Sala dello Scrutinio

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Sala dello Scrutinio - Palazzo Ducale

Sala dello Scrutinio

Sino dai tempi della repubblica formava questa sala sola una cosa con quella del maggior consiglio. In essa si eleggevano i 41 patrizi destinati per l’elezione del doge e che poi passavano in quella dal pregadi a nominarlo effettivamente; si facevano in essa gli scrutini per la nomina di alcune cariche ed essa a vari somiglianti oggetti era adoperata. Ebbe principio soltanto sotto la ducea di Francesco Foscari allorché si fece l’appendice alla fabbrica del Calendario; ma se soffri gli stessi incendi cui andò soggetta la sala del gran consiglio ed i luoghi contigui, vanno però insieme con essi restaurata.

Da questa aula cominciano propriamente a contarsi i fasti veneziani dipinti sulle tele che poi hanno un proseguimento nella mentovata sala del maggior consiglio. Le nostre osservazioni, in questa dello Scrutinio, cominceranno dal capo della sala occupato dalla tela del finale giudizio di Jacopo Palma dove sotto la repubblica stava il trono ducale ed i seggi per la signoria. Grande maestria palesò Palma in vero in si ampia tela, sebbene non abbia saputo evitare una confusione negli aggruppamenti delle figure ed una monotonia nelle linee da varo formate.

Osservato che si abbia il finale giudizio, per vedere con regolarità i quadri onde le altre pareti sono rivestite, è mestieri di condurci all’estremità del lato sinistro ed esaminare nel I quadro l’assedio dato da Pipino (anno 809) alla nascente città di Venezia. Fra le altre cause si debbono osservare in quel quadro gli assediati, che colle fionde lanciano pane nel campo nemico quasi a scherno del blocco con che Pipino voleva stringerli. Opera è dessa di Andrea Vicentino, il quale pur fece il il quadro raffigurante il medesimo Pipino sconfitto dai Veneziani nel canal Orfano. Ivi scorgi il rompersi del ponte costruito dai Franchi sulle botti onde tragittare da Malamocco alle isole Realtine; ivi vedi la confusione della battaglia; ivi gran fuoco si palesa adoperato dal pittore, senza che sia tolta la maggior precisione e lo studio in ogni menoma parte. III. Dopo questo quadro Sante Peronde mostrò il doge Domenico Michel, che spedito (anno 1123) con flotta numerosa a soccorrere i cristiani di Siria, incontra presso Jaffa la flotta del califo d’Egitto; l’attacca e un fa grande scempio. Investito il pittore della forte azione la espresse con ogni evidenza, nè obliava ciò che accadde allora al generale Marco Barbaro, il quale, perduto combattendo lo stendardo della propria galea, s’azzuffò siffattamente coi nemici che di sua mano ne uccise il capitano, e svolto dal reciso capo il turbante, fè con esso nuovo stendardo a cui nel mezzo segnava un cerchio coll’istesso sangue dell’ucciso nemico. Il perché la sua famiglia, chiamata diansi dei Magadesi, volle che si appallasae dei Barbari e che sostituisso nell’arma gentilizia il cerchio rosso alle tre rose d’oro. IV. Succede a quest’azione la presa di Tiro avvenuta per opera del medesimo doge Domenico Michiel nel seguente anno 1124. Prevedendo l’armata degli altri cristiani, stringente con l’assedio per terra quella città, dover arrivare una grand’oste condotta dal soldano di Damasco, mormorava contro i capi dicendo: che in quell’incontro tutto il peso sarebbe caduto sopra di essa mentre i Veneziani tranquilli nei vascelli loro avrebbero avuto sempre il modo di ritirarsi in caso sinistro. A tali mormorazioni, punto il doge nell’amore, fece spogliar i vascelli dei remi, del timone, delle vele, ec., e caricata ogni cosa sul dorso dei marinai, disceso con essi a terra. Rendutosi al campo mostrò sino a qual punto sapessero dimenticare i Veneziani la propria salvezza onde mostrare la fede loro e l’interesse per i pericoli degli alleati. A si fatta intrepidezza stordito tutto il campo, non consentì che fossero esposti a perire i vascelli al menomo soffio del vento; cosicché ritornatovi il doge cogli attrezzi, si rinnovarono con più calore gli assalti di Tiro. Il pittore significò appunto il rendersi del doge al campo insieme ai marinai caricati degli attrezzi. Per verità somma armonia ottenne esso in questo dipinto; e Tiro che si riflette sull’onde, ed i principali, che bene si uniscono coi più distanti oggetti, sono saviamente calcolati comunque si di leggeri non si palesino gli artifizi: vero scopo cui deve tendere l’artista. Nel V ed ultimo quadro di questo lato sinistro è spiegata la vittoria riportata da Giovanni e Rainieri Polani contra Ruggero Normanno re di Sicilia, il quale, dopo aver assediato Costantinopoli, aspirava all’interno dominio del greco imperio tenuto allora da Emmanuele. Avutosi ricorso da questi ai Veneziani depredarono essi la Sicilia, tolsero Corfù a Ruggero, e presso la Morea incontratisi con l’armate di lui, accorsa alla difesa del proprio regno, la distrussero cosi che dovette ritirarsi in Sicilia e lasciar libero Emmanuele (anno 1148). La pittura è di Marco di Vecellio, e chi considera alla malinconia dipinta sui volti degli schiavi, al nazionale carattere conservato a pieno in essi, ed a tutta la disposizioue delle cose in tanta brevità di spazio, vede certa cosa degna di un pensatore, né si di leggeri può indursi ad accusare la scuola veneziana quasi sol atta alla verità delle tinte, e poco all’espressione, alla perfezione dei contorni ed a quello insieme che insaziabilmente fa amare un dipinto.

All’incontro di tale vittoria, nel destro lato della sala, vedi il I quadra mirabile di Jacopo Tintoretto colla ricuperazione di Zara (anno 1346) quando, ribellatasi al Veneto dominio, si diede a Lodovico re d’Ungheria. Né soggetto esser vi poteva di questo più acconcio per sfogare il fervido genio del Tintoretto, sponendo tutti i violenti casi di una pugna in tal modo e con tanta diversità da rimaner più stanchi che aver tutto contemplato. II. Andrea Vicentino pinse il quadro seguente sopra la finestra rappresentante la presa di Cattaro fatta nel 1378 da Vittore Pisani. Intanto che quell’invitto capitano invigilava i Genovesi della parte del golfo onde avere in ogni caso più facile il ritiro, pensò di conquistar Cattaro, città addetta al re d’Ungheria. Breve ne fu l’assalto, né lasciando tempo al presidio di ritirarsi nella cittadella, ogni cosa fu posta a sacco. III. Ma superava sé stesso il medesimo pittore raffigurando tra le due finestre la vittoria dei Curzolari (anno. 1571), ovvero di Lepanto, ottenuta dalla repubblica unita ai principi confederati di Austria, di Spagna e d’Italia contro la possente armata di Selim imperatore dei Turchi. Posto il pittore nella necessità di schierare le due flotte, di esprimere la confusione messa in quella degli ottomani, la carneficina, il fumo, il mare coperto di cadaveri, tutto egli ha espresso con tanto di verità che ti par quasi essere nel mezzo della mischia. Opera però assai poco pregiata fece Pietro Bellotti nell’altro IV quadro, ove è dipinta la demolizione di Margaritino fatta da Francesco Cornaro nel 1571. Pel terrore impresso nei Turchi dalla vittoria di Lepanto facilmente sarebbe stata anni annichilita la potenza loro se i Veneziani avessero trovato appoggio negli altri alleati. Tuttavolta non vollero perdere per sé stessi il frutto della vittoria cercando di riconquistare le piazze perdute, tra le quali era appunto il castello di Margaritino sulla costa dell’Albania: castello demolito tosto che da essi fu preso. Nel V quadro, l’ultimo di questo destro lato, Pietro Liberi significò la vittoria dei Dardanelli avvenuta nel 1698. L’armata veneziana, comandata da Jacopo Cornaro, si era situata fino all’imboccatura dallo stretto dei Dardanelli, predava tutti bastimenti carichi per Costantinopoli, e produceva una carestia in quella capitale senza che l’ammiraglio turco osasse uscire a battaglia. Presentatasi finalmente l’occasione, disfatte vennero le sultane turche, ed i Veneziani tornarono ancora ai Dardanelli, dove continuarono a crociare e ad incomodare la capitale. Però la pace di Carlowitz, stipulata in quell’anno tra le potenze europee col fine di conservare ad ognuna quanto allora occupava, fece cessare quella guerra che segnò il confine della gloria veneta. Piacque a Liberi di mettere lontana la caccia data dai vascelli veneziani a quelli dei turchi onde far principale nel quadro piuttosto la ignuda figura di uno schiavo che ferisce un Turco per cui si suole il quadro appellare lo schiavo del Liberi. È una di quelle licenze a cui si abbandonava di leggeri il XVII secolo, verso la fine specialmente. Perché un accessorio primeggiare? Per far pompa forse di bel nudo? Fosse pur bello il nudo non deve l’artista far ciò che sa ma ciò che deve. Non erat his locus direbbe Orazio.

Cosi i tre lati di questa sala sono esaminati. Il quarto lato, opposto a quello del finale giudizio, è formato dalla facciata interna della porta principale. Offre quindi essa un grande arco eretto alla memoria del benemerito doge Francesco Morosini il Peloponnesiano nel 1694. Gregorio Lazzarini culla grazia solita del suo stile vi dipinse all’intorno sei quadri allegorici. Nel 1. espresse la Pace che corona la Difesa e la Costanza e da lungi la città di Candia, nel 2. In Religione porgente stocco e pileo a Morosini; nel 3- il Merito che gli da quattro bastoni, cioè i quattro gradi di onore accordatigli dalla repubblica; nel 4. la Morea che, presa da quel doge, viene da lui presentata a Venezia con Gaudio pure in distanza; nei 5. la Vittoria navale assisa sullo sperone di una galera e col motto: Victoria Noturna Navalis; nel 6. la Vittoria terrestre significata dal motto Leucas et Nicopolis che sta sullo scudo tenuto in mano dal doge.

Veduti tutti i lati della sala gioverà riconoscere il fregio superiore, che al paro di quella del maggior consiglio è compartito in vari ovali, ciascheduno dei quali contiene un ritratto dei dogi, meno però il lato che forma la testa della sala in cui vi sono i quattro evangelisti e quattro maggiori profeti. Il che come si abbia esaminato, passeremo ad osservare il complicato soffitto tutto adorno di ricchi intagli messi ad oro, e diviso in tre compartimenti: l’uno nel mezzo e gli altri due laterali.

A maggior chiarezza principieremo dal considerare il compartimento del mezzo di questo soffitto, passando poscia agli altri due. Cinque quadri compongono adunque quel medio compartimento: tre ovali e due in forma quadrata. Nel I, verso l’anzidetta porta principale, che è ovato, fu dipinta da Andrea Vicentino la flotta veneziana, che spedita (anno 1098) alla prima crociata, viene a contesa con quella dei Pisani avviata poi medesimo oggetto, e presele alcune galee, le riduce in schiavitù 4.000 uomini. In uno spazio si breve come bene fece vedere quel pittore l’unione delle due flotte attraverso una principale accanita zuffa tra i soldati delle due nazioni posti in sulla cima del proprio bastimento! Nel II quadro, che è quadrato, Francesco Montemezzano espresse la rotta data ai Genovesi dai Veneziani comandati da Lorenzo Tiepolo, tra Tiro ed Acri (anno 1258), per lo possesso della chiesa di San Saba di Acri, da cui i Genovesi volevano escludere i Veneziani. Il quadro presenta appunto l’entrar che fanno i Veneziani in quel tempio. E di un gran colorito fece pompa il Montemezzano in esso certamente. Nel III quadro, che è ovato, figurò Camillo Ballini la vittoria ottenuta da Marco Gradenigo e da Jacopo Dandolo a Trapani contro i medesimi Genovesi (anno 1265), i quali premurosi di aver l’impero del mare, pur vagheggiato dai Veneziani non lasciavano mai quieti gli emuli loro. Laonde, incontratesi le due armate all’altezza di Trapani, con sommo accanimento tendevano a distruggersi; ma la vittoria fu dei Veneziani che, della 34 galee genovesi, 24 ne presero, le altre sommersero e passarono tutto l’equipaggio genovese, a riserva di 2500 prigionieri, a fil di spada. Il campo di questo quadro, non che altro, dovrebbe assai essere meditato dagli artisti. Nel IV vano quadrato, Giulio dai Moro figurò la presa fatta da Giovanni Soranzo della città di Caffa (anno 1295) detta anticamente Teodosia, posta tra il mar Nero e la palude Metoide, della quale da 3o anni erano al possesso i Genovesi «che la tolsero ai Tartari e questi agli imperatori d’Oriente. Finalmente nel V ed ultimo quadro che è ovato, si veda la presa di Padova fatta in tempo di notte dai Veneziani sotto la scorta del celebre Carlo Zeno e di Francesco Molino (anno 1405) contro il signor di Padova Francesco Carrara. Opportunissimo soggetto fu questo per-Francesco Bassano amante come era dei lumi serrati.

Dal compartimento di mezzo volgendosi ai laterali osserveremo primieramente il compartimento destro. E, se cominci dal grande arco eretto a Francesco Morosini, vedrai I. due triangoli dipinti da Antonio Aliense. Nell’uno espresse la disciplina militare terrestre, e nell’altro la Clemenza seduta sopra un leone che tenendo l’asta con una mano getta coll’altra il folgore di Giove. II. Indi vien un ovale a chiaro scuro verde dove il medesimo Aliense raffigurò il ricupero di Zara fatto da Ordelafo Falier nel 1117 dopo la sua ribellione per darsi a Stefano re d’Ungheria. Costo per altro quell’azione la vita al doge stesso che si era posto nella prima schiera onde animare i suoi viernmaggiormente. III. A quell’ovale succedono altri due triangoli, nel primo dei quali Antonio Aliense significò la Liberalità e nell’altro Camillo Ballini la Temperanza avente in bocca un morso di cavallo, nell’una mano un limone e nell’altra un compasso a dinotare la regolarità delle opere sue IV. Viene ancora altro ovale l’Aliense dipinse l’esempio di moderazione dato dal doge Domenico Michel (anno 1128) quando, nel tornare vittorioso di Soria e facendo Scala in Sicilia rifiutava la corona che dargli volevano quei popoli per non abbandonare la propria patria. V. Compiano questo destro compartimento gli ultimi due triangoli dipinti dall’anzidetto Ballini, nel primo dei quali espresse la Giustizia avente in una mano un regolo, nell’altro un freno ed ai piedi i fasci e la scure nell’altro triangolo la Purità.

Dal destro passando al sinistro compartimento di questo soffitto, se cominceremo dalla parte sinistra della testa della sala, ove è la tela del giudizio finale, vedremo: I due triangoli, che corrispondono ai due ultimamente esaminati, e che opere sono di Marco Vecellio. Nel primo significò la Fede e nei secondo la Prudenza, che armata al modo di Pallade con accanto un serpente e tre teste di cane, di lupo e di Leone tiene un piede sopra quest’ultima per dinotare come ella domi all’uopo la stessa forza intanto che spia alla guisa dei cani e dei lupi. II. Succede a quei triangoli un’ovale a chiaro-scuro dell’Aliense e dimostra il doge Pietro Ziani che depone la corona ducale per farsi monaco (anno 1228). III. Vengono poi altri due triangoli, nel primo dei quali Marco Vecellio rappresentò la Fortezza figurata per una donna che, tenendo in una mano la clava d’Ercole, l’appoggia sopra la testa di un leone, e nel secondo si significava dall’Aliense la Magnificenza che da un vaso cava scettri, mitre e corone. IV. Il solito ed ultimo ovale a chiaro-scuro, che s’inframmette a due triangoli, fu dipinto da Giulio dal Moro ed esprime la costanza d’animo di cui Arrigo Dandolo fu capace in Costantinopoli quando, trovandosi ambasciatore per la Repubblica (anno 1173), e parlando liberamente per la patria, sofferse intrepidamente l’abbacinamento ordinato dall’empio Emmanuele imperatore dei Greci. V. Finalmente chiudono questo destro compartimento gli ultimi due triangoli, in cui l’Aliense dipinse nell’uno la Concordia avente nella destra una tazza, due cornucopie nella sinistra, ed ai piedi la cicogna simbolo della concordia appo gli Egizi, e nell’altro la Disciplina militare marittima.

Restano per ultimo ad esaminare i piccoli triangoli che s’interpongono fra i triangoli, gli ovali laterali ed i gran quadri del compartimento di mezzo. Sono 12 quei piccoli triangoli, ed esprimono altrettante morali virtù simbolicamente rappresentate. Considerate le quali virtù, dipinte dal Pordenone, l’intero esame di questa sala è compiuto. (1)

(1) ERMOLAO PAOLETTI. Il Fiore di Venezia, Volume II. Tommaso Fontana tipografo edit. Venezia 1839

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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