Palazzo Donà dalle Rose sulle Fondamente Nuove

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Palazzo Donà dalle Rose sulle Fondamente Nuove

Palazzo Donà dalle Rose sulle Fondamente Nuove

Non si accordano fra loro i cronisti, nell’ammettere l’epoca della erezione delle cosi dette Fondamente nuove, quali sorsero di pietra viva dalla parte di tramontana del terreno tra San Francesco e Santa Giustina, sino all’orto di Santa Catterina di Cà Grimani, il Rompiasio infatti precisa il 22 febbraio 1589; il Trevisano invece va oltre il 1595.

Era a quel tempo un ridente ritrovo, con la vista di Murano, del cenobio degli Agostiniani, ove fiorì il celebre monaco politico Fra Simone da Camerino, di altre isole, e dell’aperta laguna, e prossime a quella via, con un galante caffè, stavano due palestre, in cui la gioventù animosa si addestrava a domar corsieri, una per i gentiluomini, l’altra pei negozianti. Da taluni perciò dei cittadini si vagheggiava l’abitazione in quel sito, di novità allora e di frequenza, e il Doge Leonardo Donà che, da filosofo com’era, non incarnava mai un disegno senza motivo potente, aveva, più che ad altro sito, dato a questo la preferenza. Poichè all’occasione della peste, per cui s’innalzava il Tempio votivo del Redentore nel 1577, nessun abitante era stato quivi colto dal contagio; circostanza, che deponeva in favore delle specialissime condizioni della saluberrima plaga.

Comperava quindi il Doge sulle Fondamente nuove una parte del terreno, il 11 ottobre 1609, da Jacopo Nani genero di suo fratello, che tre anni avanti ne avena fatto l’acquisto dall’ufficio delle Acque. In questa porzione di terreno si erigeva l’attuale edificio; né ci mancano tutti i possibili lumi sulla sua fondazione, avendo lasciato scritto il Doge stesso, che si dava principio alla fabbrica l’anno appresso della compera, cioè si palificavano i fondamenti. E sappiamo che la prima pietra dopo che si cominciò a cavare e palificare, secondo l’espressioni letterali di quelle memorie, fu posta ai 24 marzo 1610, vigilia dell’Annunziazione della Vergine, che una lunghissima tradizione faceva risguardare anche a quei tempi come il giorno, in cui Venezia usciva dalle acque, a così dir per incanto. Il tetto del palazzo si ultimava alla metà dell’ottobre 1644, e si tiene che un Francesco de Piero fosse il proto, dirigente la fabbrica.

È poi una singolarità di tradizione, quasi in diritto della storia, che il disegno di questa mole sia stato opera di Fra Paolo Sarpi, al quale da Bianchi-Giovini, nella sapiente biografia di quel Sommo, si attribuisce anche il modello del teatro anatomico di Padova. Certamente veneranda sarebbe per noi unicamente l’autorità di Marco Foscarini, che ne lasciava la notizia a pag. 86 della preziosa sua storia della letteratura veneziana. La vita inoltre del Sarpi ci addita, che non fu egli soltanto riverito come la mente dello Stato, per l’accorgimento politico, né solo è a considerarsi il genio, per conto di scienze, che sorpassò ogni grand’uomo del suo secolo, ma altresì deve riguardarsi quale cultore geniale di studi affini ed accessori, da non far meraviglia, che si distinguesse anche per l’ingegno architettonico. Egli poteva inoltre essere stato benissimo trascelto a quell’opera dal Doge Leonardo Donà, che dedicò a questo palazzo le principali sue cure, che gli era intrinseco amico, con cui passò gran parte della tanto proficua e infaticabile sua vita. E sappiamo infatti tale esserne stata l’amorosa intimità, che il Sarpi ne sentì dolore grave nell’animo, quando quell’assennato e integerrimo Principe rese lo spirito a Dio, quasi alla sprovveduta, la mattina del 16 luglio 1642, mentre tornava dal Collegio.

Questo edificio, di incontendibile speziosità, al solo accedere al vestibolo, per la gran porta principale, ha due ingressi per terra, e due approdi per acqua, uno dei quali con la cavana. Grandioso nelle sue membrature, e ricco per decorazioni di marmi, bene risponde al concetto di magnificenza, per la splendidissima sala, per le capaci e copiose stanze, sì del piano nobile che degli ammezzati, e a dir breve, per l’acconcezza ed il comodo dei suoi molti interni compartimenti. Giova però avvertire, che il concetto del Doge era ben maggiore di quello, che dall’attuale mole apparisce, poiché mirava a far sorgere un’ala grandiosa, ove ora si vede un terreno vacuo e una teza, e farvi verdeggiare a canto un giardino. Tanto è ciò vero, che l’ultima parte dell’edificio, ove di presente stanno la libreria e l’archivio, non corrisponde all’insieme; né si sarebbero tenuti gli appartamenti e gli stessi ammezzati in proporzioni si alte, con enorme discapito di quel piano, che ha veramente depresso il soppalco, in modo sterminato e intollerabile. E si noti, che i fondamenti della fabbrica si gettarono colossali, per sostenere una mole ben superiore a quella, che attualmente sorreggono. Ma pur troppo l’idea del Doge fu sempre da suo fratello Nicolò avversata; gli moveva sovente litigi, quando era chiamato a troppo necessari esborsi: gli rinfacciava che enorme quantità di valsente si era sprecato, con cui si avrebbe potuto fare la compera di un palazzo cospicuo nel miglior sito del canal grande. Per le quali opposizioni, sentite sempre a malincuore, seguiva finalmente tra fratelli un sì violento alterco, che il Principe ne fu colto di atrabile, e poco dopo gli cessava la vita per apoplessia, mentre era in corso la fabbrica. Allora dal fratello e dai nipoti si racconciava l’edificio alla meglio, ed a risparmio di altre spese, e seguiti i propri principii, si lasciava, come si vede fatalmente incompiuto.

Una forte domestica vessazione era d’altronde ingiusta col povero Doge, di cui dovevano rispettarsi anche i desideri, avuto riguardo al merito personale, ed all’amor, tenero che per la famiglia nutriva, per cui aveva nel suo testamento istituita una primogenitura in suo nipote Leonardo, figlio al detto Nicolò suo fratello. Noi attingiamo, per il ragionamento, tutte queste curiosità da memorie domestiche particolari, e raccogliamo poi notizie preziose dalla rara collezione di antichi codici, che è la meglio conservata in questo palazzo, ad onta delle vicende e delle divisioni delle famiglie, che danneggiarono notevolmente l’integrità dei nostri Archivi. Per quei solenni documenti ci è dato addentrarci, senza incespicare, nella storia del ramo del lignaggio Donà detto dalle Rose.

Predicato questo, che perpetuò fino ai dì nostri, ad onore della casa, la distinzione conseguita dal cav. Antonio, nel ricevere il 1470 da Sisto V, nella Basilica Vaticana, il dono della Rosa, o meglio rosaio, di più rose contesto; antica istituzione dei Pontefici. I Donà, che derivarono da Bisanzio nei bassi tempi, appartenevano poi alle ricche case di Altino, e rifugiatisi sulle lagune, prima della Serrata del gran Consiglio, in cui furono compresi, sostennero legazioni cospicue e generalati da mare; ebbero mitre e porpore; taluno sedette sulla cattedra Patriarcale di Venezia, e furono insigniti otto volte della stola Procuratoria, e tre fiate della corona ducale. Del doge Leonardo, che esercitò sublimi uffici dentro e fuori della città, con sommo encomio e profitto della Repubblica, si segue la via luminosa dei meriti, coi documenti stessi del domestico archivio. Vi si trovano infatti le Relazioni dei molti suoi viaggi diplomatici, e di quella straordinaria all’Imperatore Rodolfo II, nel 1577.

Seguite al suo tempo le diverse straordinarie avventure politiche, di cui sono piene le storie, a cagione dell’Interdetto di Paolo V, quando appunto era il Sarpi teologo consultore, ne ebbe il Doge gravissima parte, e si conserva una raccolta di lettere in ben sedici volumi, che hanno relazione con quel tanto clamoroso avvenimento. È noto altresì aver il Doge sostenuta l’ambasceria o bailaggio di Costantinopoli, e ne fa menzione egli stesso, accennando, in certe private note di acquisti e spese, alle speciali ricchissime vesti, portate anzi una volta sola in quella grave missione. E se ne possono leggere i minuti ragguagli, anche a proposito degli sfarzosi abbigliamenti ducali, fra le curiosità, di cui ridonda la grande opera del cav. Cicogna sulle Iscrizioni veneziane illustrate.

Non meno importanti risultano alcune memorie nell’Archivio Malipiero, intorno alle correzioni del 1779, 1780 e 1784, che si credono originali del Doge Francesco Donà. Di lui stanno nel Museo Correr, tra le moltissime commissioni ducali, le membranacee distinte e miniate. La storia celebra questo Principe, come dottissimo nelle cose divine ed umane, di mite e specchiata indole, e caro all’universale, onde molto si pianse intorno al suo mausoleo, a cui fece gli ornamenti Andrea Schiavone, che fino da quel tempo in bella nominanza fioriva. Toccando degli uomini di lettere, si conserva nell’Archivio l’epistolario di un Giambattista Donà, relativo al commercio dei veneziani in Oriente, nel secolo XVI; è lo stesso gentiluomo, di cui si vede nel Museo Correr il ritratto, in lunga barba, e in assisa di Bailo, con epigrafi appiedi. Di un Girolamo Donà, altro Bailo, vi ha la Relazione, circa la conservazione dei libri del Petrarca. Di un Antonio abbiamo lettere sull’ambasciata presso il Duca Vittorio Amedeo I, pio e valoroso Principe, e memorie sulle cose di Torino, sui di lui reggimenti militari, e per gli affari in Savoia nel 1619. Né taceremo di un Domenico, tra gli scrittori veneziani, che fu autore di eruditi aforismi storici, sul gusto di quell’epoca; quegli che nel 1691 moriva infelicemente sommerso nel rivo della Panada ai Santi Giovanni e Paolo. Il quale sciagurato destino, con ben luttuosa coincidenza, aveva incolto Andrea e Cecilia Polani, di lui genitori, affogatisi nel canal grande, mentre erano di ritorno, mascherati da una festa di ballo di casa Pesaro a San Stae nel carnevale del 1636.

Interessanti sono anche i dispacci al Senato del Doge Nicolò Donà, senatore di grande animo, quando fu Provveditor generale contro i pirati slavi, conosciuti col nome di Uscocchi, che, annidando nelle coste montuose della Croazia, infestavano l’Adriatico. Coi quali durava una guerra di ben quattordici anni, cominciata sotto il Doge Leonardo Donà, e come dalla Storia del Sarpi si impara, i veneziani per debellarli si alleavano coi Grigioni e con gli Olandesi, e fondarono la fortezza di Palmanuova, a difesa del Friuli, aperto alle inumane inaudite ostilità di quelle ribalde masnade. Ha poi un titolo a speciale ricordo Francesco Donà, che assunse l’ufficio gravissimo, comune ad altri due della Casa, di Istoriografo della Repubblica, dopo Marco Foscarini. Poiché di lui fu il gran merito di aver chiesto al Consiglio dei Dieci, per aiuto ai cittadini, incaricati di scrivere la storia veneta, di trarre quella bellissima copia, che si eseguiva nel 1784, dall’autografo dei Diari di Marin Sanuto; preziosa copia, che esiste nella Marciana, e che dai dotti tuttodì si consulta, sui fatti d’Italia e della Repubblica, dal 1496 al novembre 1533, cioè dalla venuta in Italia di Carlo VIII re di Francia, sino al Doge Andrea Gritti.

Scorrendo poi i fatti storici di più età, non si dura fatica a conoscere, che i Donà ebbero sempre animo generoso e alla virtù proclive, essendosi consacrati mai sempre alla causa santa della beneficenza. Chi non ricorda con gratitudine Bernardo Donà, che nel 1711 legava una sostanza, i cui redditi si fruiscono adesso dalla Commissione Generale? L’alto suo scopo era di far cessare la questua per la città, e il Senato coi decreti 1753 e 1770 prescriveva una serie di lavori, per sostenerne quel bando, che in tempi a noi vicini si rinnovava e che pure fin dal 1595 occupava le cure della Repubblica, quando mercé le pingui largizioni di due facoltosi mercadanti, seguiva l’istituzione dell’Ospitale dei Mendicanti, che può riguardarsi come la prima casa di Industria in Venezia.

Oggidì, non degenere da gli esempi dei suoi grandi avi, il conte Francesco Donà dalle Rose cavaliere del S. M. Gerosolimitano, proprietario di questo palazzo con la famiglia sua, si dedica a cittadini uffici, e li sostenne da anni molti, e in momenti difficili per la patria. E se non temessimo di offenderne la modestia, loderemmo l’efficace ed onesto di lui zelo operoso, quale Deputato della Commissione di Beneficenza, quale vice-preside della Congregazione di Carità, e come successore al Priuli, e ben degno per la bontà grande dell’animo, nella presidenza agli Asili d’infanzia; altra istituzione antichissima, rediviva in Venezia, di cui abbiamo toccato nella descrizione del palazzo Zorzi ora Liassidi, sulla fondamenta di San Lorenzo. Così questa magione antica dei Donà ci risulta ancora più ragguardevole per la storia, a cui si rapporta, contenendo anche nel suo Archivio le prove del patriottismo, onde con utilità somma della Repubblica furono celebri gli ascendenti che l’abitarono (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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