Domenico Selvo. Doge XXXI. Anni 1070-1084

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Domenico Selvo. Doge XXXI. Anni 1070-1084

Fu questo doge eletto in modo diverso dai suoi antecessori; imperocché, raccoltosi il popolo sul lido di Olivolo, o di San Nicolò, per assistere ai funerali del defunto Contarini, che si tumulava in quella chiesa; nel mentre che il clero ed i monaci dell’unito cenobio pregavano il cielo, che volesse concedere alla patria un principe grato a tutti, e conveniente a tanta dignità, si levò ad un tratto, come di un sol uomo, una voce generale gridante: Volemo doxe Domenego Selvo, et lo laudemo. Non é quindi da por dubbio, che tale atto non fosse promosso dalle virtù che adornavano il Selvo, e dalle sue benemerenze verso la patria; ché il supporre, con alcuni storici, che ciò prima venisse segretamente maneggiato dai suoi partigiani, sarebbe cosa contraria al buon senso, e pel breve tempo trascorso fra la morte del Contarini e la elezione del Selvo, e per la repugnanza di questi nel credersi eletto a quel carico; sicché fu bisogno che i nobili lo afferrassero e lo innalzassero sulle proprie spalle, affinché il popolo lo vedesse, e nuovamente lo acclamasse. Poi, recatolo su un naviglio, fu accompagnato dalle barche tutte fino a San Marco; nella cui basilica il Selvo non volle entrare senza prima aversi tolto i calzamenti, onde umile e ai piè nudi prostrarsi all’altare per ricevere le insegne ducali e il vessillo della Repubblica.

Nel primo anno del reggimento di doge Selvo toccava il suo compimento la fabbrica della basilica di San Marco ora detta, siccome ricordavano li due versi seguenti, scolpiti in una cornice dell’atrio, rapportati da varie cronache, tra cui dal Sansovino, versi però che più non esistono :

ANNO MILLENO TRANSACTO, BISOVE TRIGENO,
DESVPER VNDECIMO FVIT FACTA PRIMO.

Quindi egli, il Selvo, subitamente intese a decorare la basilica stessa di marmi preziosi, di colonne e di mosaici, facendo costruire di pietra quelle parti che tutta via erano di legno, siccome viene attestato da una cronaca antica. Per lavorare quei mosaici fece venire dall’Oriente artefici capaci, i quali educarono altri a continuarli sotto il reggimento dei dogi successivi. Lo Zanetti pensa, che siano da attribuirsi al tempo del Selvo le figure del Salvatore sedente fra la Vergine e il divo Marco, che decorano l’archetto sovrastante la porta interna centrale, e probabilmente i mosaici che vestono le cupolette dell’atrio, in cui sono espresse le storie dell’antico Patto. E quantunque lo stile secco di quelle opere mostri l’arte imbarbarita nella decadenza dell’impero bizantino, pure non si rileva nelle figure in esse introdotte gli orrendi scorci nella persona e nella fisonomia, di cui le venne appuntando il Mutinelli ed altri dopo di lui, ignari come lui della storia e della via che tennero le arti in quei secoli per levarsi dal fango. Che se in esse figure manca il disegno, non molto viva risulti l’espressione dei volti, non grandioso lo stile delle pieghe; pure la preziosa esecuzione con cui sono condotte da sfidare le ingiurie dei secoli, mostra la diligenza e lo amore di quei vecchi maestri nelle arti del bello: diligenza ed amore, che sovra ogni altra prova, additano lo studio loro nella ricerca del buono e dell’ottimo nelle loro produzioni. Chi poi considera con occhio sapiente quelle composizioni, trova in molte di esse svolte le istorie con novità di pensiero; bastando accennare per tutte quella mostrante Dio Padre che infonde lo spiracolo di vita nel primo uomo plasmato dalla sua mano, e che si vede nella cupoletta che involtasi nell’atrio sopra la porta di San Clemente.

La fama che godeva il Selvo fra il popolo veneto erasi diffusa anche fuori delle lagune; sicché l’imperatore Michele VII Parapinace, succeduto, nel 1071, a Romano IV Diogene, volendo stringersi maggiormente in nodo amico con la Repubblica, onde averla, al caso, propizia contro i Normanni, i quali più sempre intendevano a scassinare la potenza greca; diede in moglie a doge Selvo Teodora, o, come altri l’appellano, Calegona, figlia, secondo alcuni, del defunto imperatore Costantino X Ducas, o, secondo altri, sorella di Niceforo Botoniate, salito al trono imperiale dopo lo stesso Michele. La quale, giunta a Rialto, tutti sorprese col lusso e colla pompa reale dei suoi equipaggi e colla mollezza del vivere. Le stanze sue e le sue vesti olezzavano di aromi e di fragranze squisite; era sua lavanda la rugiada del cielo, che raccoglier faceva dai valletti e dalle sue damigelle; dovevano gli eunuchi apprestarle le vivande alla bocca; in una parola recava fastidio il vederla ed il saperla sì delicata e voluttuosa. Lo smodato uso delle essenze da lei usate le procurò, al dir degli storici, cotal morbo, che il suo corpo imputridì, sicché in breve fu tratta al sepolcro.

L’amicizia e la parentela che stretto aveva il doge con la corte di Costantinopoli gli valsero il titolo di protopedro imperiale; derivatogli, al dir del Sanudo, dal dominio di un luogo, appellato Protopocridi, che gli recò in dote la moglie.

Il reggimento del Selvo va distinto per le lunghe guerre che incontrarono i nostri coi Normanni. I quali, fin dall’anno 1041, impadronitisi della Puglia e poi della Sicilia, scacciandone i Saraceni, continuavano a molestare anche i Greci, ai quali avevano tolte alcune città della Dalmazia. La qual cosa non piacendo ai Veneziani, allestirono con tutta sollecitudine una flotta, della quale assunto il comando lo stesso doge Selvo, poté fugare subitamente i Normanni e ridurre nuovamente le perdute città all’antica obbedienza.

Se non che la scaltrezza di Roberto Guiscardo, re dei Normanni ora detti, acquistatasi la protezione di papa Gregorio VII, poté funestare in mille modi il greco impero; cosicché, dopo di aver sottomesso Butrintò e la Vallona, veniva a porre l’assedio a Durazzo. Alessio Comneno, che in questo frattempo era riuscito a far balzare dal trono l’usurpatore Niceforo Botoniate, e di coronarsi egli stesso imperatore di Oriente, si mosse contro Guiscardo, chiedendo aiuto ai Veneziani; i quali ben tosto spedirono in di lui aiuto, sotto l’assediata Durazzo, una flotta di sessantatré navi, di cui assunse il comando il medesimo doge. Veduta da Roberto la formidabile armata, tentò la via di stornarla dal proposito. Pertanto inviava ai capitani di quella il suo figliuolo Boemondo, affinché esponesse loro i motivi che lo avevano indotto ad assumere quella guerra, volta a patrocinare la causa dell’imperatore Michele, cacciato dall’usurpatore Niceforo, causa protetta anche da papa Gregorio; e quindi, appellandosi alla saggezza ed all’equità dei Veneziani, domandava, che invece di avversar quella impresa, la volessero coadiuvare coll’opera loro efficace. Ma, conoscendo i nostri le insidiose proposte normanne, e, da altra parte. ponendo mente alla placidezza del mare, che non dava modo di manovrare le navi loro alla pugna, presero tempo a risolversi fino al dì appresso. Nel quale, avendo già disposto ogni cosa alla battaglia, al presentarsi che fece Boemondo per ottenere risposta, fu sorpreso nello scorgere il tremendo ordinamento di guerra apparecchiato dai nostri, i quali lo ricevettero con derisioni e con scherni. Per lo che, ardente ed impetuoso com’era, non poté contenersi; e, senza por mente alla disparità del conflitto, comandò sull’istante ai suoi navigli l’attacco. Grave e dolorosa tornò la rotta della flotta avversa. Calata a fondo la capitana, infranti o dispersi gli altri legni, ferita ed uccisa da mille saette molta parte dei militi, tutto fu confusione, e sterminio. Quindi, nel calore della vittoria, sbarcate le milizie veneziane, unitamente alle truppe degli assediati, sortite in quel mentre dalla città, invasero il campo normanno per modo, che poté essere vettovagliata la città stessa.

Una seconda sconfitta ancora ebbero poco stante i Normanni, sia per mar che per terra, dalle forze unite dei Greci e dei Veneziani; né forse era possibile a Roberto di ottenere quella città per virtù d’armi. Ciò veduto da lui, ricorse al tradimento; e per tradimento la ebbe da un cotale Domenico, che comandava il presidio della rocca. La quale, consegnata al Normanno, non è a dire quale orrida strage ne conseguisse sia della misera città, come delle flotte veneta e greca, durante li tre giorni che si difesero i cittadini valorosamente, e in specialità i Veneziani.

Né questa fu la sola perdita toccata dai nostri; che alquanti mesi dopo, radunate nuove forze da Alessio, e chiesto da lui nuovo aiuto ai Veneziani, vinte da essi, uniti contro Roberto, due fiere battaglie e quindi lusingati di avere alla fine domato quel nemico possente, rimandavano i nostri alla patria le navi leggere, e si ritiravano col le grosse sulla costa d’Albania. E colà rimanevano sicuri, se non era un cota1 Pietro Contarini, il quale mosso o da privata vendetta, o si veramente da avidità di danaro, corse a tradire la patria, portandosi al campo di Roberto, a lui riferendo lo stato desolante della veneta flotta. Per la qual cosa, posti da lui alla vela tutti i suoi legni, inopinatamente sorprese i nostri ed i Greci. E poiché questi ultimi si dettero alla fuga, rimasero in quella stretta soli i Veneziani, i quali, dopo accanita difesa, dovettero soccombere, lasciando ai Normanni compiuta vittoria. Tremila Veneziani perirono, altrettanti caddero prigioni. L’infame Guiscardo, non contento della vittoria, esercitò sopra i miseri cattivi la crudeltà più esecranda. Cavar fece a molti gli occhi, ad altri troncare le mani o il naso od un piede; ed a coloro che ebbero ventura di uscir salvi, fece dire per un araldo, che se avessero voluto prender servigio nelle sue milizie, sarebbero premiati. Ma essi, a rincontro, fieramente risposero: volere piuttosto esser tagliati a pezzi, che militare contro la patria e contro i Greci loro antichi alleati. Tanta fortezza e magnanimità d’animo ammirando Roberto, concesse a quei prigioni di poter essere riscattati.

Pervenuta la fatale nuova a Venezia, tutto fu confusione, tristezza, timore; che non si trovava consiglio in tanto stremo: si piangeva i cari perduti, e paura si aveva non la flotta del vincitore Roberto corresse i mari ed inceppasse i commerci. Laonde, come accade sempre fra il cieco e volubile vulgo, cotali sciagure vennero accagionate alla pochezza del doge; e più si accrebbe l’odio del popolo verso di lui, dalle suggestioni dei suoi nemici, e particolarmente da Vitale Faliero, il quale, agognando al principato, tanto operò coi doni e colle promesse, che suscitatosi un dì il popolo a rivolta, depose il Selvo e lo costrinse, secondo alcuni, a vivere fra le mura di un chiostro; asserendo altri, tra quali il Sanudo, che ebbe sepoltura nell’atrio della basilica Marciana.

Durante il suo reggimento si provvide la mensa patriarcale gradense di maggior censo, menomata com’era dalle perdite sofferte dai patriarchi di Aquileia, e fu rinnovata l’antica chiesa di San Jacopo di Rialto.

Il breve che si vede nella sinistra mano del Selvo, dice, con qualche diversità a confronto del Sanudo e del Palazzi :

OBSESSVM REPVLI GVISCARDVM MARTE ROBERTVM,
DYRACHII HINC DOMINVM ME VOCAT PRAESVL ALEXIS. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto.  Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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