Palazzo Bragadin Bigaglia ai Santi Giovanni e Paolo

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Palazzo Bragadin ai Santi Giovanni e Paolo. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzo Bragadin Bigaglia ai Santi Giovanni e Paolo

Si assegna un’epoca anteriore al 1490 all’architettura di questo edificio ornato di marmi orientali nelle colonne dei principali veroni, e negli interstizi degli archi dei veroni e delle finestre; e rappresenta quell’epoca lo stile gotico-moresco del suo prospetto sul rivo di San Giovanni Laterano. Gli archi sono configurati a cuspide nelle due rive di approdo, una delle quali si vede murata. Appariscono pure a cuspide i tre archi a sesto acuto nel poggiolo del primo ordine, sorretti da colonne, aventi capitelli fogliati e cordonati agli angoli. Parimenti i quattro davanzali sono a cuspide, con capitelli conformi, e con modiglioni di forma ricurva, effigianti teste gentili di leoncini. Sembra che altresì nel secondo ordine le tre arcate componessero in antico il poggiolo. Verso però il seicento, come dallo stile risulta, vennero introdotte alcune riforme, che alterarono il prospetto nel piano degli amezzadi e nel poggiolo del verone appartenente al piano nobile. Rimasero tuttavia i capitelli di semplice stile gotico, e i cordoni ripetuti negli angoli, senza d’altronde i fogliami ed i cuspidi, che figuravano quale impronta dell’architettura originaria. Nel parapetto della terrazza sta, dal lato della porta d’ingresso di terra, un bel fregio di cotto, già di carattere moresco, consistente in alcuni grappoli d’uva e fogliami, a grande rilievo.

Sopra la detta porta poi, in quella nicchia, ora vacua, si conteneva un basso rilievo, in marmo greco, che, a cura dell’attuai proprietario, s’inseriva nel muro sulla Barbarla. L’opera, non spregevole, risale al secolo XIV, e ai nostri giorni occupava gli studi archeologici del fu David Weber, quegli che illustrò le colonne quadrate, che i Veneziani recarono da San Giovanni d’Acri, e si vedono, rimpetto al molo, dinanzi la minor soglia della Basilica di San Marco, presso la Porta della Carta. Con quel bassorilievo è rappresentato il profeta nel lago dei leoni: forse quivi si traslatava dalla chiesa di San Daniele. La qual fabbrica, insieme al monastero, si eresse dai fondamenti, a tutte spese dei Bragadin, secondo l’Ughelli nel T. V. dell’Italia sacra, e il Cappellari nel Campidoglio Veneto, avendovi speso ben molto oro Marco Bragadino, in quei recinti anzi sepolto. Sarebbe il traslato e il collocamento del detto bassorilievo una prima prova, che il palazzo appartenesse alla ricordata prosapia, se non attingessimo alle storie il grande argomento, che la proprietà ne fu sempre in quella casa continua.

Infatti il cavaliere Pietro Bigaglia, attuale possessore, ne faceva l’acquisto, con strumento 10 novembre 1824 dall’ultimo superstite Costantino Maria del fu Pier Alvise. In origine era soggetto al fideieommisso di una Cecilia Zorzi vedova Bragadin, per testamento 24 giugno 1692. Merita inoltre osservazione il doppio fatto, che avanti sorgesse questo palazzo, nel 1480 si legge nelle carte pubbliche indicato un Andrea, del confine di Santa Maria Formosa, e che nella stessa chiesa seguiva il dì 11 febbraio 1557, per contratto di nozze 4 gennaio dell’anno innanzi, il matrimonio con Elisabetta, figlia di Ermolao Morosini di Marc’Antonio Bragadin, l’inarrivabile capitano. Il quale nasceva da Giovani Luigi e d’Adriana Bembo il 24 aprile 1523 disceso da famiglia, che si vuole abitasse nella Barbaria delle Tole. Ci ricorda aver veduto, più di tre lustri addietro, in questo palazzo, nel parapetto d’un sacello, di cuoi d’oro a disegno, in un dipinto di buona scuola, lo stemma dei Bragadin, dopo essere passati per una sala, ancora coi modiglioni di lavoro antico, e avere attraversata altra stanza, con ricchi addobbi, alla foggia araba, e con le trabeazioni di bel legno, adorne di dorature.

La casa dei Bragadin, oriunda di Veglia, isola del la Dalmazia, secondo il Frescot, si cognominava da Brago o Bragadino Ipato, quegli che insinuava al Senato di far sorgere la Basilica, unica al mondo; che ebbe il tribunato nella culla della Repubblica, ed a schermo della patria educava ad ardue imprese il genio guerriero. Al valore di un Vittorio Ipato si ascrive il trionfo, che fu riportato nel canal orfano il 14 luglio 806, essendo egli generale dei Veneziani, contro Pipino, con tanto eccidio dei Francesi, che, avanti di ogni popolo, tentarono di ecclissare le glorie del nascente Dominio. Nè si arrestava già a queste prime gesta la prosapia. Poiché un Andrea mostrava grandezza d’animo singolare, sotto il generalato di Pietro Orseolo, nella guerra contro i Saraceni, e moriva, combattendo sul campo, coi quattro prodi suoi figli; Pietro saliva impavido sulle mura nemiche, capitanando l’armata, condotta dal Doge Ordelafo Falier all’impresa di Terra santa; Alessandro cooperava con Enrico Dandolo al conquisto di Bisanzio; ed Antonio procurator di San Marco, e ballottato Doge, largiva ducati 2000, quando si tornea, s’iniziasse la guerra di Cipro, ricca isola, di quasi 800.000 abitanti, da cui traevano i veneziani olio, vino, cotoni e sete, nella quale battaglia, che durava un giro intero di sole, per cui, attaccata la piazza da 94 mila Turchi e da 406.000 della Caramania, della Siria, dell’Arabia e dell’Egitto, ne rimanevano vittime 75.000, operava miracoli di valore Marc’Antonio Bragadin. Egli disperò infatti le falangi avversarie, finché ebbe militi al fianco, per propulsare la rabida potenza dell’oste, che gli fremeva all’intorno. Anzi diremo, che non fosse mai interrotta per questo eroe la vittoria, se, dell’affrontare la morte, rinfacciava al tiranno codardo la fede dei trattati, iniquamente infranta. Fu veramente l’Attilio Regolo di Venezia, poichè con squisito tormento gli si estraeva la pelle dal corpo vivo. Atroce sevizie, che fa l’umana natura rabbrividire, e che ben amara scontava più tardi l’ottomana perfidia! In processo di tempo, cioè sedici anni dopo, s’involava la pelle del Bragadin all’arsenale di Costantinopoli da un soldato di Famagosta, e si comperava dalla famiglia; quindi, per decreto del Senato, si riponeva in un’urna, con monumento di fini marmi, e col busto del martire fra due leoni, con figure a chiaro-oscuro, esprimenti il martirio, la fortezza e la fede; opera d’alcuni attribuita a Giuseppe Alabardi, d’altri al frate Cosimo Piazza, cappuccino.

Ora da qualche circostanza, relativa al traslato di questo patrio deposito, si trae nuova luce a vieppiù rafforzare l’argomento sull’appartenenza del palazzo al martire immortale. Poiché è bensì vero, che la prima volta si collocava il monumento nella chiesa, allora abbaziale di San Gregorio, per la ragione che ivi tenevano le tombe i Bragadin, che anche altrove ne tenevano, a San Daniele, cioè, e a San Francesco della Vigna; ma è altrettanto vero, che si traslatava l’urna nel Tempio dei Santi Giovanni e Paolo, non già nel 1808, nel quale anno cessava l’ufficiatura della chiesa di San Gregorio. Né meno allora si trasferiva, che alle chiese, massime claustrali, si toglievano, per salvarle, tante reliquie d’arte, che si raccoglievano principalmente nelle chiese dei Frari e dei Santi Giovanni e Paolo, divenute quasi Panteon monumentale. Né meno ancora avveniva il trasferimento dell’urna, si noti bene, quando per Decreto del Senato 2 settembre 1773 cessava l’abbazia, non già la parrocchia, perché anzi colle rendite di quella si compensavano il Parroco e i titolati, per altro Decreto 3 febbraio 1775 del magistrato sopra monasteri. Anzi toccando del traslato in questione nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo il Martinioni, continuator della Venezia del Sansovino, che scriveva le sue memorie dal 1580 fino al 1663, ci dà la prova patente che vi si dava mano ben avanti eziandio ai due sopracitati Decreti. Laonde si ha tutto il diritto d’inferire, che per mozione spontanea della famiglia, si trasportasse quell’urna, e la ragione in tal caso non può vedersi che nel fatto dell’abitazione sua nel palazzo di quella parrocchia. Rivendicandosi così un punto di storia, ch’era controverso, se l’argomentazione è incontendibile, diventa storica eminentemente la celebrità di questo palazzo.

Fu ben giusto pertanto, l’amore, che a queste soglie consacrava il cavaliere Pietro Bigaglia, il quale con dispendio ingente, introdottevi ben utili, radicali riforme, mirò a provvedere al maggior lustro dei famosi recinti. E ammessa pure la enorme differenza dei tempi, onora certamente questa magione la carità che il Bigaglia mostrò sempre allignare nel suo nobile animo verso la patria, di cui seppe favorire in più modi il decoro e la grandezza.

Noto è ormai che, nativo egli della celebre isola, a cui deve il mondo il fiorire dell’antica industria, nelle manifatture peregrine, di vetri e smalti che si spargevano non solo per l’Europa ma per l’Asia ancora e per l’Africa, emulò gli avi suoi, per varie guise benemeriti, e colse più corone nell’arte. I suoi laboratori delle filigrane, i suoi depositi delle manifatture, per cui, con l’acquisto di stabili attigui, ampliava gli spazi del suo palazzo, meritano di essere quivi, come in Murano, visitati dal forestiere, anche per i raffinamenti dell’avventurina, e per tante belle industrie del suo genio, di risorse fecondo. Singolare rivolgimento e contrasto di tempi!

In questa magione del Bragadin, per le corrispondenze di un ramo di traffico colla Porta, Soliman Pascià, ambasciatore a Parigi per Costantinopoli, quattro lustri addietro, visitava i recinti, abitati dall’eroe immortale, il cui braccio disperò la possa ottomana. Era quel giorno, che, salito il palazzo Ducale, gli si affacciava, nella sala del maggior Consiglio, l’immagine del Bragadin, a cui si rese lo stesso onore, che ivi ricevevano i principi della patria; s’incontrava lo sguardo, nella sala d’armi del Consiglio dei Dieci, nel busto del celebre capitano, opera di Tiziano Aspetti, e lo scorgeva a canto a quelli di Agostino Barbarigo, Doge guerriero e politico, e di Sebastiano Venier, il vincitore alle Curzolari, nel formidabile agone, succeduto alla guerra di Cipro, per vendicare gli iniqui fatti di Cipro e di Famagosta (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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