Palazzo Dandolo Farsetti a San Luca

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Palazzo Farsetti a San Luca. In "Venezia Monumentale e Pittoresca", Giuseppe Kier editore e Marco Moro (1817-1885) disegnatore, Venezia 1866. Da internetculturale.it

Palazzo Dandolo Farsetti a San Luca

La mente s’inspira e s’innalza l’anima, all’udire soltanto, che abitò questo Palazzo Andrea Dandolo, primo fra i nobili che si fregiasse del dottorato, principe della patria di anni 33, avanti Marin Falier, e uno dei primi scrittori della storia di Venezia, e degli annali di tutto il mondo; uomo di gran merito, che seppe colle conquiste e col traffico aumentare le ricchezze della sua patria.

Da lui si ordinava la fondazione di questa mole, di gusto moresco, nella parrocchia di San Luca, la quale si può dire si fabbricasse dalla casa Dandola nel 1146, come fece il Doge ornare di nuovo con opere di mosaico, la cappella del Battistero di San Marco, ove una bell’urna rinchiude le sue ceneri. Egli emulò Enrico Dandolo, il celebre guerriero e politico, che fece il grande rifiuto della corona di Oriente, e che era della stessa linea, ma per gelosia di Stato si tenne distinto dall’altro, onde sorsero separati i due palazzi, quello di Enrico, contrassegnato da lapide, ridotto ora a minime proporzioni, ambedue ai lati del Palazzo Loredan.

Benché, con infelice consiglio, si sia dato un intonaco alla fronte di questo edilizio, quasi belletto su senile faccia a velarne i solchi del tempo, pure non è contesa all’ occhio abbastanza la vista dei vaghi ornati, dei capitelli moreschi, dei binati graziosi delle colonnette, e di tutta la parte gentile dello squisito disegno, fino al secondo piano, di un’architettura bizantina. Si ha memoria che fino dal 1584 risiedesse in questo palazzo, divenuto per il tempo malconcio, il collegio delle nove Congregazioni del Clero, che fu sostituito dall’attuale Commissione alle rendite capitolari. Ciò denota l’epigrafe sulla porta, sotto il portico di San Paterniano.

Lo comperava poi Anton Francesco Farsetti, che, con innate idee di grandezza e di magnificenza, versando a piene mani le ricchezze, lo rese teatro del suo genio e albergo delle arti belle, avendo mirato a far più interessante ancora, colle reliquie dell’Italia, questa città, emula a Roma, che ebbe i lidi per mura, il mar per dominio, le isole per corona.

Radicale fu la rifabbrica, a cui si pose mano, e se ne vedono tracce negli ordini superiori, rispettate, con imitabile esempio, le antiche impronte dell’arte. L’atrio d’ingresso si affaccia grandioso allo sguardo. Ivi le statue, in pietra cotta, sono due del Marinali, altrettante della scuola del Bonazza. La gradinata è magnifica, in tre rami, d’ordine dorico, ricca di marmo, sì nei ripiani che nelle pareti; queste fregiate di affreschi del Fontebasso. Nel ramo di mezzo dei balaustri sono riempiti i parapetti di fregi di bronzo, di ottimo stile e disegno, e ad ogni lato esterno stanno due teste di leoni, pure di marmo.

Il disegno della scalea è alla maniera del Tirali, e sulla sommità si apre una loggia, sorretta da quattro colonne; altra si apre di fronte, per cui si gira all’intorno, con altrettante colonne, ornate di capitelli jonici; una lanterna, o pinacolo, in aria, fa le veci di plafone, con otto balconi a mo’ di cerchio. Da essa scende riflessa la luce su dipinto, di buona scuola, di Giovanni Battista Zugno, che rappresenta il genio delle Arti, inspirato dai Numi.

Per tutto il palazzo vi è ricchezza di marmi; nella sala del primo ordine sono di marmo africano le quattro colonne sul limitare; le porte, in gran numero, hanno tutte i contorni di marmo, e ben sedici poggioli, di marmo di Carrara, si vedono sporgenti lungo la calle Loredan. Ivi si riconoscono di marmo greco le colonne, che sorreggono le arcate, sepolte nelle muraglie di un cortile, di attinenza alla fabbrica. Per tutto s’incontrano terrazzi a bel disegno, lavori di stucco, camini di marmo, decorazioni, e dipinti dell’Amigoni, del Guaranà e della scuola dei Tiepolo.

I Farsetti, da Luni città della Toscana e da Lavacchio, recatisi a Massa, consanguinei ai Cattani e ai Ceccopieri, erano nobili feudatari, con privilegi nel Ferrarese, per acquisti fatti dai Bentivogli e dai duchi Estensi, nel 1561, e da ultimo fiorirono in Roma. Avendo eletta stanza in Venezia, largirono subito centomila ducati alla Repubblica, per le guerre ottomane, e si segnalarono poi per tratti di principesca magnificenza. Essendo stata massima infatti della Repubblica, che quando un Monarca giungeva col proprio nome sulle lagune, ne facesse il pubblico le spese, ma quando era incognito, fossero destinate alcune famiglie patrizie ad ospitarlo, Anton Francesco Farsetti, podestà a Vicenza, sostenne il decoro del Senato nel ricevere Federico IV re di Danimarca, sotto il nome di conte di Olderbengo.

E aperse a danza pubblica il teatro Olimpico Palladiano; diede lauta cena a ben cento soggetti, e solenni feste, ed allestiva in quell’occasione, a sue spese, una lettiera tutta d’oro, con ricchi cortinaggi a ricamo. Il mobile prezioso si tenne lunga pezza in questo palazzo, e come oggetto di curiosità si accorreva con frequenza a vederlo. Rimase il Re, per tanta accoglienza, meravigliato, e levate le mense, toccava ambe le spalle colla punta della spada al Farsetti, creandolo cavaliere, onde insorse una disputa in Senato, per temuta contravvenzione all’etichette politiche, e fu sciolta coll’insignire il rappresentante del cavalierato della stola d’oro: eccezionale distinzione a famiglia, di fresco aggregata al veneto patriziato. Né fu minore per magnificenza l’animo di Maffeo, che per l’amicizia col Barberini assunse il nome, che quel cardinale aveva, prima di esser papa Urbano VIII.

Egli, governator del Conclave, erogava centomila scudi romani in tre mesi meritando l’onore di una medaglia, coniata con lo stemma della Casa, e l’arcivescovato di Ravenna da Benedetto XIII, che, assistito da nove vescovi, lo consacrava nella cattedrale di Benevento.

Nessuno poi dei Farsetti fu straniero all’amore per le scienze e per le arti, ed ebbero a dozzine per due secoli l’alloro dottorale nelle università d’Italia. E chi non ricorda Tomaso Giuseppe, cultore celebre delle lettere greche, latine e italiane, che legò opere e codici manoscritti alla libreria di San Marco, nei cui recinti si legge tuttora l’iscrizione che meritò dal Senato?

Ma a tacere di tanti illustri, ci limiteremo all’abate Filippo, che emulo di quel Luigi XIV, che ricondusse i più bei secoli della Grecia e di Roma, concepì il sublime pensiero di fondare una scuola in Venezia, per far fiorente e classico lo studio dell’arti tutte gentili. Quindi uscì di patria ad osservare i costumi dei popoli, gli avanzi dell’antichità, e i monumenti delle arti, e viaggiò sulla Senna, sul Tamigi e sul Tevere, con regale dispendio, procacciandosi da Roma tutte le copie delle statue e dei gruppi, un gran numero di bronzi dei migliori maestri, i modelli de’ più famosi scultori, gli schizzi de’ pittori più celebri.

Fece ritrarre anche in sughero e in pietra pomice i modelli degli archi di Tito, di Settimio Severo, di Costantino, dei Templi di Cecilio Metello a Capo di Bove, e della Sibilla di Tivoli, e fece copiare i miracoli del pennello, di cui il Garacci riempiva la galleria Farnese e Raffaello le logge del Vaticano.

Per tal guisa, questo Palazzo divenne a un tratto il santuario delle ricchezze, tesoreggiate dai viaggi, e si trasformava per incanto in galleria, anzi in pubblica accademia, la cui fama corse per tutta la colta Europa, mercé la descrizione, che l’abate Dalle Laste inviava all’accademia di Cortona. In quelle ricche sale si ammirava quindi l’Antinoo del Campidoglio, il Gladiatore di Villa Borghese, il torso di Belvedere, il Redentore di Michelangelo, la Venere dalle belle natiche della galleria Farnese, fra novantatré statue grandi di gesso. Tu t’incontravi nel Meleagro del Museo Vaticano, nel Ganimede con l’aquila della Villa Medici, nella Venere che si leva lo spino dal piede della galleria di Firenze, nel busto di S. Pietro in Roma del museo dementino. Scorgevi inoltre bassorilievi di ornati, e figure in bronzo e pitture del Palma, del Guercino, di Andrea dal Sarto, di Paolo, del Tiziano, di Salvator Rosa, del Zuccherelli, e opere di maestri fiamminghi e olandesi.

Avevi in somma sott’occhio quanto di prezioso esiste tra monumenti dell’antichità, e del bel tempo d’Italia, in Firenze, in Napoli, e specialmente in quella Roma, che associa, con unico esempio, le reliquie dell’arti spente ai prodigi dell’arti rinate, i resti della magnificenza dei Cesari ai monumenti della liberalità dei pontefici; città augusta, consacrata dalle ceneri degli eroi e dal sangue dei martiri.

Si apriva allora uno studio ai cultori del bello, sfolgorava ai giovani per la prima volta la luce di quei sublimi modelli, s’istruivano nella imitazione degli antichi, senza uopo di viaggiar lungi da Venezia per conoscerli; servigio ben grande, reso agl’ingegni in un tempo, che le arti del disegno erano in decadenza. Né può dirsi quale rivolgimento in esse nascesse, per la potenza di quel magistero, e nel buon gusto che s’introdusse nelle opere degli artefici.

Alla foggia delle pubbliche Accademie, il Farsetti emulava gli alunni coi premi; stipendiava uno scultore, per dirigere l’impresa, e destava la meraviglia dei nostrali non meno, che dei forestieri. Ed era gloria del Farsetti e di questi recinti, che qui attingesse il Canova le prime teorie del bello, avanti che gli si aprissero i tesori di Roma, poiché in questa scuola cominciò ad educare la mano, operatrice dei miracoli dello scalpello.

E quando, di quattordici anni, come ci racconta il Cicognara, esordiva la sua carriera, lavorava in marmo due panieri di vinchi, zeppi di varie frutta e li donava al Mecenate, che, quale primizia di offerta votiva, li collocava sui balaustri della scalea di questo palazzo. E fu assai gentile il pensiero, che quanti alle soglie accedevano avessero l’agio di conoscere le produzioni primaticce di quel genio adolescente.

Questi corbellini, intagliati in rame dal Comirato, quivi stettero fino al 1852; nel qual anno si trasferivano nel Museo Correr, per garantirne meglio la custodia, e come una rarità, che era divenuta diritto ormai della storia e della patria, avendo cessato dall’ufficio di rappresentare la privata riconoscenza verso il Farsetti del giovanetto scultore.

Morto il fondatore dell’Accademia, si continuò a tenerla aperta dal cugino ed erede, co. Daniele, e finché durò la Repubblica, non permisero gli Inquisitori di Stato, che rimanesse menomamente alterata. Pareva anzi, che a malincuore se ne chiudessero le soglie, poiché si diedero le prime lezioni, anche al tempo del Governo Italico, nelle camere, ove si conservavano i gessi, passati poi all’attuale Accademia di belle Arti.

Ma pur troppo le migliori opere si dispersero, colle reliquie del patrimonio, come cadde quasi distrutta la principesca Villa di Sala, con erudizione e diligenza descritta dal cavaliere e professore Emilio Dottor Tipaldo, la quale costò un milione di ducati, e che era dell’ estensione di ben settantaquattro campi, rara per vasche di pesci, razza di fagiani, piante esotiche, giardino botanico, e conserva di cedri, foggiata a settantadue archi di ferro, dorati ad oro di zecchino, passata in proprietà di una Corte Imperiale.

Bene insomma poteva dirsi, che il Farsetti, nella condizione di privato, paragonò la magnificenza dei principi, e nel decadimento della patria rinnovò i prodigj della sua passata grandezza.

Questo Palazzo passò ad uso di Albergo della gran Bretagna, e nel 1826 il Comune di Venezia lo acquistava dalla nobile donna Adrianna Da Ponte vedova di Antonio del fu Daniele Farsetti, con istrumento in Atti Occioni, notaro veneto, per il prezzo di centomila lire austriache: altrettanta somma, e più forse, si erogava a ristorarlo e ridurlo; e decorava una Sala con disegno di ornati dell’Orsi.

Fu così bell’opera cittadina di togliere al profano uso un santo ricordo di glorie, la magione di Andrea Dandolo, principe istoriografo della patria, e di Filippo Farsetti, principe mecenate delle arti, al quale non dubitiamo sia per decretarsi dal Municipio l’epigrafe che manca, a troppo doveroso ricordo dell’insigne fondatore della prima nostra Accademia. (1)

(1) GIANJACOPO FONTANA. Cento palazzi fra i più celebri di Venezia (Premiato Stabilimento Tipografico di P.Naratovich. 1865).

FOTO: Alfonso Bussolin. Pubblicazione riservata. Non è consentita nessuna riproduzione, con qualunque mezzo, senza l'autorizzazione scritta del detentore del copyright.

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