Palazzo Loredan Grimani Vendramin Calergi a San Marcuola

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Palazzo Loredan Grimani Vendramin Calergi a San Marcuola

Nei tipi originali della prospettiva generale di Venezia del 1500, attribuiti dalla tradizione volgare ad Alberto Dùrer, e che si conservano nel Museo Correr, i quali rappresentano Venezia veduta a volo di uccello, qual era tre secoli addietro in ogni più remoto suo angolo, si scorge che allora questo palazzo non era ancora murato. Il Selva d’altronde asserisce di aver attinto all’Archivio dei Vendramin il fatto, che si cominciava a edificarlo nel 1481. Per non toglier fede in tal caso al nobile architetto, conviene ammettere, che in sorgessero speciali eventualità a ritardare per diciannove anni l’innalzamento della fabbrica. Certo è che si demoliva un palazzo, che in quell’area stessa preesisteva, e si sa che quel palazzo era portato in dote a Pietro Loredan da Campagnola Lando, della casa di Pietro, Doge nel 1538. Si trattava dunque di nuova fabbrica, e chi potrebbe opporre che non occorresse anche rinnovare i fondamenti, per farli abili a sorreggere la gran mole, e massime la facciata maestosa?

Quindi avrebbe ragione la famiglia, che registrava ordinata la fondazione di pianta dell’edificio da Andrea Loredan, e che non la riguardava rifabbrica, ma edificazione, come tale la giudica anche il Sansovino nella Venezia da cui si nomina come esclusiva proprietà dei Loredani questo palazzo. Passando poi ad altra questione circa l’architetto, dobbiamo disconvenire dall’opinione della Venezia e sue lagune, che sia opera di Pietro Lombardo, e meno ancora, per la ragione, come ivi si dice, che in quel torno egli erigesse in Venezia ben altri cospicui edifici. Poiché è invece provato da una polizza, tratta dall’archivio dei Frari dal professore defunto Giuseppe Cadorin, che Pietro, ben lungi dall’avere allora la fama di sommo, che ottenne in appresso altissima, aiutava anzi in quel tempo Martino Lombardo e suo figlio il Moro, in qualità di semplice squadratore, nei lavori del prospetto della scuola di San Marco. Di più ancora. Dal 1483 fino al 1489 aveva egli bensì commessa alla sua fede la fabbrica del tempio di Santa Maria dei Miracoli, ma (si nota bene) a varie riprese, perché, non conoscendosi ancora il suo merito, si fidava poco su lui dai procuratori alla fabbrica, che lo vollero assoggettare prima ad un formale esperimento.

D’altronde nel 1481 si ammiravano in Venezia dei lavori lombardeschi squisiti, senza che Pietro vi avesse, o potesse aver parte, ed era già sorto anche il prospetto stupendo della chiesa di San Zaccaria. Il Cicognara, a cui si associa nell’opinione il Temanza, sembra saltasse a piè pari ogni obbietto, col sentenziare, che non fosse già uno solo l’architetto di questo palazzo, ma più lombardi si unissero, come si procedette per la facciata della chiesa di San Rocco, e per ogni opera grandiosa, avanti il Palladio. Né sarebbe gratuito il giudizio, che in principalità vi figurasse Martino Lombardo, e suo figlio il Moro, che insieme a Tullio e Giulio, ci diedero il capolavoro del prospetto dell’anzidetta scuola di San Marco. È questo palazzo tipo ornatissimo di tutte le grazie architettoniche.

Sebbene l’architettura sia insigne, e vinca diversi tra i palazzi di maggior mole, e di stile più corretto, veneto o lombardesco, l’ingegno dello scultore non ne ebbe la minor parte, e impreziosi quanto venne immaginato dal sagace e nobile architetto. E bene si disse, che il cornicione vince il merito dei sopraornati nei palazzi Riccardi e Strozzi in Firenze, e nel Farnese di Roma. Anzi il Temanza manda ad esso gli architetti, acciò apprendano quali proporzioni e modanature convengano al sopraornato dell’ordine superiore di un edificio grandioso. La facciata è di pietra, delle migliori cave dell’Istria, costrutta in tre ordini corinti; le colonne minori, isolate nel mezzo dei grandi archi, sono di marmo bianco greco venato; di marmo eguale si vedono rivestite le riquadrature fra gli intercolunni; i piccoli fondi, disposti ad ornamento, figurano di porfido, di serpentino, e di altri antichi marmi preziosi. Nell’ordine di mezzo stanno maestosi poggioli, con leoni sparsi accosciati, due all’angolo di ognuno dei laterali, e quattro nel poggiolo maggiore. La fronte è di piedi 75, secondo il Selva; l’altezza dal pavimento terreno al tetto di 63 e mezzo, più il basamento, che si approfonda nel canale, e dal quale è la gradinata sporgente. Il Temanza, mirando alle doppie arcate, inserite in quelle degli ordini, che con apparente leggerezza contribuiscono pure alla solidità dell’edificio, ed agli ornamenti scolpiti e disposti maestrevolmente, giudicava la facciata di una certa composizione, a cosi dire, saporita e gustosa, per usare le sue parole, che si conosce, ma non si può adequatamente descrivere.

Il palazzo, collocato quasi in isola, è di ampiezza ben molta, e contiene gran copia di stanze. Altre aggiunte ebbe poscia, e nel l649 si fece sorgere il verziere ridente, onde allettare colla novità del pensiero chi ammira combinati nell’edificio gentile la solidità, il comodo ed il decoro, tre qualità, giusta i maestri, sostanziali, della plausibile architettura.

I Loredani, che in ogni modo del palazzo attuale possono dirsi, come vedemmo, i fondatori, tennero per quaranta anni il comando supremo delle armi in famiglia; perciò nello stemma soprasta allo scudo la berretta generalizia di porpora. Pietro Loredan si riverisce dalla storia quale nuovo Marcello, per imprese guerresche, e per le vittorie dei Turchi. Sta ad onore suo il fatto, che nominato con pieni voti al dogado, in competenza col Foscari, non rimase eletto, perché all’idea di perdersi un generale, sì potente, calava il secondo scrutinio. L’autorità del di lui aspetto si ricorda imponente, avendo saputo achetar all’istante 3000 popolani in tumulto, scendendo dalle procuratie nella piazza. In questo palazzo ebbe albergo Leonardo Loredan, principe della patria, che mostrò valor sovraumano, dando in sacrificio i figli propri alla repubblica, quando questa, fatta potenza italiana, era da tutta Europa assalita in Cambray, e fu il magnanimo fatto, che infuse lena ai trecento patrizi, che in Padova, da cento mila armati assediata, rinnovarono il trionfo delle Termopili. A tanto eroe della patria si battevano quindi medaglie, alla foggia degli antichi imperatori, e si ripeteva l’effigie nel medaglione di bronzo sui tre pili della piazza; opere squisite del Leopardi. Taceremo di Lorenzo, procurator di San Marco, primo ad essere rivestito della dignità, che sempre, vivente il padre, si negava al figlio.

Nel 1581 vendevano i Loredani questo palazzo per ?/m ducati, equivalenti a franchi 190.344. Otto anni dopo soggiaceva a domestiche liti, e tratto all’incanto, si acquistava (notabile fatto!) per ducati 36/m da un Vittore Calergi, proavo di Giorgio, che fu un tempo sconfitto da Pietro Loredano, e della casa dei nobili, che mossero guerra alla Repubblica, per usurparsi la sovranità in Candia, e che poi figli divennero e prodi suoi difensori. Forse non è più che tradizionale ciò, che si narra aver meritato i Calergi, quando ebbero in possesso il palazzo, che dovesse essere raso dai fondamenti, come penalità delle tante rivolte, da essi suscitate, per usurparsi il regno di Candia, ma che in riguardo alla preziosità della mole, non si volesse privar la città di un nobilissimo monumento dell’arti. E si vorrebbe quindi, che i Calergi fossero stati costretti a comperare alcune case limitrofe dei Memmo, e quelle invece si smantellassero. Nella qual area sarebbe sorto più tardi l’attuai giardino, che in conseguenza alla seguita penalità, avrebbe influito ad un maggiore abbellimento da quel lato, con più gentile appariscenza dell’edificio.

I Calergi abitarono in questi recinti, finché la casa si estinse in un altro Vittore, che da una figlia di Andrea Gritti ebbe Marina, moglie nel 1608 di Vincenzo Grimani. Questi portò in famiglia l’eredità e il cognome della linea dei Calergi, e ordinava allo Scamozzi i disegni, per ingrandire e maggiormente nobilitare il palazzo. Ciò lo Scamozzi stesso dichiarava nel libro III della sua architettura, e nella erezione dell’ala sul giardino, che è alla sinistra della facciata, respiciente il canale, ebbe parte per il fatto lo Scamozzi.

Dai Grimani passava per retaggio il palazzo ai Vendramin, aggregati alla nobiltà patrizia, per sovvenzioni largite alla patria, ali” occasione della guerra di Chioggia, ed assunsero il cognome Calergi. Si legano così alle memorie della patria quattro prosapie ragguardevoli, che si succedettero nel possesso di queste soglie suntuose. Alla casa dei Vendramin, distinta per prelature, generalati e stole procuratorie, apparteneva il Doge Andrea, il più bello, gentile e ricco patrizio della città, generoso insieme e magnanimo, che da Sisto IV riceveva la Rosa d’oro.

A lui sorge il più insigne tra i monumenti, eretti dopo il risorgimento delle arti, tutto di fino marmo, con bassi rilievi, e statuette intorno al sarcofago, che sembrano tolte da gemme di greco intaglio; opera dal Temanza attribuita al Leopardi, e il segnale del vertice, scrive Cicognara, a cui giunse l’arte dello scalpello veneziano. Era nella chiesa dei Servi, ora nella maggior cappella del tempio dei Santi Giovanni e Paolo. Peccato, vi manchino le due statue, laterali all’urna, Adamo ed Eva; opera l’una di Tullio Lombardo, di cui sta sotto il nome scolpito, e forse suo lavoro anche l’altra, perché lo scrupolo di un parroco Domenicano, dopo tre secoli e mezzo, che erano al pubblico esposte, fu causa che venissero rimosse, e si consegnassero alla famiglia proprietaria. Alienato il palazzo dai conti Gaspare e Nicolò Vendramin-Calergi, ultimi superstiti, a S. A. R. la Duchessa di Berry, ad essa vendettero pure i due simulacri, che si vedono nell’antisala del primo piano. E rimane il desiderio, che siano restituite alla integrità del monumento, acciò non si deplori un giorno irreparabile il difetto. Insieme alle due statue, stanno due colonne di diaspro orientale, ch’ è tradizione, ma abbastanza gratuita, appartenessero al famoso tempio, che rese immortale Erostrato ; però è probabile, si recassero da Cipro dalla Vedova dei Lusignani. Della quale sta nel palazzo il ritratto, con quello di Cornelia, sua sorella, moglie a Paolo Vendramin, ed à ragione poi dello stemma Contarini nell’antisala, e sulla porta della riva, chiunque sappia, che un Giorgio Contarini fu cugino della regina Corner, e per prestata difesa, da essa otteneva ai posteri il cavalierato e il contado del Zaffo. Nel secondo ordine, ricco di stanze, come lo sono di ben 36 gli ammezzati, due camini figurano del 4500, ed altri eleganti nel palazzo sono lavoro del secolo XVII, con colonne di breccia nera. Furono queste soglie possesso anche del Duca di Brunswik; pochi anni appresso del Duca di Mantova. Ed è ben degna la mole di albergare dei principi, se principi erano i fondatori, essendo infatti questo il più ricco edificio, che la privata fortuna potesse erigere in Venezia.

Almeno i Vendramin alienandolo, e perdendo l’amore, ancora viventi, alla casa degli avi loro, vi ponevano la condizione, originata da qualche scrupolo di coscienza, che fosse sempre nella sua integrità custodito da un unico proprietario. E perciò rare pitture lo fregiano, insigni pinacoteche vi vennero aggiunte, e tante preziosità vi si ammirano, mercé il genio e l’amore per l’arti belle degli attuali principi proprietari.

L’epigrafe, che si legge sulla base di questo palazzo, non è più che il principio di un versetto del salmo: non nobis, non nobis, Domine, sotto intendendosi il resto sed nomini tuo da gloriam. Sarebbe prova della pietà e modestia insieme dei primissimi fondatori, che non inorgoglivano per il possesso di un invidiato e invidiabile edificio, su cui tre secoli e mezzo accumularono glorie artistiche e storiche, da renderlo più rinomato ancora, e più splendido. Ora per quanto ci consta, gli attuali signori stanno acquistando alcune fabbriche per demolirle e far sorgere un’altra ala a questo Palazzo, e un secondo giardino, per ingentilirne le attinenze. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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