Obelerio Antenoreo. Doge IX. Anni 804-810

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Obelerio Antenoreo. Doge IX. Anni 804-810.

Cacciati Giovanni e Maurizio Galbaj, fu eletto doge, in luogo loro, il già tribuno di Malamocco Obelerio Antenoreo, che chiese ed ottenne di potere associarsi al governo suo fratello locato. Erano però ridotte le cose a sì mal partito fra i Veneziani, che poco poi arsero fra loro fraterne discordie, a cagione delle antiche e non ancora assopite contese fra gli abitatori di Eraclea e quelli di lesolo, od Equilio, eccitate anche dai partiti franco e greco, sicché rimase quasi distrutta Eraclea, secondo narrano, tra gli altri, il Sagornino ed il Dandolo.

Vedendo Fortunato, patriarca di Grado, accorso allora in Italia, anzi ai margini delle lagune, volgersi a lui contrari gli eventi, si recò nell’Istria soggetta ai Franchi, ed ivi pose stanza, ove godeva grandissima autorità e sommi onori. Allora però, in grazia della molta confidenza che aveva con Carlo Magno, ottenne da esso di poter, come giudice e messo imperiale, regolare le cose tutte di quelle genti, ed ottenne anche dal medesimo amplissime esenzioni e privilegi, e fra gli altri quello di poter trafficare, coi quattro navigli spettanti alla sua chiesa di Grado, in tutti i porti del regno italico, con esenzione da ogni balzello. Laonde, arricchitosi sempre più, Fortunato si pose in grado di largheggiare grandemente tra i cortigiani, e di sedurre e trar gente al suo partito fra i Veneziani.

Infrattanto era rimasta vacante la sede vescovile di Pola nell’Istria, e Fortunato, vedendo che i nostri non volevano richiamarlo a Grado, si maneggiò presso Carlo, affinché il pontefice Leone III gli acconsentisse di occupar quella sede. A ciò lo moveva il desiderio di poter più da vicino osservare quanto accadeva fra i nostri, e prender dal caso regola e norma ai suoi futuri disegni.

Il pontefice, nell’accordargli, a malo in cuore, la grazia, ordinava però che dovesse rinunziare alla nuova cattedra, senza lederla nei suoi diritti, tostoché potesse egli ritornare all’antica di Grado: né mancò Leone di far intendere a Carlo, come Fortunato dava giusto e possente motivo di scandalo pel suo vivere perpetuamente immerso nelle cabale cortigianesche, pel suo smodato amore alle ricchezze e per quella vanità ed orgoglio di onori, dei quali non si vergognava di andare a caccia, postergando la dignità del sacerdozio e quella mansuetudine ed umiltà comandate da Cristo; dovendo, aggiungeva il pontefice, aver Carlo stesso compassione del danno che perciò soffrire doveva la coscienza di quel vescovo, da lui beneficato già in Francia e colmato di ogni favore. La perspicacia di Leone ben gli aveva fatto conoscere Fortunato, il quale, per sua parte, d’altro non pensava che di farsi ogni dì più accetto all’imperatore, non curando gli ammonimenti diretti del pontefice: e Carlo, in quella vece, sperando per di lui mezzo di estendere il proprio dominio anche nel Veneto Ducato, lo scelse a suo compare. Tanto infatti far seppe Fortunato, e coll’oro e colle pratiche, che poté placare i nostri; sicché, assolto dal bando, ritornava a Grado con animo di rendere più proficua l’opera sua a favore di Carlo, a cui era legato con vincoli di gratitudine e di sacra parentela.

Scorso alcun tempo, la pace conchiusasi tra li due imperi turbossi, perché Niceforo, inquieto al veder sempre più Carlo ingrandirsi nell’Europa, e ricevere perfino ambascerie dai potenti ed orgogliosi califfi saraceni, e con una flotta nel Mediterraneo tenere in freno Africani, Siculi e Spagnuoli, e quindi dominare Sardegna e Corsica, gli entrò nell’animo il divisamente di opporsi a quella sua crescente potenza. Laonde comandò si allestisse poderosa flotta; ed, allestita, la spediva nell’Adriatico, con alla testa il patrizio Niceta: il quale, visitate le città marittime dell’Albania e della Dalmazia, e presidiatele, giunse nelle venete lagune, ed ivi calò, l’ancora.

Al suo giugnere, Fortunato, siccome partigiano di Carlo, fuggì tosto da Grado e si riparò in Francia; e Niceta, sceso a terra, tanto operò, che, raccoltasi l’assemblea nazionale in Malamocco, dichiarò bandito non solo Fortunato, ma decaduto anche dalla sua dignità, eleggendo a nuovo patriarca di Grado il diacono Giovanni, già vescovo di Olivolo.

Niceta ancora, d’ordine di Niceforo, creò spatario il doge Obelerio, titolo cospicuo di quei tempi, che dava diritto, a chi ne era insignito, di usare veste propria e ricchissima, di cinger spada e d’impugnare una specie di scettro.

Essendo in Malamocco Niceta, conchiuse tregua di alcuni mesi coi Franchi, e quindi parti, conducendo seco l’altro doge Beato, il tribuno Felice ed il vescovo olivolense Cristoforo. Menò il primo, così desiderandolo egli stesso, affine di presentarsi all’imperatore; tolse i secondi, per espresso desiderio dei Veneti, essendo essi palesi partigiani dei Franchi ed amici intimi di Fortunato. Perciò, giunti questi ultimi a Costantinopoli, vennero banditi, nel mentre che Beato era insignito del grado d’Ipato, titolo assai più cospicuo di quello, cui era stato fregiato Obelerio. Ciò forse avvenne, perché Niceforo sospettava Obelerio partigiano di Carlo, avendo menata in moglie donna di franca nazione e d’illustre lignaggio, datagli, siccome dicono alcune cronache, da Carlo stesso; e perciò, decorando Beato di maggior grado, mirò trarlo al proprio partito per contrapporlo al fratello.

E che Obelerio inchinasse tutto a favore di Carlo lo dimostra, secondo rapportano alcune cronache, essere egli recatosi in Francia, o solo, ovveramente in compagnia d’ altri, fra cui con Donato vescovo di Zara unitamente a un cotal Paolo Duca, a trattare con Carlo medesimo di amicizia e di soggezione.

Conviene però osservare, che non facendo parola di cotesta gita né il Sagomino, né il Dandolo, scrittori antichi, e massime il primo, lontano solo di un secolo dal fatto, pare doversi tenere per dubbia, almeno in riguardo allo scopo a cui, si dice, mirava; tanto più quantoché le cronache posteriori che ne favellano, scritte furono dopo parecchi secoli, e da penne volgari spoglie di critica, e che attinsero dagli storici franchi, i quali sostengono decisamente che le lagune si assoggettarono allora all’impero occidentale. Ma convien riflettere, non esser possibile che ciò accadesse, e per li due forti partiti greco e franco che ardevano nelle lagune stesse, e per ciò che avvenne in appresso.

Vero è però che possente era il partito dei dogi, e che grande sostegno avevano fra i popoli originari da Padova e da Este; e ne è prova l’avere i dogi stessi riuscito ad associarsi al governo un terzo loro fratello di nome Valentino. Ma tutto ciò non vale a provare la dedizione dei Veneti a Carlo. Che se Obelerio ebbe a moglie donna francese, e se questa gli fu data da Carlo stesso, poteva dessa bensì trarlo maggiormente dalla parte dei Franchi, ma solo occultamente, aspettando tempo e occasione propizia per giovare alla causa che aveva abbracciato. Il Dandolo anzi assicura di aver rilevato in antiche scritture, come la moglie inducesse Obelerio a promettere il possesso delle Venezie a Carlo e a Pipino. Quindi bene esser può che Obelerio segretamente promettesse sudditanza a Carlo, senza però che i Veneziani il sapessero ed il volessero: e gli ingannasse poi dicendo loro tutt’altra cosa.

Se la gita in Francia d’Obelerio ebbe luogo, deve porsi però prima che la flotta greca, come accennammo, giungesse nelle venete acque, alla quale diedero soccorso i Veneziani, siccome coloro che in generale non inchinavano ai Francesi; prova cotesta, che varrebbe sola a smentire la dedizione sì decantata dagli storici franchi.

Trascorso alcun tempo poi dai falli narrati una seconda flotta greca, capitanata dal patrizio Paolo, giunse nelle lagune, essendo già per ispirare la tregua conchiusa da Niceta con Pipino. Tutto il verno dell’anno 808 stanziarono i Greci nelle isole e nei veneti lidi, occupandosi, in quel mezzo, Paolo nel trattare nuovamente con Pipino.

Ma scorsa la stagione jemale, e sorta la primavera dell’anno 809, senza che avesse egli potuto stabilir pace coi Franchi, volle tentare di togliere ad essi Comacchio, per aprirsi forse la via da colà verso Ravenna. Secondo alcune cronache risulta che si unissero i nostri ai Greci in quella impresa, che non riuscì; sicché convenne loro ritornare alle lagune.

Laonde, vedendo ormai perdute senza riparo le cose greche in Italia, Paolo fece del suo meglio per rannodare nuove trattative con Pipino. Sennonché, avvedendosi che i maneggi d’Obelerio gli erano d’impedimento: anzi, giusta  alcune cronache, scoperto che erasi perfino tese insidie alla sua stessa persona, sciolse sdegnato le vele, dirigendo le prue per alla volta di Costantinopoli.

Fu allor che Pipino si accese grandemente del desiderio di rendersi signore della Dalmazia, per vendicare così l’insulto ricevuto a Comacchio. Egli contava assai sui raggiri e sulle promesse del patriarca Fortunato e del doge Obelerio; perciò chiese ai Veneziani assistenza navale per la progettata spedizione. Tale domanda mise in somma perplessità la nazione: imperocché se si inchinava a Pipino, veniva a mancare apertamente alla greca alleanza; si metteva a rischio le persone e gli averi dei cittadini, che pei loro negozi si trovavano a Costantinopoli; si disseccava codesta sorgente ricchissima di traffico; si rendevano mal sicuri i mari, pericolosa la navigazione dei legni veneziani; si rinunziava infine alle antiche abitudini, agli antichi vincoli, alla comunanza d’interessi, di costumi, di civiltà che i greci ed i veneti popoli avevano sempre avvicinato. Ma dall’altra parte si opponeva: essere assai maggiore il pericolo rifiutando l’alleanza di un re si potente qual era Pipino, dal quale tutti i possedimenti veneziani si limavano circondati; chiuse verrebbero al traffico tutte le bocche dei fiumi che mettono nelle lagune; espulsi i mercatanti veneti da tutto l’ampio impero di Carlo Magno; infinite vie essere aperte anco per penetrare nel cuore stesso delle isole venete; nulla giovare in questo caso l’alleanza dell’imperator greco troppo lontano; bella essere la fede, care le antiche rimembranze, ma primo dovere essere quello della propria conservazione: e a che varrebbero i privilegi ed i commerci dell’ Oriente quando lo Stato più non esistesse?

Statuito dall’assemblea nazionale il rifiuto all’inchiesta di Pipino: il che mostra come il partito greco era allor prevalente; per non irritare quel principe, deliberò pur anco di spedirgli ambasciatori, che alcuni dicono essere stati gli stessi dogi Obelerio e Beato; e ciò affine di giustificarsi, adducendo la fedeltà dovuta agli antichi trattati; assicurandolo del resto di tutto il buon volere e la prontezza dei Veneziani in suo servigio, ove questo all’onore e alla fede da loro giurata non si opponesse. Giova rilevare però, che il Sagornino che, come notammo, visse più vicino al fatto, nulla dice di tutto ciò, e solo narra che l’alleanza che il popolo veneziano aveva in addietro col re d’ Italia, fu a quel tempo rotta da Pipino, il quale mandò numerosissimo esercito di Longobardi ad impadronirsi della provincia dei Veneti.

In tanta distretta non mancarono i Veneziani a sé stessi; implorarono l’aiuto celeste con orazioni e con atti pietosi; avvisarono i loro concittadini, che commerciavano nelle terre d’Italia, di porsi in salvo; raccolsero sollecitamente provvigioni; spedirono a Costantinopoli per soccorsi. In pari tempo con palafitte, con sassi, con affondati navigli adoperarono ogni ingegno a chiudere il passo dei canali; levarono a questi le guide, fortificarono ed abbarrarono le entrate principali e le terre vicine al continente. Tutto era movimento; si costruivano barche, si piantavano pali, si addestravano i cittadini alle armi ed al remo, e incoraggiati dai sacerdoti e dai capitani attendevano animosamente il nemico.

Pipino dal canto suo, preparata, coll’aiuto dei Ravennati e di quelli di Rimino, di Comacchio e di Ferrara, una flotta, s’avanzava nelle lagune. In pari tempo le genti dell’Istria e del Friuli assalirono Grado, che dovette arrendersi dopo vigorosissima difesa, fattavi da un maestro dei militi della veneta famiglia dei Vanii. Di Caorle nulla sappiamo, ma ci è noto bensì come altra armata, fatto impeto contro Eraclea, Jesolo, Fine ed i luoghi vicini, li ridusse egualmente a soggezione, e li mise a ferro ed a fuoco. Poscia i Franchi s’inoltrarono pei lidi settentrionali del Pineto, di Lio maggiore, di Saccagnana incendiandoli tutti. Gli abitanti fuggivano a Burano, Torcello. Mazzorbo e nelle altre isole, contro le quali nulla poterono intraprendere gli invasori per la difficoltà dei passaggi; come nulla tampoco tentarono dal margine di Campalto, Tessera, Mestre e Butenico, benché posti di fronte al gruppo delle isole Torcellane e Realtine, essendone i canali ben muniti, e tolte dappertutto le guide. Né poterono nulla imprendere, per la cagione medesima, nei margini verso Utilia 0 Abbondio, e S. Ilario. Diresse quindi Pipino gli assalti dai lidi meridionali; e invase l’acquoso paese vicino alle foci del Po e dell’Adige, bruciando Fossone, Capo d’Argine, Laureto, Brondolo e le due Chioggie: superati poscia, con grave difficoltà, i posti di Brondolo, Chioggia e Pelestrina, tentò varcare anche quello d’Albiola, or Portosecco.

Quanto venne egli operando per vincere tutte le difficoltà che gli si affacciarono a quel punto; quale fosse la battaglia data da lui ai Veneziani; quale la rotta a cui andò soggetto, per cui dovette ritirarsi, abbandonare I’ impresa, e calare agli accordi; quali da ultimo le favole di cui ornarono, i vari scrittori, il racconto di questa vittoria, il tutto si potrà leggere nella illustrazione della Tavola CLXIX, ove è descritto il dipinto di Andrea Vicentino, che si vede nella sala dello Scrutinio, esprimente il fatto stesso.

Poco dopo che Pipino si era ritirato a Milano, ove morì, secondo Eginardo, il dì 8 luglio 810, veniva da Costantinopoli Arsacio Spatario, o, come altri lo appellano, Ebersapio, per trattare di pace; ma perché appunto trovò passato alla seconda vita Pipino, proseguì il suo viaggio in Aquisgrana, ove si trovava Carlo. Fu colà quindi ristabilito il buon accordo tra l’uno e l’altro impero, sulle norme antecedenti, rendendo i Franchi le terre occupate, e confermando gli antichi privilegi dei Veneziani nel regno italico. Ottenne, da altra parte Ebersapio dai nostri, che venissero posti a confine i due dogi Obelerio e Beato, uno a Costantinopoli, l’altro a Zara, quantunque alcune cronache dicano che il secondo, cioé Beato, perché favorevole ai Greci, continuò a reggere lo Stato fino alla sua morte, accaduta un anno dopo. Valentino, lor fratello, non temuto per la sua giovinezza, rimase nelle Venezie spoglio di ogni potere.

Dall’immagine di questo principe, che tanto il Sansovino, quanto il Palazzi ed altri, dicono rappresentare il di lui fratello Beato, incomincia la serie dei ritratti dei dogi, espressi nel fregio della Sala del Maggior Consiglio. Desso fu dipinto da Jacopo Robusti, detto il Tintoretto, e reca nella cartella che tiene nella destra la seguente leggenda, che è l’antica, riportata dagli scrittori anzidetti, e che per verità accenna piuttosto a Beato che ad Obelerio.

FRATRIS OR INVIDIAM REX PIPINVS IN RIVOALTVM VENIT:
DEFENDI PATRIAM SIBI GRATIFICATVS. (1)

(1) Il Palazzo Ducale di Venezia Volume IV. Francesco Zanotto.  Venezia MDCCCLXI

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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