Chiesa e Monastero del Corpus Domini

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Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto. "Veduta del Canal Grande da Santa Croce verso gli Scalzi", sulla sinistra la Chiesa del Corpus Domini. (Foto dalla rete)

Chiesa del Corpus Domini. Monastero di Monache Domenicane. Chiesa e Monastero demoliti

Storia della chiesa e del monastero

Quanto abbiamo di notizie circa l’origine dell’illustre Monastero del Corpo di Cristo, tutto lo dobbiamo alla diligenza di Bartolomea Riccobona, che in una sincera cronaca tesse la fondazione, ed i progressi di esso insieme con le memorie di molte virtuose monache che con lei professarono vita religiosa in questi chiostri. Tali ne furono dunque i principi.

Lucia nata in Venezia dalla nobilissima famiglia Tiepolo circa il principio del secolo XlV lasciò il mondo prima di conoscerlo, essendosi nell’undecimo anno dell’età sua vestita dell’abito di Sant’Agostino nel Monastero di Santa Maria degli Angeli di Murano, ove religiosamente visse per trentaquattro anni. Destinata poi malgrado la sua ripugnanza dal Vescovo di Torcello in Abbadessa del Monastero dei Santi Filippo e Giacomo d’Ammiano, lo governò lodevolmente per tre anni, nel qual tempo, mentre con calde lagrime, e fervorose preghiere implorava di conoscere, ed eseguire il Divino beneplacito, vide un giorno assorta in estatica contemplazione il divino Redentore grondante sangue, e coronato di spine, il quale le impose di dover ad onore, e sotto l’invocazione del suo corpo instituire in Venezia un monastero di monache. Attonita a tal comando la pia vergine, e fra il timore, e la consolazione riguardando sé stessa e la sua povertà sentì confortarsi all’impresa dal Redentore, che mostrandole le cicatrici dei chiodi, e promettendole la sua assistenza disparve. Si replicò nelle due susseguenti notti la stessa visione; perciò ubbidiente la buona abbadessa si portò in Venezia dal piissimo Patriarca di Grado Francesco Querini, ed espostagli per ordine l’apparizione, ed il comando, fu da lui vie più animata ad intraprendere la grande opera con la sicurezza, che Dio non sarebbe mai per mancare, alle sue promesse.

Incoraggiata Lucia dai consigli del santo uomo, chieste prima, ed ottenute le opportune facoltà e di abbandonare il Monastero d’Ammiano, e di poterne fabbricare un nuovo in Venezia, si ritirò in una casa privata, ove stette per sei anni con fiducia attendendo gli aiuti della Provvidenza divina. Ritrovato poi nell’estremo angolo della città un sito detto Cao de Zirada, anticamente, destinato alla fabbrica dei vascelli, quello destinò per piano dei nuovi chiostri, per la di cui compera offersero spontaneamente il prezzo alcune nobili vedove, che se le erano esibite compagne nel santo proposito. Ma mancando esse poi all’impegno (di che ne furono ben presto con funesta morte dalla divina giustizia punite) convenne, che la povera vergine con alcuni pochi soldi da lei raccolti mendicando, nel che era perita, comprasse il sito, e vi disponesse un’angusta chiesa di tavole sotto l’invocazione del Corpo di Cristo. Vi aggiunse accanto alla chiesa un pio mercante per nome Francesco Rabia sette celle, nelle quali andò a chiudersi la buona Lucia con un’altra compagna, vestite dell’abito di San Benedetto, e con due femmine secolari; e quivi perseverò costante per ventotto anni non mai mancando della concepita speranza.

Ardeva in quei tempi fierissima guerra tra le Repubbliche di Venezia e di Genova, e già l’esercito genovese, acquistata Chioggia, minacciava da vicino la veneta libertà, di che angustiato il buon mercante Rabia promise a Dio con voto solenne, che fabbricherebbe di pietre la Chiesa del Corpo di Cristo, subito le afflitte cose dei veneziani prendessero respiro. Vinti dunque poco dopo i nemici genovesi, e riconciliatesi con la pace le due Repubbliche, si portò Francesco a misurare il sito dell’ideata chiesa; a cui andò incontro Lucia, e il Signore, gli disse, mi ha dimostrato in visione la tua persona come fondatore della chiesa, e mi ha palesato pure chi dovrà fabbricarmi il monastero, in cui io stessa (era allora ottuagenaria) vedrò oltre sessanta monache dedicate al Divino servizio. Fu un tal vaticinio deriso dal buon mercante come un delirio della vecchiaia; ma l’esito provò ben presto la verità della rivelazione.

Alla grande intrapresa aveva Iddio destinate due savie vergini, nate in Venezia di civili ed onesti genitori, Facio Tommasini, ed Elisabetta Contarini, i quali chiamati in età ancor fresca a migliore vita lasciarono le due figlie insieme con il loro fratello Tommaso all’educazione e custodia di Matteo Paruta loro parente. Si addossò egli l’intera cura dei tre orfani, che da Margarita di lui moglie piissima matrona furono con tale diligenza educati nel timore di Dio, e nella Scienza dei Santi, che nel fiore di loro adolescenza (toccando appena Elisabetta la maggiore il XV ed Andriola l’XI anno dell’età) protestarono apertamente di non volere altro sposo che Gesù Cristo. Questo ardente desiderio palesarono le buone verginelle al loro confessore, che era il Beato Giovanni dei Domenici, allora Lettore nel Convento dei Santi Giovanni e Paolo, da cui furono confortare a prendere l’abito religioso nel Monastero di Sant’Andrea, che fioriva allora in grande fama di regolare osservanza. Non si sentirono le buone donzelle nel loro interno rese quiete dai consigli del santo uomo, e rese poi per divina rivelazione certe dell’erezione di un nuovo monastero, replicarono ad esso le loro istanze, il quale eccitato pure da un’altra vergine d’esimia pietà alla grande opera, dopo aver con digiuni e fervorose preghiere implorata la divina assistenza, si determinò a promuovere la fondazione di un Monastero di Religiose Domenicane.

Mentre dunque andava il venerabile uomo maturandone i mezzi, ebbe l’incontro di vedere il piccolo luogo del Corpo di Cristo, ove abboccatosi con la fondatrice Lucia facilmente l’indusse a mutare la regola di San Benedetto nell’istituto dei Predicatori.

Ciò fatto si portò il Beato Giovanni a Perugia, ove risedeva allora la Corte Romana, per impetrare dal Sommo Pontefice Bonifacio IX la facoltà di fondare il nuovo monastero. Con quali prodigi di suprema beneficenza accompagnasse Dio il viaggio del santo uomo, e con quanta celerità si compisse la fabbrica progettata, meglio è intenderlo alla relazione, che egli ne scrisse a Tommaso Tommasini, fratello delle sopra lodate vergini, e che di già aveva professata la regola dei Predicatori, reso poi celebre per le varie dignità vescovili da lui sostenute e per le grandi imprese da lui operate in servigio di Santa Chiesa.

Furono dirette le lettere della fondazione segnate da Papa Bonifacio IX nel giorno 20 di gennaio dell’anno 1394 al Vescovo di Caorle, il quale con autorità di Commissario Apostolico soppresse nel nuovo Monastero del Corpo di Cristo l’istituto di San Benedetto, e vi istituì quello dei Predicatori, del che lo stesso Pontefice ne rese consapevole con sua precisa Bolla la nuova destinata Priora Lucia Tiepolo.

Fu ricevuto poi il monastero nella giurisdizione dell’Ordine Domenicano dal Beato Raimondo da Capua, allora Priore Generale dell’Ordine, che per il buon governo d’esso vi stabilì ottime regole approvate poi nell’anno 1398 dallo stesso Pontefice Bonifacio IX. Ciò eseguito, e disposte ad intero compimento le interne fabbriche del monastero, furono in esso nel giorno festivo dei Santi Apostoli Pietro e Paolo dall’anno 1395 introdotte ventisette donne d’esimia virtù alle quali il Beato Giovanni de Domenici dopo di aver offerto a Dio il salutare sacrificio, diede il sacro abito dell’Ordine Domenicano, ed istituì prima priora la benemerita fondatrice Lucia Tiepolo, a cui consegnò le chiavi del monastero.

La premura ammirabile, che si aveva di venire ad aggregarsi ad una comunità angelica, fece che la buona Priora vedesse in breve tempo avverata la rivelazione fattale, contando nel secondo anno di suo governo settantadue religiose, che sotto la sua direzione professarono la primitiva regola di Sant’Agostino secondo lo spirito, e le costituzioni di San Domenico si videro ben presto fiorire la più edificante regolarità ed una non ordinaria virtù fra quelle religiose, il di cui fervore trasportandole ad austerità pericolose chiamava bene spesso la discretezza del direttore Beato Giovanni a moderarne gli eccessi.

Era però considerato il nuovo convento in Venezia come un esemplare della perfezione religiosa, in cui affinché con più fermezza si stabilissero, permise Iddio, che il loro buon Padre il Beato Giovanni dovesse assentarsi da Venezia, supplendo peò con efficacissime spirituali lettere a quei devoti discorsi, coi quali era solito animarle alla virtù. Quattro anni dopo lo stabilimento del monastero la sopra lodata Margherita Paruta rimasta vedova destinò di scegliersi fra questi chiostri un più nobile e durevole Sposo, a cui offerse se stessa, e tutte le sue sostanze, colle quali fu dilatato il chiostro, ed essa accolta con allegrezza dalle monache quale madre, fu (benché contra sua voglia) destinata Vicaria all’assistenza della buona Priora, la quale dopo aver governato per ben vent’anni la numerosa comunità passò al premio di sue fatiche, contando oltre cento anni dell’età sua.

Piansero le monache al passaggio dell’amorosa loro madre: ma nel vedere il di lei volto improvvisamente rifiorire d’una vaghezza prodigiosa e giovanile, mutarono le lagrime in giubilo, e si sentirono da straordinaria mutazione eccitare nell’interno alla costanza nella regolare disciplina.

Questa preziosa morte fu susseguita quattro anni dopo da altra consimile di Paola Madre del Beato Giovanni di Domenico, già da Gregorio XII annumerato nel sacro Collegio dei Cardinali. Rimasta la buona donna nel fiore di sua età vedova per la morte di Domenico suo marito, attese ad educare nelle massime della cristiana perfezione Giovanni suo figlio, natole dopo i funerali del Padre; e corrispondendo egli alle pie materne istruzioni, si rallegrò la pia genitrice di vedere sacrificato a Dio nell’Ordine dei Predicatori quell’unico figlio, che doveva essere il sostegno di sua vecchiezza. Per di lui impulso poi li chiuse essa (contando di sua vita cinquanta otto anni) nel Monastero Veneziano del Corpo di Cristo, ove fatta religiosa professa visse in un continuato esercizio di virtù e morì ottuagenaria nel giorno 6 di marzo dell’anno 1416.

Il Monastero frattanto, che dalla liberalità Apostolica del Pontefice Gregorio XII era stato soccorso con ecclesiastiche pensioni, restò nell’anno XlV dopo la sua fondazione dalla violenza d’un turbine in gran parte conquassato. Onde per facilitarne il risarcimento nell’anno 1427, Papa Martino V concesse spirituali indulgenze a chiunque con pie elemosine accorresse a soccorrerlo.

Succedette a Martino V nella Sede di San Pietro Eugenio IV il quale dopo di avere nell’ anno 1434, arricchita la Chiesa del Corpo di Cristo di spirituali indulgenze, confermo poi, ed aumentò nell’anno susseguente tutti i privilegi già concessi al monastero dal suo precessore Bonifacio IX. Perché però al numero delle monache, che andava sempre crescendo, vi fossero gli opportuni edifici, anche per i casi di loro malattie, il già lodato Tommaso Tommasini, Vescovo allora di Feltre e di Belluno, vi fece a proprie spese nell’ anno 1436 innalzare una assai comoda infermeria, e beneficò poi con atti di particolare affetto questo monastero, nella di cui chiesa volle essere sepolto. Nello stesso tempo incirca, in cui le interne abitazioni delle monache andavano aumentandosi per la pietà dei fedeli, Fantino Dandolo, allora celebre Senatore, e poi piissimo Vescovo, determinò di render più capace, ed adorna la troppo angusta chiesa. Perciò diroccate le vecchie muraglie, dispose una nuova fabbrica di più ampio giro, e perfezionatala nel termine di quattro anni, per renderla nel suo interno decorosa ottenne, che nel giorno 12 di luglio dell’anno 1444 fosse consacrata per mano del Vescovo di Castello San Lorenzo Giustiniano, di cui per la conformità delle virtù possedeva la più cordiale amicizia; come fu consacrata la chiesa (cosi scrive la sopra lodata Riccoboni nella sua Cronaca) Gesù Cristo permise, che egli (Fantin Dandolo) fosse pronunciato Arcivescovo di Candia; al che egli fece grande resistenza; ma volendo il Santo Padre (Eugenio IV) che ad ogni modo lo dovesse essere, come figlio d’ubbidienza accettò nel giorno 13 di settembre, e addì 20 di febbraio fu consacrata nella nostra Chiesa del Corpo di Cristo per mano del Reverendissimo allora Vescovo, poi Patriarca di Venezia, e dei Vescovi di Ferrara, e di Jesolo con grande di devozione e solennità. Beneficata poi con nobilissimi doni questa chiesa volle l’ottimo Prelato in essa essere sepolto.

Frattanto il sopra lodato Vescovo Tommasini, a cui erano sommamente a cuore i vantaggi di questo monastero, pregò istantaneamente il Pontefice Eugenio IV (di cui con la prudenza nel maneggio di gravi affari li aveva conciliata la benevolenza) a voler al Monastero del Corpo di Cristo unire, e soggettane la Chiesa Parrocchiale di Santa Lucia, il di cui Piovano oppresso dagli anni, e da continue malattie, si era reso inabile a governarla. Accolti dal Pontefice i desideri del buon Prelato, ne commise l’esecuzione al Vescovo di Treviso, affinché al caso di morte, o di partenza dell’attuale Piovano ponesse in possesso della Chiesa Parrocchiale di Santa Lucia, e delle dipendenze di essa l’attuale Priora del Monastero del Corpo di Cristo. Morto dunque non molto dopo il vecchio Piovano, prese a nome del monastero il possesso della vacante chiesa di Santa Lucia il Procurator delle Monache Nicolò Priuli, nella festiva giornata di San Giacomo Maggiore Apostolo nell’ anno 1444. e ne conservarono le Priore l’amministrazione e la cura fino all’anno 1476, in cui passò la chiesa stessa al dominio delle Monache dell’Annunziata, dette poi di Santa Lucia.

Sotto la direzione dunque dei Padri Domenicani andarono continuando le monache, finché dopo i principi del secolo XVI, essendo insorte a turbare l’interna pace del monastero gravi discordie fra la priora e le monache, credette opportuno il Pontefice Clemente VII, nell’anno 1534, di comandare a Girolamo Aleandro, Arcivescovo di Brindisi, e suo Nunzio in Venezia, che esimere dovesse il Monastero del Corpo del Signore da qualunque giurisdizione e cura dell’Ordine Domenicano, e soggettarlo immediatamente alla Sede Apostolica, i di cui Legati residenti in Venezia avere ne dovessero la soprintendenza e il governo, che poi Papa Pio IV, ad istanza del Senato Veneto con suo diploma segnato nel giorno 8 di maggio trasfuse nei Patriarchi di Venezia, alla autorità dei quali tuttavia è soggetto.

Scrisse con molta lode di questo monastero, Sant’Antonino Arcivescovo di Fiorenza nella terza Parte della sua Istoria, ove si gloria d’essere stato discepolo del Beato Giovanni dei Domenici, illustre fondatore di esso.

Fra le molte reliquie, di cui è ricca questa chiesa, si venera con maggiore e più antica venerazione la mano di Santa Veneranda Vergine e Martire, a di cui onore fu istituita in questa chiesa una pia Confraternita di devote persone. (1)

Festa del Corpus Domini

Nel 1806, dal governo italico vennero quivi concentrate le monache di Santa Maria del Rosario presso San Martino e parte anche di quelle del Sepolcro. Per i cambiamenti poi avvenuti nel 1810 la chiesa ed il monastero furono soppressi, e pochi anni dopo del tutto demoliti e ridotti ad una privata abitazione.

La chiesa di tempo in tempo adornata dall’alto al basso di eccellenti pitture andava segnalata per la funzione che si celebrava nel dopo pranzo del giorno del Corpus Domini. La mattina di quel giorno sino al 1454 si eseguiva la processione del Corpus Domini intorno la piazza San Marco, al modo di tutto il resto del mondo cattolico, e per quanto durò la Repubblica riusciva soprammodo magnifica. Le sei scuole grandi facevano pompa in essa delle ricchezze loro. Accompagnavano la processione le scuole anche del Santissimo Sacramento, i regolari, le congregazioni dei preti, i canonici delle chiese di San Marco e di San Pietro di Castello; indi procedeva l’intero senato, ogni membro del quale teneva al lato destro un poverello e largamente lo donava a similitudine di quanto nei tempi passati si faceva coi pellegrini i quali giungevano in questa stagione in Venezia affine di passare alle Terre Sante. Alla testa del senato era il doge; recava il patriarca il Sacramento sotto il baldacchino sostenuto da sei cavalieri della stola d’oro, ed in vicinanza stavano i vescovi suffraganei al patriarca residenti nell’estuario.

Terminata così magnifica funzione della mattina era riservata la veneta pietà a questa del Corpus Domini per dopo pranzo. Non appena si fondò il monastero e si istituitì la confraternita dei nobili, della quale più sopra abbiamo ricordato il locale, cominciò assai subito l’anno suo ottavario coll’andare processionalmente il dopo pranzo del dì del Corpus Domini alla parrocchiale di San Geremia alfine di levare la Sacra Ostia e portarla a questa chiesa del Corpus Domini dove restava per otto giorni successivi esposta alla venerazione dei fedeli. Poi, nel vespro dell’ultimo giorno, si riportava alla chiesa di San Geremia. La processione del primo giorno si componeva di tutti i parrochi della città non che della detta confraternita del Corpus Domini, alla quale in quel giorno venivano associati tutti i giovani patrizi che nell’anno avevano assunta la toga ed i senatori ultimamente eletti. Tutti questi accompagnavano la Sacratissima Ostia portata da un vescovo dei vicini paesi. Vi intervenivano altresì le sei scuole grandi ed era anzi in quell’incontro che facevano singolar pompa delle primarie loro cariche. Prima che fosse instituita la processione della mattina interveniva il doge a questa della sera ed il patriarca portava il Santissimo; ma indi a poi fu sostituito un procuratore e due consiglieri affinché sostenessero il decoro della pubblica maestà.

Terminate le sacre funzioni di quel giorno aveva luogo il così detto Fresco, cioè la corsa marittima delle condolette di tutti i facoltosi che si adunavano lungo questo braccio del grande canale affine di vedere la processione menzionata. Ancora rimangono alcune vestigia di tale fresco. (2)

Visita della chiesa (1733)

Entrando per la porta maggiore a mano sinistra di vede San Domenico, che getta i libri al fuoco opera delle singolari di Sebastiano Ricci. Segue un quadro con la Madonna e San Pio V, opera del Formatti. Si vede poi la tavola dell’Altare con la Madonna nell’alto San Domenico e Sant’Antonio delle migliori di Antonio Zanchi. Passato l’altare vi era un’altra Madonna, che apparisce al transito di San Domenico del Patriani. La tavola, che segue con la Sacra famiglia è opera di Antonio Molinari, ed il quadro pure con la Vergine vari santi tra i quali San Domenico di Soriano è dello stesso autore.

Segue la tavola del Cristo morto con le Marie ed un angioletto in aria, ed è opera rara, e preziosa di Francesco Salviati. La tavola dell’altare maggiore col Padre Eterno, e molti Angeli è di Matteo Ingoli. I due quadri ai lati cioè uno col moltiplico del pane, e del pesce, e nell’altro le Nozze di Canna in Galilea sono opere delle più belle di Bartolomeo Scaligero. Vi sono dello stesso autore due quadri corrispondenti l’uno sopra la porta della Sagrestia, e l’altro sopra l’altra cioè Cristo al pozzo con la Sammaritana, ed altra storia pure di Cristo.

Segue un quadro in due comparti ai lati dell’altare del Crocifisso nell’uno vi era la comunione degli Apostoli nell’altro e rappresentata la stanza della cena con una scala, che ivi conduce nella quale stanza si vedono alcuni Apostoli, che si levano, ed alcuni ferventi, che sparecchiano le tavole; opera bella, e bizzarro ritrovato di Sebastiano Ricci.

Vi è poi la tavola con San Pietro Martire e i Santi Nicolò ed Agostino con un angioletto sedente, che accorda un liuto opera delle squisite del Conegliano, è qui degna da osservarsi la vaghezza del colorito di questa pittura, che fu fatta circa il principio del 1500, a differenza d’altre molte, che si vedono in questa chiesa che furono fatte centottanta anni dopo, e sono in comparabilmente più nere, e sporche.

Segue la tavola dei Re Magi opera delle belle del Palma. Si trova poi la tavola di Santa Veneranda con le Sante Maddalena, Agnese, Lucia, ed altre con due angeli, che suonano il liuto, opera di Lazaro Sebastiani. Dai lati della porta maggiore vi sono due quadri l’uno alla destra uscendo con un miracolo di San Domenico opera del Lazarini contigua a quello di Sebastiano Ricci; l’altro alla sinistra pure con San Domenico opera di Francesco Pittoni. Di sopra poi vi era un gran quadro con la storia dell’arca del vecchio testamento, opera celebre di Antonio Molinari. (3)

(1) FLAMINIO CORNER. Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello tratte dalle chiese veneziane e torcellane (Padova, Stamperia del Seminario, 1763).

(2) ERMOLAO PAOLETTI. Il fiore di Venezia ossia i quadri, i monumenti, le vedute ed i costumi. (Tommaso Fontana editore. Venezia 1839).

(3) ANTONIO MARIA ZANETTI. Descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia ossia Rinnovazione delle Ricche Miniere di Marco Boschini (Pietro Bassaglia al segno di Salamandra – Venezia 1733)

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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