effigie di Sant’Antonio di Padova con Gesù Bambino tra le braccia d’ignoto volgarissimo pennello. Finalmente alcuni tratti delle pareti della Chiesa erano coperti di vari quadri a buon mercato qua e là acquistati, che lungi dal coprirne, come si esprime il  Moschini nella sua Guida, l’orridezza causata dalla umidità, si risentivano piuttosto del medesimo danno. La sagrestia poi non era se non se un oscuro locale a pian terreno frammezzo alle attigue rovinate casette, e veniva coperta nei muri in parte da marciti arazzi, in parte da logore dipinte tele: e basti il dire, che nel sito in cui attualmente sono appese le tabelle Praeparatio ad Missam , locate erano le due finestre.

Ritenuti in mente questi cenni del compassionevole stato, in cui ab. Pianton rinvenne nel 1828 la sua chiesa, non dispiaccia ora il dare uno sguardo a quanto fino ad ora concepì a restauro e ad abbellimento di essa, non che a preservazione degli oggetti d’arte, sposti al deperimento e da lui per Venezia raccolti, oltre a quanto ha in animo di condurre a termine.

L’atrio, l’organo (nobile opera del Bassani) e la cantoria, dalla quale fa bella mostra il ristorato gotico parapetto sono le nuove opere del 1833, succedute all’altra tanto utile della erezione di quel ponte, che dalla fondamenta della Misericordia mette al campo abaziale, cui mancava l’immediato accesso. In sostituzione della sconcia arcata, eccoti invece le marmoree imposte della proporzionata porta della nuova Cappella dai fondamenti innalzata, ed ornata al di fuori dalle statue delle sante Cristina, Dorotea, e Callista, lavori di Bartolomeo Buono, fiorito nel secolo XIV. Tali statue esistevano entro l’arco della porta della scuola grande della Misericordia in una la maestosa celebrata statua colossale della Beata Vergine, dello stesso autore, che si mira collocata di rimpetto all’opposta parete. La statua di San Francesco d’Assisi, d’ignoto antico scalpello, spettava alla profanata chiesa di Santa Maria Maggiore, e quella di San Domenico, lavoro del Comino, o del Cabianca, stava un tempo sull’altare della profanata chiesa delle Pinzocchere a San Martino. L’altare di fini marmi, che si alza nella nuova cappella, fu graziosa offerta della veneta dama Anna Giovanelli vedova Boldù. Quell’altare spogliato dalle pesanti goffaggini antiche, a merito della maestria di  Vincenzo Fadiga, che sta lavorando inoltre a carico di generoso devoto il pavimento, accontenta il guardo, e lo rallegra.

Nel corrente anno 1840 verrà in esso trasferita la immagine della gloriosa taumaturga la Santa Maria Filomena, e nelle nicchie laterali saranno riposti i corpi delle Sante Giulia, Veneria ed Agape, e dei Santi Afeno e Gaudenzio, tutti martiri Proprii Nominis dei primi secoli della chiesa (come ne fanno fede le relative sottoposte quattro lapidi), estratti in Roma dai cimiteri di Sant’Ippolito e di Santa Priscilla, ed ottenuti a gloria ed a presidio dell’abaziale. Questa quanto semplice, altrettanto ricca e venusta cappella sarà nel soffitto abbellita dal dipinto di Antonio Zanchi, rappresentante Nostra Signora della Misericordia fortunatamente tolto al deperimento dal professor Antonio Florian.

Dalla cappella si passi al coro. Fu questo nel 1855 alzato sopra il piano della chiesa per due gradini onde collocarvi il prezioso altare, ed i magnifici marmorei sedili a spalliera, che forse in Venezia non hanno i secondi. Agguagliato che fu al suolo il convento e pressoché tutta la chiesa dei monaci camaldolesi di San Mattia di Murano, per oltre a tre lustri stettero esposti all’intemperie delle stagioni quell’altare e quei sedili, che per antica tradizione costarono ai benemeriti monaci oltre dodici mila ducati. 

Ai lati, sopra le anzidette spalliere penderanno due grandi tele, opere di laudati pennelli, che dal benefico possessore sono a tal uopo serbate. Sopra la porta, che mette alla sagrestia, sarà riposto il busto di Sant’Elena di Antonio Dentone, che un tempo fregiava il claustro dei Monaci Olivetani dell’isola pur di Sant’Elena. Agli estremi angoli del coro, sulla gengiva del gradino, alzati due piedestalli, vi trionferanno due colossali statue, l’una di San Paolo, l’altra di Sant’Andrea apostoli, e finalmente da semplice balaustrata di marmo si separerà dall’area della chiesa il coro, che di un solo gradino sarà elevato, dovendo il nuovo marmoreo pavimento della chiesa livellare l‘atrio della porta.

Scendendo dal detto gradino, al destro fianco verrà riposto grazioso ed elegante monumento che a sé ed alla moglie eresse nel 1537 Luigi Malipiero nell’ora profanata chiesa di Santa Maria Maggiore: monumento di cui Emmanuele Antonio Cicogna parla nel Tom.III. Alla pag. 409 della erudita sua opera delle Iscrizioni Veneziane monumento.

Allo sconcissimo attuale altare, intitolato a San Giuseppe, sarà sostituito uno dei due eleganti di marmo, che esistevano nell’ora profanata chiesa delle Convertite alla Giudecca, e sopra di esso sarà aperto il terzo finestrone: indi si mostrerà da architettonico contorno in pietra viva fregiata la grande statua della Beata Vergine della Misericordia con ai lati, sopra due mensole, due Angeli, lavoro di maestro Buono,.

Passando al sinistro fianco, dopo la porta suindicata della cappella, sarà alzato l’altro altare di marmo, che esisteva alle Convertite della Giudecca e che si vuole intitolato ai santi dei quali fra l’anno se ne solennizza la memoria nell’abaziale. Sopra quell’altare vi avrà il quarto finestrone: e rimpetto al monumento suindicato del Malipiero sarà trasferito l’ora pendente monumento del celebre capitano Jacopo Moro attorniato da un’arcata di viva pietra.

Armonizzati nell’esposta guisa i due lati della chiesa, nei quali verranno pur poste le dodici marmoree croci, un tempo esistenti nell’ora profanata chiesa di Sant’Agostino,  saranno chiuse le due finestre ai fianchi della cantoria, e la collocati verranno sopra mensole due busti di scelto scalpello, continuandosi altresì il cassone dell’organo dall’uno all’altro dei maestri muri, e rannicchiandosi inoltre tra quegli spazi due nuovi confessionali.

Ora, se si giunga di vedere ai nostri giorni tanta impresa condotta al termine, che non applaudirà allo zelo ed al grande animo dell’attuale  abate, che dallo stato veramente misero e quasi cadente in cui la trovava nel 1828, a tale abbia rialzata l’abaziale, e per regolarità e dovizia di preziosi oggetti d’arte l’abbia resa non inferiore a molti ammirati templi della nostra Venezia!  (2)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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