Domenico Morosini. Doge XXXVII. Anni 1148-1156

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Domenico Morosini. Doge XXXVII. Anni 1148-1156

Nel mentre che Domenico Morosini era chiamato al trono dal consentimento generale della nazione per i meriti da lui acquistati, massime nella presa di Tiro, la flotta veneta, che, come abbiamo veduto, era partita in aiuto dell’Augusto d’Oriente, contro Ruggieri re di Sicilia, si diresse alla volta di Corfù, ove, unitasi alla classe greca, scacciarono i Siculi, non senza orrida strage. Quindi i Veneti si recarono sulle coste del re nemico, sbarcarono, sparsisi, siccome torrente, nelle terre circostanti, distrussero biade, schiantarono viti, atterrarono alberi, trassero greggi, incendiarono abitazioni, uccisero, rapinarono, saccheggiarono; né omisero eccesso di cui l’uomo è capace quando è acceso dallo sfrenato desiderio di sangue, e quando si trova libero, col ferro in mano, di mezzo al vinto nemico. Operato cotal guasto, tornarono i Veneziani gloriosi alla patria, ed in memoria di tanto trionfo vollero, in più tarda stagione, che venisse espresso nella sala dello Scrutinio, per mano di Marco Vecellio. Tale dipinto abbiamo già dato inciso alla tavola CLXXI, la cui illustrazione offre particolari più ampi intorno cotal fatto.

Sennonché, tornando la flotta in patria, portava seco il germe della dira peste, che indi sviluppatasi recò lutto profondo; siccome ne recava l’altra che irruppe nel 1153, giusta un’antica cronaca citata dal Gallicciolli. Nota il Sanudo, che l’anno 1149, un fiero incendio, uscito dalla contrada di Santa Maria Mater Domini, arse tredici contrade vicine, e giunse fino alla chiesa dell’Angelo Raffaele; aggiungendo altri che vennero rifabbricate le case di pietra, quando per lo innanzi erano di legno: circostanza cotesta che sparge dubbio, non possa aversi il Sanudo ingannato, duplicando per avventura il fatto dell’incendio che arse tanti anni prima, ducando Ordelafo Faliero; mentre il Sanudo cadè in molti consimili errori, ripetendo più volte ed in epoche diverse il racconto del fatto medesimo.

A queste cose non liete accadute nell’interno, susseguì all’esterno, nel terzo anno della ducea di Domenico, la guerra contro i pirati istriani. Quantunque Pola ed altre città dell’Istria avessero, come abbiamo veduto, giurato, con solenni trattati, fedeltà ed obbedienza alla Repubblica, cionnondimanco erano divenute nido di corsari, né più serbavano i patti statuiti. A reprimere la lor fellonia, ed a francheggiare il commercio dalle loro perpetue piraterie, fu allestita una flotta di cinquanta galee, e se ne affidava il comando a Domenico Morosini, figlio del doge, ed a Mario Gradenigo: i quali diressero le prime lor mosse contro di Pola, che, assalita, fu in breve ridotta a giurar nuovamente, e con più gravosi tributi, gli antichi trattati. Dietro Pola si assoggettarono anche Rovigno, Parenzo, Cittanuova ed Umago, obbligandosi pur esse a pesi maggiori, tra cui di pagare annuale tributo d’olio alla basilica di San Marco.

Non erano però soli gli Istriani che turbassero la libertà dei commerci, che gli Anconetani pur anco scorrevano il golfo pirateggiando: sicché, speditasi contro di essi la flotta medesima, rimasero compiutamente disfatti, ed il loro capo Guiscardo Brancafiamma, caduto cattivo, venne impeso subitamente. Dietro il qual fatto, chiese ed ottenne Ancona la pace.

Sia poi che si rinovasse le discordie interne fra le famiglie Dandolo e Badoaro, contro quella dei Polani; sia che soltanto adesso sorgessero più acri, scrive Andrea Dandolo nella sua Cronaca, che ebbe merito il doge più assai che il di lui antecessore, per farle riconciliare, disposando una figliuola di Rainiero Polani, figlio del morto doge, con un Andrea Dandolo, nipote di Enrico patriarca di Grado; per lo che tornava in patria coi suoi partigiani, Enrico stesso, che erasi allontanato a motivo di siffatte discordie.

I meriti acquistatisi da Domenico, figlio del doge, nelle spedizioni contro i pirati, e la necessità di guardar la Dalmazia con vigile occhio, procurarono al medesimo il titolo di conte di Zara. Difatti, poco tempo corse che gli Ungheri rioccuparono Spalato, Traù, Sebenico, rimanendo solo Zara colle isole alla Repubblica. Per la qual cosa, ed affinché le città rimaste libere dal dominio degli Ungheri non avessero a ricoirerc a metropolitano in terra straniera, la Repubblica ottenne da papa Anastasio IV che fosse eretta in arcivescovato la chiesa di Zara, la quale, col corso dei tempi, quantunque metropolitana di tutta la Dalmazia, fu sottoposta al patriarcato di Grado, donde ebbe origine la dignità primaziale della Dalmazia conferita a quei patriarchi, e da loro poi trasfusa in quelli di Venezia.

Morto essendo frattanto Ruggieri, re di Sicilia, e succedutogli, nel 1154, il figlio Guglielmo, il doge ristabilì seco la paco a condizioni utilissime al veneto commercio. Né meno vantaggioso al commercio stesso fu il trattato conchiuso col principe di Antiochia; per lo quale, fra le altre facoltà, era concesso ai nostri di avere ivi fondachi propri e propria curia a giudicare le cause loro.

Poi a Federico I, soprannominato Barbarossa, imperator dei Romani, succeduto a Corrado III, e disceso in Italia, nell’anno anzidetto 1154, spediva il doge, siccome ambasciatori, il proprio figlio Domenico Morosini, Vitale Faliero e Giovanni Bonaldo, affine di ottenere, siccome ottennero, la conferma degli antichi trattati.

Alle cose interne anche ponendo l’animo il doge, procurò, e nuove leggi intorno alle testimonianze, e alle doti delle spose, le quali vennero limitate alla somma di sole lire cinquanta di moneta veneziana; e diede opera perché la torre di San Marco fosse innalzata fino alla cella campanaria.

Moriva finalmente doge Domenico Morosini nel 1155, e veniva tumulato entro un’arca marmorea appresso la chiesa di Santa Croce di Luprio, ove, ai tempi del Sanudo, si vedeva sul muro esterno il suo epitaffio, che andò quindi smarrito nella posteriore, rifabbrica di quella chiesa, ma che però si potrà leggere corretto ed illustrato nell’opera lodatissima del cav. Cicogna.

Al suo tempo la città più sempre si decoravai con nuove fabbriche, fra le quali si ricorda la chiesa di Santa Maria dei Crociferi; a cui veniva annesso un albergo di povere donne che avessero perduto, in servigio dello stato, il marito od il figlio unico loro sostegno.

Sul breve, che gira intorno al ritratto di questo doge è scritta la seguente leggenda non senza qualche omissione, che rilevammo nelle lettere corsive:

SVB ME ADMIRANDI OPERIS CAMPANILIS S. MARCI
CONSTRVITVR : ET VNIVERSAE HISTRIAE TRIBVTA RENOVANTVR. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto. Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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